Non a mani nude

Erano sempre state lì, immobili. I sette nani, Biancaneve, Cappuccetto rosso, la Fata turchina e tutte le altre bambole di pezza di sua nonna. Sempre lì, immobili, sulla cassapanca accanto alla porta. O almeno a lei sono sempre sembrate immobili. Sua madre ha sempre avuto l’incredibile abilità di rimuoverle, spolverarle e rimetterle allo stesso identico posto. Identica collocazione, identica posa. Per Lavinia, sedici anni, erano immobili, anche perché le operazioni di pulizia le svolgeva sempre la domenica mattina mentre lei era a messa.
Sua nonna le portò a casa all’età di trentanove anni, quando il nonno venne ucciso in modo orrendo. Fu ritrovato nel loro negozio di giocattoli con una serie di morsi sul collo, sul viso e lungo gli arti e con il ventre squarciato. Fu sbranato. Da chi? La Polizia non l’ha mai scoperto.
I due giocattolai avevano solo una figlia, Teresa. Poi Teresa, la mamma di Lavinia, si sposò e la nonna andò a vivere con lei, in quella che poi diventò la sua stanza. La stanza di Lavinia. La nonna morì tre mesi prima che lei nascesse. Aveva sessantadue anni. Sua madre non ha mai voluto disfarsi di quelle bambole, uno dei pochi ricordi lasciati dalla nonna, e nemmeno spostarle. L’unico favore che chiese a Lavinia, all’età di quattro anni fu: “Ti prego, non toccarle”.
Dodici anni dopo quella richiesta, Lavinia viveva sola con sua madre e il piccolo cane Poldo, un pincher dal pelo nero come la notte, suo padre era andato via di casa da oltre cinque anni, e aveva mantenuto il patto stretto con sua mamma. Non di rado, però, amava sedersi di fronte alle bambole e fissarle, scambiando anche qualche parola. Senza essere ricambiata.

«Mamma, perché la nonna portò a casa le bambole?».
«Perché nonna era una giocattolaia».
«Sì, ma perché proprio queste e non qualche altro giocattolo?».
«Non mi ha mai spiegato bene il perché, so solo che era molto legata a loro. Le acquistò nell’ultimo viaggio a Londra fatto con il nonno» e alla parola “nonno” gli occhi grandi e verdi di Teresa s’inumidirono.
Quella mattina, mentre osservava con attenzione lo sguardo tenero di Cucciolo, a Lavinia vennero in mente le immagini e le parole dell’ultima volta che aveva chiesto a sua madre delle bambole, erano trascorsi all’incirca tre anni.
«E tu non guardarmi così» disse con tono serioso rivolgendosi a Brontolo, appena il ricordo fu svanito.
Poi lasciò quel mondo di pezza e uscì di casa.

