Intervista agli Illusion of Gravity

Un caro benvenuto a Umberto Alberto (U.A.), Federico Aluzzi (F.A.), Alessandro Cascella (A.C.), Davide Garofalo (D.G.) e Gabriele Zuddas (G.Z.): Illusion of Gravity.

U.A.: Ciao Donato e grazie per quest’intervista.

F.A.: Grazie per averci dato questa opportunità.

A.C.: Ciao.

D.G.: Ciao Donato e grazie.

G.Z.: Ciao Donato.

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Illusion of Gravity e cosa c’è prima degli Illusion of Gravity nelle vite di Umberto e Davide?

U.A.: Inizio col risponderti partendo dalla seconda parte della domanda. Prima di questo progetto ero reduce dal suonare in una band dove facevamo pop/rock in italiano. Poiché il progetto era destinato a concludersi, decisi di avviarne uno nuovo che rappresentasse una passione musicale che coltivavo da tempo, ma che non ero mai riuscito a concretizzare, cioè il rock anni ’70 (hard rock, psichedelico, progressive) di matrice inglese e italiana. Il primo a rispondere all’annuncio fu proprio Davide ed è, dunque, con lui che gli Illusion of Gravity nascono nel 2013. In seguito, dopo alcuni cambi di formazione e con l’arrivo di Federico e di Gabriele, e poi di Alessandro, abbiamo definitivamente consolidato il progetto e definito il progressive come genere a cui dedicarci.

D.G.: Io inizio a suonare all’età di 18 anni circa, inizialmente cover di vario genere. Poi il mio interesse è finito sempre più verso la musica rock e hard rock e li ho avuto un gruppo con cui, oltre alle cover (Deep Purple, Led Zeppelin, Queen, ecc.), abbiamo iniziato un progetto di inediti. Abbiamo partecipato ad alcuni concerti live e anche alla “famosa Pagella Rock”. Dopo circa quattro anni il gruppo si è sciolto ma io ho continuato a suonare cambiando diversi gruppi e suonando con persone anche molto preparate. Dopo un altro progetto, anche questo di circa quattro anni ma poi chiuso, mi imbatto nell’annuncio di Umberto che cercava un batterista per un gruppo inizialmente cover band, ma aperto all’idea di creare pezzi inediti. E fu così che iniziai la mia vita con gli Illusion of Gravity.

E come cade la scelta sul nome?

U.A.: IoG non è il primo nome che ci è saltato in testa, anzi, inizialmente avevamo optato per nomi più semplici e d’impatto, composti da una sola parola, ma alcuni non ci convincevano e altri erano, invece, già stati usati da alcune band più o meno note. Volevamo dunque trovare qualcosa di originale e di non ambiguo, qualcosa che riconducesse subito a noi, ed è proprio in quei giorni di estenuante ricerca che mi imbattei per caso in un articolo scientifico dal titolo “The Illusion of Gravity”. L’idea di usarlo come nome della band ci piacque fin da subito perché aveva un nonsoché di originale e di associabile allo spazio cosmico (per molte Prog band una classica fonte d’ispirazione per le loro composizioni). Inoltre, mi piaceva il parallelismo con la genesi del titolo del quinto lavoro dei Pink Floyd, “Atom Earth Mother”, anch’esso ispirato da un articolo di giornale.

F.A: Mi ha subito fatto pensare a qualcuno che fluttua nell’aria. Come se quando ti rendi conto che la gravità è un’illusione, allora capisci che ti tiene ancorato al terreno solo una falsa convinzione. E questo si riflette, spero, anche nella nostra musica; mi piace immaginare chi ci ascolta come una persona che fluttua nel nostro mondo fatto di suoni e melodie. D’altronde il nostro è un genere da pasteggio, non si balla e non si può assumere in pillole radiofoniche.

Dopo alcuni avvicendamenti interni, la band si assesta con l’arrivo di Federico, Alessandro e Gabriele? Come avviene l’incontro con Umberto e Davide e quali sono le vostre esperienze che precedono l’ingresso nella band?

F.A.: Dopo un paio di anni che mi ero trasferito a Torino per studio ho sentito che mi mancava suonare con qualcuno. Strimpellavo a casa con degli amici ma mi mancava la sala prove e la voglia di preparare dei brani in vista di un live. Prima degli Illusion of Gravity avevo una band con degli amici dove facevamo cover rock. Nulla di serio, seguivamo un po’ i gusti del momento e suonavamo ciò che ci piaceva. Gli IoG sono stati il mio primo progetto con obiettivi concreti.

