Intervista agli Alcàntara

Un caro benvenuto a Sergio Manfredi (S.M.), Francesco Venti (F.V.), Salvo Di Mauro (S.D.M.), Vittorio Distefano (V.D.), Sebastiano Pisasale (S.P.) e Turi Platania (T.P.): Alcàntara.

S.M.: Piacere e grazie per l’opportunità!

F.V.: Ciao e grazie

V.D.: Ciao!

S.P.:  Grazie, piacere di conoscerti virtualmente

T.P.: Ciao!

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Alcàntara e cosa c’è prima degli Alcàntara nelle vite di Sergio, Francesco, Salvo, Vittorio, Sebastiano e Turi?

S.M.: Sebastiano e Francesco sono stati miei compagni di band nei Chamberlain, progetto che ha dato vita a un disco prima dello scioglimento. Qualche anno dopo abbiamo iniziato a sviluppare le idee poi confluite negli Alcàntara.

F.V.: Ho registrato alcune bozze nel mio studio dopo la fine dei Chamberlain, quindi ci siamo riuniti con Sergio e abbiamo iniziato a lavorarci insieme.

V.D.: Passione, determinazione e condivisione sono questi tre dei concetti chiave che muovono la mia vita ogni giorno e che hanno rappresentato un punto di forza nella nascita e nella crescita del progetto Alcàntara.

S.P.: Il progetto nasce dalle idee di Ciccio (detto anche Cicciput, per evidenti motivi) e da un numero indefinito di ore che io e Sergio abbiamo trascorso con lui in studio. Prima ci sono diversi anni universitari persi per il suddetto motivo… e, appunto, il progetto con Sergio e Ciccio sotto il nome di Chamberlain.

T.P.: Ho seguito il progetto durante le registrazioni iniziali e con il tempo me ne sono innamorato! Una volta chiamato in causa dai padri fondatori sono entrato nel tunnel e non ne sono più uscito.

Alcàntara: se non vado errato, il vostro nome s’ispira ad un fiume siciliano. Come avviene la sua scelta?

S.M.: Cercavo un nome che non fosse banalmente anglosassone ed emanasse un che di misterioso. Credo di averlo trovato.

F.V.: Ha scelto Sergio e a me stava bene.

V.D.: Lascio la parola a Sergio… il poeta del gruppo!

S.P.: In realtà non lo so. Sono entrato in sala e Francesco e Sergio han tirato fuori il nome.

T.P.: In realtà sono entrato a cosa fatta, ma il nome sposa benissimo il progetto! Perché gli Alcàntara sono un fiume di suoni, note, contenuti e atmosfere!

Nonostante la giovane età del progetto, avete già all’attivo un album:Solitaire”. Vi va di narrare il percorso che vi ha portati dalla prima nota scritta su carta al vostro esordio discografico e, dunque, la genesi dell’album?

S.M.: La scintilla è nata da Francesco. Come dicevo, avevamo già suonato insieme, quindi è stato naturale ascoltare le sue idee. L’entusiasmo e un po’ di incoscienza ci hanno spinto a trasformarle in qualcosa di più concreto, sino a “Solitaire”. C’è stata tanta gestazione dietro e forse si sente.

F.V.: È un po’ quello che ho detto prima, ci siamo semplicemente ritrovati a suonare insieme sentendo quella “magia” che serve sempre per muovere tutto.

V.D.: Sulle date lascio che siano Francesco e Sergio a raccontarle, quello che posso aggiungere è che dal percorso che ha portato al compimento di “Solitaire” ci portiamo numerosi aneddoti da narrare. Momenti di entusiasmo, momenti di sconforto, momenti di vero confronto e strafalcioni divertenti… insomma un vero mix di emozioni!

S.P.: È stata una gestazione lunga e tormentata. Di solito si parte da piccole idee – un arpeggio, un giro di basso – per poi aggiungere piano piano. Abbiamo lavorato come dei chimici.