«Dai, Poldo, per oggi basta».
Dopo due ore trascorse a giocare con l’animale di casa nel piccolo giardino collocato sul retro, le parole di Lavinia non sortirono l’effetto sperato. Il piccolo pincher proseguiva imperterrito con il suo moto rapido e circolatorio intorno alle esili gambe della ragazza, con una pallina da tennis sfilacciata tra le fauci e l’aria festosa.
«Dai, sono stanca di lanciarti questa palla. Basta» disse inarcando le labbra chiare verso il basso.
Ma Poldo, incurante, iniziò a saltarle sul fianco, inumidendole la mano destra con il suo naso.
«Entra in casa, su».
Il cane eseguì l’ordine voltando rapidamente, più e più volte, la testa per controllare che anche la sua padroncina lo seguisse all’interno. Trovata conferma, e assicuratosi della chiusura della porta, Poldo riprese la sua attività “persecutoria”.
«Basta, basta! Poldo!» e, urlando, Lavinia alzò una mano prefigurando la nascita di un ceffone che mai sarebbe stato partorito.
«Mamma, puoi chiamare Poldo? Oggi non mi dà pace».
«Poldo, su bello. Vieni da me» disse candidamente Teresa mentre la figlia si spostava verso la sua camera.
Raggiunto il suo ambiente, Lavinia si sedette sul letto iniziando a slacciarsi le scarpe da ginnastica rosa con le bande verticali verdi. Prima di completare l’operazione comparve tra i suoi piedi il pincher che scodinzolava allegro.
«Ancora tu? E dai!».
Presa dallo sconforto, non aveva davvero più intenzione di giocare con lui quel giorno, Lavinia strappò la palla dalla bocca di Poldo e la lanciò verso la porta aperta, superandola.
Il cane, di slanciò, si voltò e con passi rapidissimi avviò il suo giocoso inseguimento. Nei pressi della porta, però, l’animale, per la troppa foga, perse aderenza nelle zampette e si scontrò contro la cassapanca. Cucciolo ed Eolo, i pupazzi collocati più esternamente, crollarono al suolo. Poldo concesse loro solo una rapidissima e disinteressata occhiata, poi, rimessosi dal colpo, riprese la sua corsa.
Lavinia osservò la scena con fare divertito. Poi nella sua mente si accese qualcosa: “Ti prego, non toccarle”.
«Cavolo, Poldo» sussurrò per non esser sentita da sua madre.
Di scattò si alzò dal letto, raggiunse le due bambole e le rimise con cura al proprio posto cercando di ricreare le identiche, solite, posizioni. A lavoro ultimato, soddisfatta, chiuse la porta e si gettò nuovamente sul letto.
“Speriamo mamma non si accorga di nulla”.

“Tesoro, hai per caso toccato le nuove bambole che ho portato da Londra?”.
“No, mamma. Perché?”.
“Mi sembra siano state spostate”.
Teresa, nove anni, fece spallucce, mentendo. Qualche ora prima era andata in negozio, come ogni pomeriggio, per giocare con suo padre. Rimasta sola dopo l’ingresso di un cliente, era stata attratta magneticamente dai pupazzi londinesi. Si avvicinò, troppo, perse l’equilibrio e cadde trascinando con sé alcuni di loro. Dopo alcuni secondi di timore dovuti all’aver disobbedito a sua madre, il suo cervello reagì e ricollocò alla meglio le bambole al proprio posto.
“Stai attenta, non devi mai toccarle, soprattutto a mani nude. Sono molto delicate. Te l’ho già ripetuto più volte”.
La mattina seguente suo padre venne trovato morto.
L’immagine, sfocata dagli anni ma comunque vivida nella sua mente, apparve a Teresa appena mise piede nella camera di sua figlia.
«Tesoro, hai per caso toccato le bambole di nonna?» chiese appena Lavinia fu rincasata da scuola. Quella mattina, sistemando, come di consueto, il letto di sua figlia, aveva notato qualcosa di strano nella teoria di pupazzi.
“Ecco, lo sapevo” pensò Lavinia posando lo zaino dalla vistosa fantasia floreale accanto al portaombrelli posto poco oltre la porta di accesso.
«No, perché?» rispose poi mentendo.
«Le prime due a sinistra mi sembrano spostate».
«Sarà una tua impressione mamma».
«Forse hai ragione».
Lavinia sorrise.
«Dai, ora pranziamo e poi andiamo da zia».

«Poldo, siamo tornate».
Dopo aver fatto visita a zia Bibbiana, unica sorella ancora in vita di sua madre, la madre di Teresa, e aver fatto un salto dal fruttivendolo per acquistare le mele, “quelle dalla buccia rossa”, che tanto piacevano a Lavinia, le due donne tornarono a casa. Era quasi ora di cena.
«Poldo, dove ti sei cacciato?» chiese la ragazza.
«Sarà come sempre in salotto, a giocare tra le gambe del tavolo».
Lavinia seguì l’input di sua madre ma il cane non c’era.
«Poldo! Poldo!» riprese a chiamarlo senza ottenere una risposta scodinzolante. Intanto proseguì nel giro di casa alla sua ricerca.
«Poldo!!!». Questa volta non fu un semplice richiamo ma un urlo straziante. Giunta nei pressi della sua camera, lo sguardo di Lavinia incrociò una massa scura e informe sul pavimento. Raggiunto l’interruttore e azionatolo, la lampada fluorescente a luce calda illuminò una poltiglia di sangue e pelo nero. Poldo.
«Oddio!» strillò la madre accorsa immediatamente.
Ciò che restava del pincher, una carcassa squartata e mutilata, con evidenti segni di morsi sul corpo, i bulbi oculari strappati, una delle zampe anteriori staccata dal corpo, era lì, inerte. Impiegarono quasi due ore per riprendersi dallo shock. Poi la madre trovò il coraggio di rimuovere quei resti e pulire il pavimento.