A.C.: Fondamentalmente non cercavo nulla e ho ottenuto un gruppo. Suonavo cover pop con la sorella di Gabriele, e una volta si è presentato in sala per sentirci. Abbiamo chiacchierato un po’ ed è stato subito feeling. È molto raro trovare un musicista così giovane sinceramente appassionato a della musica decisamente poco apprezzata dalla sua generazione. Il gruppo in cui suonavo stava morendo e, contemporaneamente, il chitarrista degli Illusion li lasciava. Non ci poteva essere altro esito, sono subentrato di diritto.

G.Z.: Ho saputo di questo progetto grazie ad un annuncio su Villagio Musicale se non erro. Cercavo una band indirizzata proprio verso il Progressive, ero appena entrato in quel mondo come ascoltatore e volevo diventarne parte attiva come esecutore e creatore!

Il primo periodo, grazie alla passione per il Progressive Rock che vi accomuna, vi vede esibirsi live con cover di band quali Pink Floyd, Genesis, PFM, Caravan, Porcupine Tree. Come ricordate quei primi anni? E quando nasce l’esigenza di iniziare a scrivere per materiale inedito?

U.A.: Diciamo che fin da subito l’intenzione della band era quella di non limitarsi alla sola realizzazione di cover ma di voler creare delle composizioni inedite. Dopo alcuni avvicendamenti iniziali nella formazione che ci hanno rallentato un po’ nell’evoluzione del progetto, dall’arrivo di Federico e Gabriele, e poi in ultimo di Alessandro, abbiamo cercato di affinare la nostra intesa musicale suonando e proponendo al pubblico brani rock e progressive che più ci piacevano (alcune pietre miliari del genere ed altri brani un po’ più ricercati e tecnicamente più complessi, ad esempio “The Return of The Giant Hogweed” dei Genesis o “Luminol” di Steven Wilson).
Suonando nei locali e in alcune rassegne musicali abbiamo avuto fin da subito feedback positivi dal pubblico e anche da alcuni esperti del settore che ci hanno spronato a proseguire sull’idea di produrre musica inedita. Da qui e da alcune idee imbastite da Gabriele abbiamo deciso di concentrarci esclusivamente sulla produzione di nuove tracce.

Il 2020 è l’anno del vostro esordio discografico “Too late”. Mi raccontate la genesi dell’album? Quali sono state, dunque, le fonti d’ispirazione che vi hanno “aiutato” nella sua creazione?

U.A.: Per quanto riguarda le mie sonorità mi sono ispirato ai Pink Floyd (e le magiche sonorità del tastierista Richard Wright), di cui l’intro di “Too Late” è un chiaro omaggio, al krautrock dei Tangerine Dream, ai passaggi di organo di Jon Lord, questi i primi artisti che mi vengono in mente. Sono più propenso, in questo periodo della mia vita, a sonorità ambient e d’atmosfera ma non disdegno momenti carichi di energia e di sonorità più hard.

F.A.: Per quanto riguarda i testi mi sono ispirato di volta in volta a cose diverse. In “I Can” ho continuato quanto iniziato da Gabriele (aveva già scritto la prima strofa e il ritornello). “Strange home” aveva questo intermezzo molto cupo, il “get away” ripetuto è venuto in sala mentre provavo la linea vocale e da lì l’idea di fuggire da una situazione che non ti è più famigliare, anche se lo è stata fino a poco prima. Per “Shining Bliss” e “Kua Fu” ho scelto a tavolino l’argomento e scritto il testo di conseguenza. “Too late”, infine, mi dava questo senso un po’ malinconico e ho provato a raccontare la sensazione di quando si pensa (sbagliando ovviamente) che le cose belle che ci sono accadute non torneranno più e non saremo mai più felici come eravamo in passato.

D.G.: Per quanto riguarda la parte ritmica, ho buttato giù quelle che erano le mie idee e sicuramente in base alle mie influenze ho iniziato a formare le varie parti di batteria, confrontandomi soprattutto con alcune idee che Gabriele aveva già in testa, e da lì abbiamo poi cercato di far sposare bene il tutto anche con le parti di basso. Diciamo che, essendo i responsabili della parte ritmica, collaboriamo molto.