T.P.: Lascio la parola a Ciccio e Sergio!

Solitaire” è un concept album, una dichiarazione di Resistenza che, attraverso i suoi testi, denuncia il declino della società e della classe politica, chiamando tutto il popolo a unirsi e a resistere. Chi di voi vuole approfondire la tematica dell’opera e il modo in cui è stato affrontato e sviluppato il tema?

S.M.: Comprendo la domanda ma sono restio a rispondere, nel senso che non credo agli approfondimenti delle opere (termine che uso senza alcuna accezione necessariamente positiva), soprattutto se fatte dagli autori stessi. Testi e musiche significano qualcosa di preciso per me, mi farebbe molto piacere che ogni ascoltatore riuscisse a sentire l’onestà del messaggio e trovasse la propria forma di resistenza.

F.V.: Ci pensa Sergio.

V.D.: Vai Sergio… è sempre lui il poeta!

S.P.: Lascio la palla a Sergio. È lui che soffre e compone i testi.

T.P.: Sergiooo? Siiiii!

Nella recensione di “Solitaire” parlo di atmosfere oniriche, malinconiche e avvolgenti, ballate cupe che miscelano elementi space e post rock, momenti “sospesi” che si muovono tra Mogwai e Sigur Rós, con il “fantasma” dei Pink Floyd che veglia dall’alto. Ma quali sono gli artisti che più vi hanno ispirato/influenzato nella stesura dell’album?

S.M.: Benché siamo tutti amanti dei Pink Floyd, non c’è stata alcuna scelta precisa, credo che a influenzarci siano le nostre personalità, che sono ben diverse, fluide in alcuni, strutturate in altri. Sicuramente “Solitaire” nasce per contrasto e non per armonia.

F.V.: Oltre ai Pink Floyd, sono amante dei Porcupine Tree e vengo dalla scena hard rock anni ‘70.

V.D.: Esistono due fasi nella crescita di un musicista, un primo tempo di intenso studio caratterizzato da sessioni lunghe intere giornate nelle quali si sviluppa un legame viscerale col proprio strumento e si impara anche ad ascoltare i grandi; esiste poi una seconda fase in cui si forgia la propria personalità musicale, si acquisisce consapevolezza dei propri mezzi e con profonda umiltà si traccia il proprio cammino, conservando in tasca i proprio modelli ma seguendo adesso le nostre attitudini, un po’ come un bambino che lascia la mano della mamma, dovrà adesso camminare da solo.

S.P.: Sicuramente c’è anche un grande influenza floydiana nelle chitarre. In realtà il bacino da cui attingiamo è composto principalmente dai gruppi prog e psichedelici anni ‘70.

T.P.: Le influenze musicali sicuramente hanno influenzato forse le atmosfere, in realtà credo sia stato fondamentale l’incontro musicale e melodico dei musicisti che hanno suonato nel disco: questo il risultato!

I testi dell’album sono in inglese. Pensate sia più funzionale, per la vostra proposta, cantare in una lingua diversa dall’italiano?

S.M.: Anche qui non c’è una scelta ma semplicemente abitudine a scrivere in inglese. Poi è chiaro che ci sia la speranza di arrivare a più persone, e credo che i recenti risultati in fatto di ascolti e recensioni all’estero siano un ottimo segnale in tal senso. Ma non penso che l’inglese abbia una qualche superiorità a priori, solo forse un suono più familiare.

F.V.: Sergio si occupa di scrivere i testi, ma siamo tutti cresciuti con la musica anglosassone in cuffia.

V.D.: Come le note, così le parole sono un flusso tramite le quali vogliamo comunicare, dunque italiano o inglese ciò che importa è seguire la corrente dei nostri pensieri.

S.P.: Abbiamo iniziato così, sin dagli albori della nostra collaborazione artistica. Adesso stiamo valutando il grande passo ma il problema è risultare credibili anche in italiano.

T.P.: Il progetto mira al mercato internazionale! In Italia credo il genere sia poco fruibile.