“Non vorrei esagerare ma credo che l’espressione degli occhi di alcuni dei nani sia cambiata. Forse è solo una mia suggestione. Non so” pensò Lavinia osservando i pupazzi mentre lisciava tra le mani la sua lunga coda bionda, dopo averla spostata sulla spalla destra e fatta ricadere in avanti.
Era domenica ed erano trascorsi tre giorni dalla morte di Poldo.
«E quelle cosa sono?».
La ragazza notò alcune macchie rosse ai lati della bocca di Brontolo e Mammolo. Si avvicinò per osservare meglio ma la voce di sua mamma la interruppe. Era ora di andare a messa.

“C’è qualcosa che non mi torna” pensò Teresa dopo aver indossato un paio di guanti in lattice ed essersi chinata per iniziare la fase di rimozione e pulitura dei pupazzi.
“E queste? Cosa sono?” si chiese osservando delle macchioline rosse che comparivano ai lati della bocca Brontolo.
Afferrò il nano e lo posò a terra, si voltò per raccogliere il solito panno e, all’improvviso, sentì una fitta al polpaccio destro.
«Cosa diavol…».
La frase non fu terminata. La sua attenzione fu canalizzata da una serie di occhietti rossi che la fissavano, da tante bocche che ghignavano, da numerosi corpi di pezza che le si avvicinavano.
Impietrita, non tentò nessuna reazione. In un lampo le bambole le furono addosso. Cappuccetto rosso puntò alla gola strappandone un brandello, alcuni dei nani indirizzarono il proprio interesse verso le braccia, gli altri si divisero banchettando tra il viso e le rimanenti parti del corpo.

«Mamma, sono tornata».
Alle 12,45, come ogni domenica, Lavinia rientrava a casa per pranzo, dopo aver trascorso l’ora post-messa con le sue amiche.
«Mamma, dove sei? Oggi non si mangia?».
Nessuna risposta.
“Boh. Sarà uscita”. E si recò in camera per togliersi di dosso i “vestiti della festa”.
«Ma-ma-ma…». Alla vista di ciò che restava del corpo di sua madre svenne.
«Ahia! Ma cosa succede?». Trascorse pochi minuti priva di sensi, poi, come nella più macabra delle favole, furono i morsi delle bambole a risvegliarla.
«Mamma! Aiuto!» urlò disperata. Poi i suoi occhi incrociarono le orbite oculari che fino a poco tempo prima contenevano quelli di sua mamma e capì che non avrebbe mai ricevuto l’aiuto invocato.
«Mamma! No!».
Intanto gli esseri di pezza l’avevano avviluppata e, smaniosi, affondavano i propri denti nella giovane carne.
Cercò con tutte le forze residue di divincolarsi dagli assalitori ma il morso alla giugulare di Biancaneve le diede il colpo di grazia.

«Papà, ma quelle che si muovono dietro la finestra sono delle bambole?».
«Dove, tesoro?».
«Lì, in quella casa» disse la bambina indicando l’edificio squadrato a due piani, grigio tortora, dalle ampie finestre.
L’uomo, fermò per un istante il suo passo, voltò il suo sguardo verso quella che era l’abitazione di Lavinia e incrociò gli occhi inquietanti di un pupazzo. Lo fissò, poi il sorriso diabolico della bambola lo spinse a riprendere il cammino.
«T-tesoro, andiamo a casa».

(pubblicato nell’antologia “Oscure presenze” – Le Mezzelane, 2018)

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