G.Z.: Per quanto mi riguarda ho posto le basi musicali di tutti i pezzi dell’album grazie a determinate situazioni emotive e sentimentali che mi han dato la possibilità di mettere insieme come “cocci” le varie idee che affioravano nella mia testa.

Ascoltando il vostro album, ciò che emerge subito è una certa compattezza del sound, con un’energia che viene ben “imprigionata” in ogni brano. Nella vostra presentazione, inoltre, ammette di esservi lasciati influenzare anche da altri generi quali funk ed elettronica. Ma qual è il processo di “fusione” tra Prog e “altri generi” che ha portato alla nascita dei brani di “Too late”?

U.A.: Siamo stati indubbiamente influenzati da altri generi che ascoltiamo e che amiamo, io, ad esempio, dalla musica elettronica (vedi le intro al sequencer di “I Can” e di “Shining Bliss”, ad esempio). Diciamo che abbiamo tenuto delle fondamenta Prog sulle quali ognuno di noi ha costruito del suo, mettendoci “sound” da altri generi che apprezziamo.

F.A.: In realtà non sono scelte ponderate. Non decidiamo a tavolino come deve suonare un brano o che genere inserire. Semplicemente quando qualcuno di noi inserisce del suo, con un arrangiamento o proponendo una modifica, in automatico attinge dal suo background. Sicuramente le idee di Gabry, che sono alla base dei pezzi, influenzano molto il sound della canzone. Tuttavia alcune parti che sono state aggiunte successivamente in alcuni casi deviano molto dal genere principale.

A.C.: Posto che l’ossatura dei brani era già pronta al mio arrivo, resto comunque convinto che la “voce” di un chitarrista, in un genere così “seicordecentrico” come il Prog, sia molto rilevante. Cambiare chitarrista può essere traumatico, o si accetta la nuova voce o si litiga. Noi abbiamo fatto entrambe le cose, ed entrambe a fin di bene. Per quel che mi riguarda, ho cercato di reinterpretare la maggior parte delle sezioni come se fossero manifestazioni spontanee dei Rush e Marillion, tra le mie più grandi aspirazioni di genere. Un certo tipo di progressioni armoniche con seste e none, accordi aperti con un certo senso di respiro (vedi il tema di “Too Late”), forte predilezione per delay a ottavi puntati. Anche se la mia vera ispirazione è la visione pop/ambient di The Edge, il mio chitarrista preferito in assoluto. Anche se gli altri ragazzi mi dicono sempre di tacere sulla questione, perché si vergognano. L’unico brano che è stato sviluppato con un mio contributo più sostanzioso è “Kua Fu”, ed una suite in cui credo molto. Ritengo sia sincretica di tutte le nostre idee, aspirazioni, desideri. È davvero il discorso di cinque musicisti che in quel momento erano armonizzati. Purtroppo il momento in cui abbiamo registrato il tutto (tra alti, bassi e bassissimi) è coinciso con il momento in cui io e Gabriele ascoltavamo generi più pesanti, djent e cose simili. Ciò ha inciso negativamente sulla scelta di alcuni suoni, decisamene meno Rock rispetto alle idee originali. È una cosa di cui porto profondo rammarico.

D.G.: Sono d’accordo con quello che dice Federico, in realtà non sappiamo mai, una volta iniziato il lavoro su un brano, come evolverà, man mano che ognuno di noi inserisce del suo il brano prende sempre più forma verso quella che è l’idea finale che accontenta tutti.

I testi dell’album sono in inglese. Pensate sia più funzionale, per la vostra proposta, cantare in una lingua diversa dall’italiano?

F.A.: Questa scelta deriva da più cause: l’inglese lo sentiamo più calzante e ci rende più internazionali. Questo non vuol dire che non si possa scrivere in italiano, anzi. Il Prog Italiano è stato esportato in tutto il mondo con successo. Però scrivere in italiano è un’arte molto raffinata a mio avviso, non ci si inventa parolieri. Abbiamo provato a fare qualche brano in italiano ma non ci ha mai convinto, chissà però che in futuro non cambiamo idea. Come non ci limitiamo ai quattro quarti, anche la lingua non è un limite ma una possibilità.

