Rumore Bianco, Il – Antropocene

IL RUMORE BIANCO

Antropocene (2016)

Fading Records / Ma.Ra.Cash Records

Dopo essersi messo positivamente in mostra con l’EP “Mediocrazia” (2013), Il Rumore Bianco ha compiuto l’atteso passo successivo: nel 2016 ha pubblicato l’album Antropocene.

Alessandro Zara (voce), Thomas Pessina (tastiere, synth), Michele Zanotti (chitarra elettrica e acustica, sax tenore), Giacomo Banali (chitarra elettrica) e Alessandro Danzi (basso), ben coadiuvati da Andrea Sbrogiò (batteria e percussioni in tutti i brani eccetto Tempio Pallido e Antropocene Pt. I), Umberto Sartori (batteria e percussioni in Tempio Pallido), Federico Lonardi (chitarra elettrica ne Il capitale umano e Il giudice e il bugiardo), Eddy Fiorio (synth in Al crepuscolo dell’animaMediocraziaTephlon [Club]Il giudice e il bugiardo e Antropocene Pt. II) e Carlo Cappiotti (voce in Antropocene Pt. II), hanno edificato la loro nuova struttura musicale partendo dalle buone basi gettate con il lavoro precedente: solido progressive rock ricco di influenze jazz-rock, post rock ed elettronica, un vortice di suoni scuro e possente che sa essere anche intimo e carezzevole.

Antropocene, termine che indica l’attuale epoca geologica in cui l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita è condizionato in modo considerevole dagli effetti dell’azione umana, si caratterizza, inoltre, per i testi (scritti da Pessina) per nulla banali: riflessioni attuali nate spesso da un disagio personale e da storie di vita vissuta, che descrivono come ci si sente nella moderna e tentacolare società metropolitana. Nello specifico, pur non trattandosi di un concept album, i vari brani ruotano attorno ad un sentimento di progressivo abbandono della natura umana primordiale e del suo lato più ancestrale, rimpiazzato dall’uomo lavoratore nelle città moderne e da un senso di non appartenenza alle nostre vite “metropolitane” artefatte.

E anche l’occhio ottiene la giusta “ricompensa”: lo stimolante e cupo artwork creato da Davide “Il Bosca” Zuanazzi, che culmina nella suggestiva cover dell’uomo-albero, è la perfetta confezione grafica per Antropocene.

Al crepuscolo dell’anima si apre con un’atmosfera massiccia ben sorretta dal passo celere della batteria di Sbrogiò e del basso di Danzi, con sferzate di chitarra in cui s’immerge l’espressiva voce di Zara, un flusso interrotto dall’inizialmente “impalpabile” e successivamente intenso intermezzo. Nel crepuscolo del secolo buio, Medioevo illuminato / Grandi democrazie, esportano bombe poi, guerra e pace… […].

Articolata, nera e aggressiva Mediocrazia (titolo che richiama l’EP d’esordio). Dopo un avvio caloroso prende corpo un percorso costantemente mutevole che ci conduce tra le spire ruvide delle chitarre di Zanotti e Banali, i policromi tasti di Pessina (e dell’ospite Fiorio), il mai domo (ma sa essere anche tenero) Sbrogiò e il pulsante basso di Danzi, tutto arricchito dalla gran voce di Zara che ci “introduce” nella mediocrità: Abbracciato ai miei pensieri per vedere quanto sono stupido / per emergere e capire quanto male faccia la mediocrità. / Restare in questo campo di battaglia pensando che non ha un senso / cercando di ammazzare il tempo per scoprire quanto sia difficile. / Solo un biglietto per sedermi in mezzo agli altri convinto ormai di essere solo uno dei tanti. / Svanendo tra i miei discorsi per scoprire quanto sono inutili / per svelare e immaginare quanto sia difficile restarne fuori / da tutta questa assurda mediocrità.