Solitaire” ha vissuto un destino particolare. Uscito inizialmente nel 2019, come autoproduzione, è poi giunto all’orecchio dell’etichetta irlandese Progressive Gears: “amore a primo ascolto”. Da qui il contatto e la ripubblicazione dell’opera. Mi raccontate come sono andate le cose? E com’è il rapporto con la casa discografica?

S.M.: Abbiamo semplicemente ricevuto una e-mail da Eugene, il boss dell’etichetta. La cosa che mi ha colpito è che c’erano poche righe, nessun interminabile sermone su quanto siamo bravi, fighi ecc. Quest’uomo ama davvero la buona musica e la sua passione mi ha personalmente travolto.

F.V.: È Sergio a occuparsi di questi aspetti.

V.D.: Alla base di un lavoro fatto bene ci sono sempre amore, tenacia e organizzazione, queste sono le caratteristiche che hanno fatto nascere in breve tempo una profonda sinergia tra noi e la Progressive Gears.

S.P.: È andata proprio così. Abbiamo avuto la fortuna di giungere all’orecchio di Eugene che ha amato il progetto sin dal primo ascolto. La sua passione per la musica è coinvolgente.

T.P.: Fortuna o chissà…. È un fiume in piena che scorre, chissà dove ci porterà.

Spostandoci sul fronte live, come sono gli Alcàntara sul palco? Cosa c’è da aspettarsi da un vostro concerto?

S.M.: Hanno un frontman molto scarso a interloquire col pubblico tra una canzone e l’altra… quindi si concentrano sull’impatto sonoro dell’esecuzione, sulla capacità di veicolare il messaggio con uno spettacolo audio-video non banale. Ma è solo parte del percorso.

F.V.: Emozioni in uno scenario che abbraccia non solo la musica ma anche video ed effetti sonori.

V.D.: Il connubio tra musica, luci e proiezioni video è essenziale, vogliamo coinvolgere l’ascoltare in una esperienza multisensoriale! E poi, beh, credo ci sia da arrivare a teatro, spegnere il telefono e godersi lo spettacolo!

S.P.: Non spaccheremo le chitarre ma sicuramente ci andiamo vicino con i timpani! Un caos controllato.

T.P.: Lo spettacolo live è un viaggio audio/video che ti travolge dal primo minuto e ti accompagna all’uscita lasciandoti un fiume di emozioni e contenuti forti.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

S.M.: Siamo tutti adulti, anche se incredibilmente abbiamo ancora i capelli (sarà il gene del rock). Ci siamo adattati, chi più chi meno. Io penso di aver goduto moltissimo delle possibilità di questa civiltà apparentemente evoluta, ma sono figlio degli anni ‘90 e penso spesso a come sarebbe andata se fossimo stati ventenni in quel periodo (o meglio ancora prima). Penso che ce la saremmo giocata alla grande, suonare nei piccoli locali storici, sudare, i tour in pullman, non dover pensare ai click e alla promozione.

F.V.: Non sono molto partecipe di questo mondo 2.0, preferisco vivere a modo mio.

V.D.: È evidente che il mondo è cambiato, l’uomo lo ha cambiato ed è mutato egli stesso. Evolversi è naturale, o almeno dovrebbe esserlo, ma non significa dimenticare ciò che si è stati, ciò che si è fatto. Lavorare con dispositivi digitali significa aver studiato e aver lavorato con i sistemi analogici, saper utilizzare in maniera intelligente i canali social presuppone sapere come si crea un contenuto di qualità e come lo si pubblicizza, nel mondo reale così come in quello digitale. Le possibilità sono aumentate esponenzialmente e sta a noi saperle cogliere, fuggire dagli usi sterili e smodati e riuscire a sfruttarle in maniera concreta, mirata!