A.C.: Possiamo appellarci a una tradizione passata e gloriosa, ma è, appunto, passata. La realtà è che proporre Prog nel 2020/21 è già impresa ardua, se non ti esponi in inglese non ti notano nemmeno per sbaglio. È un sistema Youtube/social centrico, lì non si parla italiano.

Da cover a brani inediti: com’è cambiato il vostro mondo live? E come sono gli Illusion of Gravity sul palco? Cosa c’è da aspettarsi da un vostro concerto?

U.A.: Purtroppo da quando abbiamo realizzato “Too late” non abbiamo più avuto modo di esibirci in pubblico a causa delle disposizioni legate alla pandemia di Covid-19, ma alcune tracce dell’album le avevamo già proposte negli ultimi nostri live, quindi si può affermare che il passaggio da cover a inediti sia stato in qualche modo graduale.

F.A.: C’è un brano, “Kua Fu”, che non abbiamo ancora mai portato live. La creazione dell’EP ha determinato una pausa dalla sala prove e dai live. Inoltre, il periodo storico non è dei migliori per suonare live. Ci piacerebbe molto, però, una volta tornati alla normalità, portare dal vivo l’EP.

D.G.: Sicuramente l’approccio da cover a brani inediti nei live, per quanto mi riguarda, è diverso ma sotto alcuni aspetti anche simile. Simile perché cerchiamo di suonare bene sia cover che inediti e di far “godere” chi ci ascolta. La differenza per me sta solo nel fatto che in una cover (anche se noi mettiamo la nostra personalizzazione) il più delle volte l’ascoltatore conosce già il brano ed è quindi più “conquistabile”, mentre sugli inediti dobbiamo essere molto bravi noi a coinvolgere e “conquistare” l’ascoltatore. Non stiamo semplicemente suonando…

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

U.A.: Nei pro includerei sicuramente la possibilità di poter diffondere e far conoscere la propria musica praticamente in tutto il mondo, la possibilità di poter interagire e mantenere un contatto con i propri fan (soprattutto in questo periodo in cui i contatti personali sono limitati e le esibizioni live annullate).
Nei contro metterei, ad esempio, l’aspetto che riguarda la larga diffusione del materiale protetto da diritti d’autore per mezzo di canali illegali che penalizza soprattutto gli artisti emergenti.

F.A.: A me piace soffermarmi sugli aspetti positivi. Con la crescita della tecnologia siamo riusciti a produrre un EP a budget ridotto che, a nostro avviso, suona comunque compatto e incisivo. Ovviamente siamo i primi che sentono la differenza rispetto ad una produzione con tanti zeri ma penso che la qualità, rispetto anche solo a venti anni fa, sia incredibile. Inoltre, grazie alla digitalizzazione abbiamo avuto la possibilità di farci conoscere in tutto il mondo con poco sforzo. Il limite diventa solo riuscire ad emergere in mezzo a tantissimi ottimi artisti.

A.C.: Siamo nel mezzo della terza rivoluzione della comunicazione; invenzione della scrittura, della stampa e di internet. La sensazione è di straniamento, è troppo presto per comprendere quali siano i concreti risvolti, in un periodo di anarchia in cui l’offerta schiaccia la richiesta. Ci troviamo nel mezzo di un periodo di assestamento. Parliamoci chiaro, è solo un bene, ma credo sia molto difficile essere attenti e minuziosi tra indigestioni pantagrueliche di intere discografie scaricate o immediatamente disponibili. L’idea di far decantare un’opera di un autore che ci piace è più difficile di una volta, è tutto troppo veloce, c’è più rischio di cadere nel dimenticatoio. Se in giro ci dovesse essere qualche leggenda in divenire, auguri; forse se i Pink Floyd fossero nati venti anni dopo con le stesse proposte, non sarebbero diventati i Pink Floyd. La costruzione di una leggenda richiede tempo, e ciò non si concilia con i nostri tempi. Consuntivo: è molto facile raggiungere il pubblico proporzionalmente a quanto sia facile essere schiacciati da migliaia di proposte simili alla tua che sono lì a un secondo da te. È un bene per l’ascoltatore, ma l’ascoltatore “2.0” non credo ti conceda molto tempo. Non perché non voglia; non ne ha. L’adattamento all’ambiente aggiusterà il tiro, ma è un altro mondo anche solo rispetto a dieci anni fa. Sento troppi miei conoscenti non afferrare il punto e insistere sull’assurdità che “oggi sia tutta merda”, ma non si rendono conto che stanno giudicando una marea di offerta mentre prima facevano il bagnetto nella vasca. È molto semplice cadere nell’illusoria convinzione che i nomi nei ‘70/’80 fossero insindacabilmente migliori, ma le loro sacrosante leggende hanno avuto dalla loro la risorsa del tempo, che implica maggior attenzione. Quando le cose cambiano, o ti adegui e cambi con loro o ti fai travolgere.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino? Non avete mai pensato di tentare la “carta” etichetta discografica?