Si vola oltremanica con l’avvio de Il capitale umano, un notevole e intricato ordito di ritmiche, sax, chitarre e tastiere che ha un intenso sapore jazz-rock e canterburyano. Poi una pausa sembra rompere la magia, ma ben presto rientra l’atmosfera alla Soft Machine, prima di cedere il passo al canto sovrastante di Zara posizionato su un leggero strato jazzato. Sarà un proficuo “tira e molla” tra le due parti, con la netta vittoria de Il Rumore Bianco british più corposo. Nella seconda metà del brano c’è spazio anche per schegge post. Da sottolineare, infine, l’ottimo lavoro del sax di Zanotti lungo tutto il brano. E il fatto che sia violento è genetico / o è l’ambiente a generarlo? / È il concetto, è la visione che per assurdo porta a questa falsa dicotomia / È la scusa, è l’unica teoria che porta il branco a ripudiare l’individuo / per convincerti che la vittima è il sistema / per dimostrare che il problema sei tu […].

Tempio pallido è la ballad de Il Rumore Bianco, anche se…. Ma andiamo con ordine. Il dialogo tra il soave piano di Pessina e il canto tenero di Zara, rafforzato poi dai lievi tocchi di batteria e chitarre, è il leitmotiv dei primi minuti. Tocca in seguito ai suoni sintetici dello stesso Pessina prendere in mano il brano dando vita ad una “suggestione” alla “Impressioni di settembre”. E poi arriva il finale: dimenticate tutto. L’atmosfera si fa quasi sinistra e decisamente ipnotica, con il parlato etereo di Zara che emerge all’improvviso. […] Piangere per me non serve a niente ora vivo nell’eternità / dove nulla è ideale ma c’è abbastanza per stare in pace. / Nessun tempio né cancelli né padroni con le chiavi per aprire / nessun luogo né materia né superficie da toccare per sentire / che tutto è libero così da scegliere dove andare […].

Tephlon [Club]. Il caleidoscopico episodio strumentale prende il via con un interessante frammento corale alla Van der Graaf Generator, prima di attenuare e dilatare sensibilmente i giri. Secondi di “ricarica” per il gruppo prima di avviare un discorso jazzato con batteria e sax protagonisti indiscussi. Poi il brano riprende vigore grazie, soprattutto, alle spigolose chitarre e alle tastiere, prima di esplodere nel finale. Grande prova.

Con Il giudice e il bugiardo torna in scena Zara. Inizialmente è lui il protagonista principale, con Pessina in sottofondo che crea la giusta tensione che cresce poco oltre, un po’ sulla falsariga de La Fabbrica dell’Assoluto. La tensione si dissolve più avanti quando il brano si dilata assumendo un velo malinconico, e un pizzico floydiano, lasciando in seguito la scena al solo di sax e alle successive scudisciate scandinave che mutano ancora il quadro. Non è finita perché il cammino continua a variare affidandosi alle notevoli doti dei singoli e alle atmosfere chiaroscurali collettive. Altra gran prova di forza.

Brano di “alleggerimento” la breve e poetica Antropocene Pt. I: il morbido canto di Zara si adagia candidamente sul flusso carezzevole del piano di Pessina e gli inserti leggeri di chitarra.

Antropocene Pt. II. Il capitolo finale di Antropocene parte quasi in sordina: suoni quasi centellinati (con un velato ma non troppo vociare di sottofondo) e largo spazio a Zara. Poi le ruvidità del duo chitarristico danno un primo scossone e il brano decolla, trascinato anche dalle ritmiche, sprigionando un flusso composito e ben amalgamato. Ottimo, nel contesto, il contrasto del misurato piano. Prima di chiudere Zara ci propone nuovamente la sua versione di “parlatore” (decisamente diversa da quella di Tempio Pallido) con un’espressività che ricorda quella di Franz Casanova de Il Babau & i maledetti cretini. E nelle parole c’è tutto il “malessere contemporaneo”, filo conduttore di questo non concept albumCosa pesa più in te? / L’etica o il moralismo? / L’adesione ingiustificata / a quel senso di bene comune / Speri solo di arrivare vivo al tuo commiato / Ti metterai ad abbaiare al tuo nemico come una cagna in calore, / dietro al cancello del tempo perso a commemorare un ideologismo da social network / davanti ad una birra… opinionismo da bar! / Davanti al mondo ad espletare il peggio di te / Davanti agli altri a esaltare il tuo egocentrismo! / Sei un’ipocrita! / Come me hai perso per strada il coraggio di ammettere che dietro la tua opinione inscatolata c’è il nulla / La tua presunta innocenza infine si è dimostrata solo una miserevole ammissione di colpa / In quest’ora barro i giorni che mancano alla fine / sperando ancora in coscienza di destarmi un giorno dal mio torpore…

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