S.P.: L’aspetto positivo risiede nella possibilità di arrivare a tutti (e intendo proprio tutti, abbiamo spedito un cd in Giappone e uno in Brasile) col minimo sforzo. D’altra parte, l’attenzione su un gruppo o su un album dura un batter di ciglia, nel mondo del web tutto viene triturato, ingurgitato e digerito in pochissimo tempo.

T.P.: In realtà sul web si trovano dei prodotti preconfezionati, sembra tutto bello! Ma l’emozione di vivere e sentire un live credo non potrà essere mai superata. Inoltre, giornalmente, in tutto il mondo, in questo modo escono delle hit che esplodono e muoiono subito. Bisognerebbe trovare un equilibrio tra la prima e la seconda Civiltà.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online?

S.M.: Curare l’immagine non è di per sé sbagliato, se significa amor proprio. Vivere in una società che ti insegna solo a curare l’immagine è invece profondamente sbagliato e diseducativo. Per fortuna l’ingegno umano trova risorse anche in questa situazione.

F.V.: Non ci penso, l’unica cosa che conta per me è suonare ed emozionarmi.

T.P.: Era bello quando esistevano i produttori discografici! Oggettivamente è molto faticoso se non impossibile vivere d’arte e produrre un disco! Ciò nonostante, l’amore per la musica ci porterà sempre avanti.

Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra particolare esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?

S.M.: Il mondo dei libri è più elitario di quello musicale, parlo per esperienza. In quello musicale il pop (inteso come popular, non come genere) si è trasformato in un prodotto da supermercato, quindi nessuna grossa etichetta deciderà mai di produrti a meno che tu non sia vendibile. L’autoproduzione diventa quindi un obbligo per sopravvivere.
Detto questo, se ho una passione e posso coltivarla da solo, perché rinunciare? Se dipingo e posso esporre i miei quadri nel cortile del mio condominio, va bene così. Basta non sentirsi Magritte.

F.V.: Io ho uno studio di registrazione, l’autoproduzione è linfa vitale e ti porta sempre a un miglioramento.

S.P.: Credo che quella dell’autoproduzione ormai sia l’unica via percorribile per chi vuole proporre qualcosa di diverso, soprattutto in Italia.

T.P.: Autoproduzione è l’unica via.

E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

S.M.: Non ci sono spazi, è lampante. Gli spazi mancano perché non c’è la cultura necessaria per alimentarli. Quando i robot ci taglieranno i capelli a casa senza errori, non ci saranno i barbieri.

F.V.: Non c’è modo perché mancano le strutture, ma tutti noi musicisti messi uno accanto all’altro ci stimoliamo tanto a vicenda.

V.D.: Il sottobosco è sicuramente pregno di realtà interessanti e valide, in tutti i settori dell’arte, vanno sapute riconoscere e scovate. Certamente l’attuale sistema italiano mostra evidenti lacune e non è facile districarsi tra le mille insidie, ma resto fermo del fatto che un lavoro di qualità viene riconosciuto!

S.P.: Noi ci inseriamo in una nicchia che in Italia è ancora più ristretta. Tant’è vero che è giunta voce di noi prima all’estero che in Italia.

T.P.: Esistono tantissimi artisti validi, ma non esiste una scena! Quindi non esiste un mercato! Di conseguenza si trova poco spazio per i live! Noi siamo la resistenza!

Esulando per un attimo dal mondo Alcàntara e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

S.M.: Cercare di non vivere in una megalopoli circondato da cemento, se la vogliamo considerare arte.

F.V.: Mi occupo del mio studio di registrazione.

V.D.: Svolgo da oltre dieci anni attività didattica in qualità di docente di chitarra, sono costantemente impegnato in numerose collaborazioni musicali nel territorio nazionale e ho conseguito la laurea in Ingegneria Elettronica.

S.P.: No, è l’unico progetto al momento.

T.P.: Sono un insegnante di batteria, lavoro come arrangiatore e collaboro con moltissimi artisti. Suono, inoltre, tantissima musica edita nei club.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

S.M.: Ho un podio per ogni giorno, è impossibile scegliere. Più è vuoto, meglio è: chi sa usare il silenzio vince sempre.