U.A.: Direi che forse l’iter di promozione è cambiato al giorno d’oggi. Abbiamo seguito una strada comune a molti artisti emergenti, cioè quello di un’autoproduzione, una sorta di biglietto da visita, un album-demo che dica chi siamo (o meglio cosa suoniamo) con lo scopo di poter essere proposto in seguito a qualche etichetta discografica che eventualmente ci possa accompagnare nei futuri lavori.

A.C.: Non ho le forze per rispondere a questa domanda. Personalmente ho solo trovato ostacoli, il primo in me stesso.

G.Z.: È difficile, sicuramente. Soprattutto in Italia dove il nostro genere è sicuramente di nicchia rispetto al pop, la trap, il rap.

L’aver pubblicato il vostro album nel solo formato digitale non vi fa sentire un po’ “limitati” o, addirittura, “estromessi” dal mercato discografico Progressivo? Mi spiego meglio, la maggior parte degli ascoltatori del genere è anche un “feticista” del supporto fisico (sia esso LP o CD)…

U.A.: La scelta del digitale è ricaduta inizialmente sul fatto che ci permetteva un’ampia diffusione sulle piattaforme musicali web, ma l’idea di un supporto fisico per il nostro lavoro non è stata scartata, anzi pensiamo di realizzare “Too late” sia nel formato CD che in vinile. Per la cronaca mi aggiungo ai feticisti!

F.A.: Non ho idea dei numeri e non so se quanto dico sia giusto. Penso che ormai siano pochi gli appassionati che non utilizzano del tutto il digitale o le piattaforme di musica streaming. Queste danno la possibilità di avere a portata di mano una quantità di musica infinita, con band che probabilmente in altre epoche sarebbero rimaste confinate nella loro città o regione. Quindi penso che per un ascoltatore perso perché non abbiamo un supporto fisico ne abbiamo guadagnati dieci che ci ascoltano su una piattaforma streaming. Speriamo di raggiungere quindi molte persone che apprezzano il nostro lavoro così da poter avere i fondi per stampare su supporto fisico per i nostri amici “feticisti”.

A.C.: Non lo vedo come un limite, per me è un’opportunità che mi è stata data. Ogni libro ha un lettore modello, cioè la figura ideale del lettore che lo scrittore immagina, e che fondamentalmente è un suo doppio. Se anche una sola persona ha provato qualcosa sentendo, che so, l’assolo di “I Can”, è già una conquista. Il genere di nicchia ti estromette dal grande pubblico, ma ti consolida all’appassionato. Ho letto recensioni positive che ritengo davvero spontanee e genuine, il sincero appassionato dal mestierante lo riconosci subito.

D.G.: Assolutamente CD e vinile sono già nelle nostre idee.

Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?

U.A.: La via dell’autoproduzione è stata una scelta condivisa, oltre che per ottenere una sorta di biglietto da visita, come ho detto prima, anche sia per vedere se saremmo stati in grado di “cavarcela da soli” a produrre un album. Certo, siamo consapevoli dei limiti di un lavoro del genere ma diciamo che è il nostro primo passo per la concretizzazione di un nostro progetto e da qui speriamo di poter in futuro poterci appoggiare ad un’etichetta discografica.
Quanto al parallelismo con il mondo editoriale non posso che constatare che in effetti ci sia, ma la discriminazione fra prodotti di serie A e B, siano libri o album musicali, è, a mio giudizio, un limite legato ad un approccio interpretativo che in questi ultimi anni comincia ormai a vacillare e ad avere sempre meno credito. Personalmente ho ascoltato e letto lavori autoprodotti che avrei associato a produzioni di case discografiche/editrici e viceversa produzioni appoggiate da queste ultime, che quindi si potevano definire “di qualità”, ma che con questo termine avevano poco a che fare.
Se chi si affaccia al mondo della musica ha la possibilità e la fortuna di avere, fin dal primo momento, un’etichetta al suo fianco, buon per lui, altrimenti mi sentirei di consigliargli la strada dell’autoproduzione, molti artisti oggi noti al grande pubblico sono partiti da qui.

F.A.: Magari non è il nostro caso, ma sento molti prodotti self-published che non hanno nulla da invidiare a grandi produzioni. Penso inoltre che chi è appassionato di musica riesca ad andare oltre alla sola qualità di registrazione e apprezzare l’idea e il talento artistico. Inoltre, un campionato di serie B, o addirittura C, può essere comunque godibile tanto quanto uno di serie A. Non farà gli stessi numeri, non avrà le stesse giocate spettacolari ma ha la stessa passione, anzi magari esula dalle dinamiche di mercato che ti impongono di pubblicare con scadenza per portare introiti e si è più liberi di pubblicare solo se si ha qualcosa da dire. Ciò detto, se qualcuno ci avesse dato dei fondi per registrare l’EP ne saremmo stati ben contenti.

A.C.: L’ho detto prima, sono cambiati i tempi e l’idea di come percepire la realtà che ci circonda, i nostalgici si perdono il centro nevralgico della questione. Adesso non è ancora chiarissimo dove porterà il villaggio globale internettiano, ma è chiaro che i suoi paradigmi non possano essere quelli del 2000, che sembra più antico e vecchio degli anni ’70. Ed è una rivoluzione che logicamente colpisce anche cinema e simili settori, anche se lì la situazione è più tragica. Ora il problema è che è difficile, a certi livelli, distinguere la serie A dalla serie B. Spesso il gruppo che inizialmente attira l’attenzione può stancare dopo poco, e spesso ciò che annoia o che non convince ai primi ascolti può diventare nostro compagno inseparabile. Personalmente le cose che più ho amato ho dovuto conquistarle. Il problema è se qualcuno è disposto a concederti un po’di tempo; rischi di buttare nel cestino qualcosa che diversamente avresti trovato incredibile.

E qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

U.A.: Ho avuto il piacere di ascoltare band Prog Rock nostrane di tutto rispetto (e ce ne sono) e l’idea di poter collaborare con una di queste mi entusiasmerebbe parecchio.
A prescindere dall’ultimo periodo che stiamo vivendo e delle problematiche connesse alle esibizioni live, mi sento di poter affermare che prima non ci fossero molti locali dove poter proporre la propria musica, soprattutto inedita, almeno qui nel torinese. Devo, però, constatare che negli ultimi anni sono fioriti, a livello regionale e nazionale, molti festival che hanno dato spazio alle esibizioni di nuovi e sconosciuti artisti e questo è sicuramente un punto a favore della musica emergente.

G.Z.: Per quanto riguarda altre band emergenti, in completa sincerità, nello scenario torinese non abbiamo mai sentito di altre band che propongono la nostra tipologia di musica. Questo, infatti, ci è stato di aiuto in molte occasioni live, avere la possibilità di non portare il “solito hard-rock” anni ‘60/’70 forse ha incuriosito i vari proprietari dei locali a darci la possibilità di suonare.

D.G.: Suonare dal vivo per me è sempre più difficile, principalmente nei locali. Diciamo che, per come la vedo io, hanno un po’ la “puzza sotto il naso” nel senso che mettono troppi paletti, come può essere il suonare un determinato genere, oppure pretendono magari che uno non solo suoni gratis (cosa che peraltro ci è già capitato di fare) ma che garantisca anche un minimo di presenze da parte nostra come “pubblico”. Penso che dovrebbero avere idee più morbide, ecco… Fortunatamente ci sono ancora possibilità di riuscire a suonare live grazie ai festival e feste di paese, come giustamente dice Umberto.

Esulando per un attimo dal mondo Illusion of Gravity e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

U.A.: Diciamo che la musica è l’attività artistica che prende gran parte del mio spazio extra-lavorativo (suono in altre band e in un’orchestra); ultimamente sto cercando di imbastire (“scrivere” è eccessivo) un racconto di fantascienza e mi sto interessando alla lavorazione artigianale del legno e del cuoio (se può essere definita una forma d’arte).