F.V.: Tutta la scena rock anni ‘70!

V.D.: Lascerei dal podio davvero troppi artisti che mi hanno influenzato e che amo, ma dai, sì, ci provo, ti scrivo tre nomi che da ragazzo mi hanno folgorato al primo ascolto, un’artista per un genere diverso: Miles Davis, Robben Ford, Steve Vai.

S.P.: Queste domande mi mettono sempre in difficoltà. Scrivo i primi tre nomi che mi vengono in mente: Radiohead, Mogwai, Velvet Underground.

T.P.: Questa è difficilissima! Benny Greb, Toto, Coldplay.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

S.M.: Philip Larkin.

F.V.: Io sto in fissa con Donnie Darko…

V.D.: Oh sì, “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov, un libro che ho prima odiato e poi amato!

S.P.: Come artista musicale direi i Flying Horseman, e come scrittore Joe R. Lansdale, amo le sue storie pulp.

T.P.: Picasso.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

S.M.: Penso sia una tragedia anche a livello musicale, ma non diamo la colpa alla pandemia, è iniziata molto prima. È triste per noi che siamo cresciuti così, ma tutto finisce e non bisogna aver paura. Sono scomparse la musica classica e la pittura cubista, Dalì e Fidia, non credo che il genere umano piangerà la scomparsa del rock’n’roll. Io sì.

F.V.: Purtroppo vedo tutto negativamente e non mi sento di aggiungere ulteriore pessimismo.

V.D.: Lo scenario purtroppo è davvero complesso, non sarà facile uscirne e sicuramente ne resteremo profondamente segnati. In questo 2020 abbiamo dovuto modificare le nostre abitudini, è occorso saperci reinventare, c’è chi ha perso il lavoro e chi ha visto volare i propri affetti… In questo scenario così duro, però, voglio pensare in positivo, trovare ancora nuova linfa vitale ed essere pronto quando tutto passerà.

S.P.: Spero che dalle macerie attuali ne nasca qualcosa di nuovo e dirompente. Ma ne dubito.

T.P.: Dopo le grandi catastrofi, storicamente, ci sono state le grandi rinascite! Sicuramente ci sarà un periodo… diverso.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?

S.M.: Un giorno pubblicheremo la versione primitiva di “Solitaire”: scommetto che, per te e per chi ha ascoltato l’album, sarà difficile riconoscerne anche un solo brano.

F.V.: “Treefingers” è nata come “Three fingers” perché quando l’ho composta avevo un dito fuori uso.

V.D.: Oh certo! Restano indelebili i pomeriggi trascorsi in studio da me e Francesco, bastava una piccolissima scintilla e trascorrevamo ore ed ore a parlare di armonia e melodia con le chitarre in mano… non mi sorprenderei se qualche volta ci dessero per dispersi!

T.P.: I disegni di cassa… non sono allineati con le acustiche, che non rispettano il disegno armonico… incastrato con il delay, quindi l’analisi ritmica non torna! Sai quante discussioni su ogni brano alle prove? Ore ed ore…

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro degli Alcàntara che vi è possibile anticipare?

S.M.: “The Visit”, singolo ponte tra “Solitaire” e il prossimo disco.

F.V.: Un singolo e poi il nuovo album!

V.D.: Stiamo lavorando ad una nostra linea di abbigliamento… scherzo, scherzo! Credo si possa anticipare che siamo già al lavoro per il nostro secondo lavoro discografico!

S.P.: Un nuovo singolo, non vedo l’ora che sia disponibile! Stiamo limando gli ultimi difetti.

T.P.: Singolo in arrivo e delle idee per il secondo album.

Grazie mille ragazzi!           

S.M.: Grazie a te!

F.V.: A presto.

V.D.: Grazie a te, “That’s all Folks”!

S.P.: Che sudata! Grazie a te.

T.P.: Grazie a te…

(Novembre, 2020)

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