F.A.: Ho un altro gruppo con cui faccio cover delle sigle dei cartoni animati. Ahah! So che è lontano anni luce da questo progetto ma mi diverto tantissimo. E se avessi più tempo a disposizione avrei almeno un altro paio di progetti con cui fare tutt’altro come pop, funky, insomma musica.

A.C.: Mi diletto con la fotografia e credo, al momento, mi rappresenti più del mio essere musicista. Ho anche tentato la via del Cinema, ma si tratta di un passato che non aveva futuro. Sono un figlio del DAMS anni 2000, adoro cimentarmi in atti di virtù che non portano a niente. Sono per i conflitti irrisolti.

D.G.: Al momento no.

G.Z.: Principalmente attività videoludiche.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

U.A.: Ridurre a tre scelte le mie preferenze musicali è un po’ difficile, ma per spaziare un po’ fra i generi ti darei tre nomi rappresentativi: Pink Floyd, Beethoven e Bill Evans.

F.A.: Rimarrò in ambito Prog Rock perché ho un podio di Spotify che farebbe star male tanta gente (tra cui i qui presenti). Inserirei quindi, come rappresentanti del prog old school gli YES, come rappresentanti del Neoprog gli Spock’s Beard e come outsider (ma nemmeno tanto) i Coheed and Cambria.

A.C.: Senza vergogna; U2, Simple Minds e Beatles top five di sempre. Sono solo tre gruppi, ma occupano i posti in eccesso. Poi i Rush del periodo “Power Windows” e il Townsend di “Terria” e “City”. In tutto ciò, una manifestazione di potenza che avvolge e oscura tutto: i Pink Floyd. Al netto di questo, ho un’anima decisamente più pop che rock, il che mi pone dinnanzi un problema di corretta interazione con i miei simili; se dici che suoni la chitarra, allora deve essere rock per forza. Se dici che ami il pop e che non scambieresti mai i Tears for Fears con i Deep Purple, allora stai mentendo a prescindere. Non è che non comprendano perché ti piaccia il pop, non comprendono perché tu non preferisca il rock. Non esagero, almeno il 90% dei chitarristi che conosco non hanno idea che si possa parlare di musica senza parlare di chitarra. Come ho detto prima, la mia principale influenza è The Edge. Poi nomi più rassicuranti, come Steve Morse, Eric Johnson o Pat Metheny, che ritengo il compositore vivente per eccellenza, dopo la dipartita di Morricone. Vorrei ricordare il compianto Shawn Lane, forse l’autore più profondo e colto in cui mi sia imbattuto. “Esperanto” e “Grey Piano’s Flying” sono cose che non mi spiego.

D.G.: Deep Purple-Led Zeppelin-Toto per citare i primi tre, ma ce ne sarebbero tanti altri: Yes, Dream Theater, Pink Floyd, ecc..

G.Z.: Son molte le band che ascolto, anche fuori dal genere.

3) Devin Townsend

2) Porcupine Tree

1) Pink Floyd

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

U.A.: Ne avrei molte sia in ambito letterario che musicale. Innanzitutto vi inviterei a leggere l’articolo che ha ispirato il nome della band (un’interpretazione interessante della realtà e dell’universo); tra gli scrittori che amo consiglierei il visionario e cupo scrittore di fantascienza Philip K Dick; quanto alla musica, e rimanendo in ambito Prog Italiano, un gruppo e un brano in particolare la cui intro è meravigliosa, Alphataurus con “La Mente Vola”, e, per chi non li conoscesse, una band inglese che fa grande uso di tastiere dai suoni psichedelici e ipnotici gli Ozric Tentacles.

F.A.: Rimango sul genere musicale, c’è questo gruppo che sto amando, anche loro hanno un solo album più qualche singolo precedente: Sleep Token. Stanno riscuotendo un buon successo con questo stile soul/djent.

A.C.: Umberto Eco. Per motivi di studio ho affrontato anche i suoi saggi sulla semiotica, ma l’Eco della narrativa è qualcosa che giustifica la creazione del mondo. “Il pendolo di Foucault” mi ha insegnato tutto quello che so, ed è esattamente ciò che uno ha bisogno di sapere. Se uno ha un po’ d’amore per sé stesso, non può ignorarlo.

D.G.: Io, personalmente, consiglio Paulo Coelho, ha una scrittura molto semplice e piacevole. L’altro personaggio è Bruce Lee, non tanto come artista marziale, che è indiscutibile, ma per alcuni suoi libri dove parla di filosofia orientale, che a me appassiona moltissimo.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

U.A.: Spero in una veloce ripresa delle attività artistiche live e, anche a costo di poter sembrare retorico e poco originale, posso dire che viviamo in un paese pieno di talenti e artisti capaci (non solo in ambito musicale); cerchiamo dunque di valorizzarli e farli conoscere oltre che a livello nazionale anche all’estero. Spero in un futuro dove piattaforme web, rassegne musicali, festival e soprattutto locali che ospitano esibizioni, diano il loro contributo a favore di una valorizzazione anche di generi un po’ meno mainstream come può essere il Progressive.

A.C.: Viviamo tutti nella convinzione che un periodo buio sarà eterno. Quando te la vedi davvero male, quando subisci una cocente delusione d’amore; è inutile che cerchino di consolarti, tu hai cristallizzato quel momento e per te è eterno, starai male per sempre. Ovviamente non è così, e ciò vale anche per ogni evento che si storicizza. Le cose si risolvono. Cambieranno, non potranno fare altrimenti.

G.Z.: Sincero? Non bello. Molte attività faticheranno a riprendersi, nel riuscire ad ospitare band per suonare e anche nel ripagarli come magari qualcuno si aspetta. Per quello puntiamo anche sul digitale. Le persone stanno a casa e ascoltano gli IoG!

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?

F.A.: Vi racconto come è nata l’idea di mettere su un progetto di Rock Progressive. L’annuncio al quale ho risposto per essere provinato come cantante riportava nel titolo “Band in prog cerca cantante….” e la mail era bandinprog@…, ho pensato, dunque, fosse il nome temporaneo del gruppo. I brani da imparare non erano tutti Progressive ma c’erano “Comfortably Numb” dei Pink Floyd, forse c’era già “Perfect Stranger” dei Deep Purple e “Impressioni di Settembre”. Sta di fatto che con il mio ingresso, e di Gabriele poco dopo, il progetto ha naturalmente preso una deriva Progressive, forti anche del fatto di aver risposto ad un annuncio che lo riportava nel titolo, per poi scoprire dopo 3-4 anni che Prog stava per “progetto” e che l’idea principale della prima formazione non era quella di mettere su un progetto per forza Progressive! Quindi il tutto è nato per un’incomprensione, o forse era destino, chi lo sa.

D.G.: Se ti riferisci in generale me ne ricordo 4:

1) Primo concerto della mia vita, mi tremavano mani e piedi, e per un batterista non è il massimo.

2) Dopo circa tre ore di concerto con gli IoG avevo i crampi alle mani e non riuscivo ad avere il pieno controllo delle bacchette… è stato doloroso e difficoltoso concluderlo…

3) Forse avevo alzato un po’ il gomito ad un concerto sempre con gli IoG e non feci una delle mie migliori esibizioni diciamo, mi ricordo lo sguardo dei miei fedeli compagni di palco! Ahahah!

4) Qui devo ringraziare tutti loro, perché hanno dato la possibilità ad un mio caro amico chitarrista di suonare con noi qualche brano visto che non aveva mai provato l’ebbrezza di suonare live… sono contento che abbia avuto questa possibilità… e grazie a loro.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro degli Illusion of Gravity che vi è possibile anticipare?

U.A.: Abbiamo l’intenzione di lavorare su nuovi inediti. Non aggiungo altro.

F.A.: Intanto ricominciare a vedersi, che in questo periodo è già tanto. Vorremmo, inoltre, creare nuovi brani e, chi lo sa, fare un altro EP, magari senza metterci altri sette anni, altrimenti davvero rischia di diventare “Too late”.

D.G.: Chi vivrà vedrà e sentirà.

Grazie mille ragazzi! 

U.A.: Grazie a te per l’intervista!

F.A.: Ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno dimostrato di apprezzare il nostro lavoro. Abbiamo fatto questo EP prima di tutto per noi, il fatto che stia piacendo mi fa molto piacere oltre a essere del tutto inaspettato. Grazie mille per questa intervista.

D.G.: Ciao Donato e grazie per la disponibilità.

A.C.: Ciao e grazie!

G.Z.: Grazie Donato.

(Gennaio, 2021 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 2. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)

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