Intervista ai Daal

Un caro benvenuto ad Alfio Costa (A.C.) e Davide Guidoni (D.G.): Daal.

A.C.: Ciao caro Donato, grazie per l’invito.

D.G.: Un saluto a te!

Daal, un progetto che si può definire, senza ombra di dubbio (visti i vostri corposi curriculum), un “super-duo”. Ma come nasce la “creatura a due teste” Daal?

A.C.: I Daal sono nati ormai più di dieci anni fa, nel 2008, quando, in previsione dell’uscita dell’album “A.M.I.G.D.A.L.A.” dei Tilion, ero in cerca di un grafico per la realizzazione dell’artwork.

Ricordo che misi un annuncio su un forum dedicato al Progressive Rock e Davide mi rispose subito. Lo conoscevo come batterista dei Taproban e avevo notato la sua abilità anche nel settore grafico grazie ai lavori che il duo Colossus/Musea producevano in quel periodo. Così iniziammo a scriverci e presto capimmo che entrambi eravamo in cerca di qualcosa di “alternativo” anche nel mondo del Prog. Così, per scherzo, decidemmo di incontrarci in un casolare nella campagna viterbese per vedere cosa poteva uscire a livello musicale dalla nostra unione… Non ci conoscevamo personalmente e, col senno di poi, fu un bel rischio per entrambi. Fortunatamente fu l’inizio di una bellissima avventura musicale che dura ancora oggi.

D.G.: Nasce in maniera naturale, per conoscenza su Facebook. Io mi ero appena allontanato dai Taproban per motivi stilistici e personali e, dopo una breve parentesi con i Nuova Era, con cui registrai tre brani presenti su alcune compilations, conobbi Alfio, che a quell’epoca, appunto, cercava un grafico per il nuovo lavoro dei Tilion “A.M.I.G.D.A.L.A.”. Mi proposi e, a poco a poco, decidemmo di creare un progetto sperimentale, dove poter spaziare liberamente. Il primo approccio fu del tutto “free”; affittammo un casolare nel viterbese in cui portammo le nostre strumentazioni, e lì nacquero le idee che poi sarebbero confluite nel nostro primo disco “Disorganicorigami”.

Il nome Daal è “semplicemente” l’unione delle prime due lettere dei vostri nomi. Ma ha anche qualche altro significato più “inafferrabile” alle spalle?

A.C.: Non ricordo se fui io o Davide a inventare sto nome… Semplicemente sono le prime due lettere dei nostri nomi, nessun altro significato “oscuro o nascosto”…

In seguito, scoprimmo che il daal è anche un succulento piatto della cucina indiana…

D.G.: Spiace deluderti, ma, come detto da Alfio, è semplicemente l’unione delle due prime lettere. Suonava bene e abbiamo deciso per questa via.

Il 2009 vi vede già esordire con “Disorganicorigami”, un lavoro in cui mostrate fin da subito le caratteristiche che diventeranno familiari con i seguenti lavori dei Daal: dalle atmosfere corpose al largo spazio lasciato alla sperimentazione, passando per un uso superbo dell’elettronica (tra le tante), tutto avviluppato da un elemento oscuro ed esoterico sempre presente. Vi va, dunque, di narrarmi la genesi del vostro primo album?

A.C.: “Disorganicorigami” nacque, come ho già accennato in precedenza, in questo casale isolato nella campagna viterbese dove Davide ed io ci ritrovammo e ci rinchiudemmo per qualche giorno. Ricordo di avere caricato il mio Mellotron sulla mia amata e mai dimenticata Fiat Multipla, insieme a computer scheda audio e una Master Keyboard, e di essere partito in fretta e furia con una grande voglia di comporre ed esplorare un “nuovo territorio musicale”… Non so perché ma avevo il presentimento che avremmo realizzato qualcosa di particolare e personale… Ero davvero curioso di conoscere Davide e di scoprire cosa poteva nascere da questa avventura in questo posto meraviglioso.

C’era questo casale immerso nel verde e nel silenzio, di proprietà di un amico di Davide, con una bella stanza dove montammo i nostri strumenti e l’attrezzatura per registrare le idee e le bozze dei brani. L’autunno era alle porte e l’atmosfera lì intorno ci influenzò parecchio. Ci buttammo a capofitto nelle composizioni e scoprimmo che entrambi avevamo già qualche bella idea da proporre. Parlammo molto e ci confrontammo, scoprendo che entrambi amavamo l’arte nelle sue varie forme, la letteratura gotica e le rappresentazioni figurative surreali… Insomma, un bel casino…

Non avevamo limiti di tempo, così molte delle composizioni nacquero di notte, in particolare ricordo “Mo(o)nSo(o)n” e “The dance of the drastic navels 1”, forse le tracce più avventurose dell’album. In seguito, gettammo le basi anche per gli altri brani e ad un certo punto ebbi la sensazione di conoscere Davide da sempre, tanto era intensa la sintonia che era nata tra noi.

Una sera fummo raggiunti anche dalla notizia della morte di Rick Wright, tastierista dei Pink Floyd, e così decidemmo di realizzare una nostra versione di “A Saurceful of Secrets” e di dedicare l’album alla sua memoria. Ricordo anche che l’ultima notte di permanenza in quel posto mi addormentai con la testa appoggiata sul Mellotron e, quando mi svegliai, realizzai di esser rimasto solo nella stanza perché Davide era giustamente andato a dormire. Ebbi una strana sensazione lì, solo al buio, sentivo come se ci fosse qualcun’altro con me… una presenza silenziosa… Autosuggestione? Non lo so, certo sembra una storiella da film horror di serie B, ma la mia sensazione fu assolutamente quella. Inizialmente pensai di scapparmene anche io a letto, poi presi a suonare nervosamente ascoltandomi in cuffia e, quasi istintivamente, registrai l’idea base di quella che poi divenne “Brain Melody”. La mattina dopo feci ascoltare il brano a Davide e gli spiegai la strana sensazione provata in quella stanza da solo la notte. Davide fu piacevolmente colpito dal brano, ma scoppiò a ridere ascoltando la mia storiella, accusandomi di avere esagerato col vino quella sera… Ogni tanto mi prende in giro ancora oggi…

Qualche tempo dopo, nel mio studio a casa, sistemai le varie idee registrate nel casale e diedi la forma definitiva ai vari brani dell’album, che in seguito vennero arricchiti da una lunga schiera di ospiti importanti.

D.G.: Come detto, le idee vennero sviluppate in maniera libera e fluida nel corso di un weekend nella campagna autunnale viterbese. Circondati quasi perennemente da nebbia e nuvole, gli elementi oscuri ed esoterici (con richiami al territorio etrusco che ci circondava) vennero a galla in maniera del tutto naturale. Sfruttammo consciamente il beneficio che un tale panorama portò ad ispirarci. Il materiale grezzo venne poi rifinito noi nostri rispettivi studi, con varie sovraincisioni.

Il progetto si mostra sin da subito davvero prolifico e, dopo “Disorganicorigami”, nel giro di meno di cinque anni “sfornate” la tripletta “Destruktive Actions Affect Livings” (2011), “Dodecahedron” (2012) e “Dances of the Drastic Navels” (2014). Mi parlate un po’ dei tre lavori, del loro contenuto e delle differenze/punti di contatto esistenti tra loro (e con l’esordio)?

A.C.: Credo che dopo l’esordio con “Disorganicorigami”, prendemmo atto delle nostre potenzialità creative. Nessun limite di genere, nessun modello da seguire, solo la nostra libera espressione artistica. Se l’album d’esordio fu pubblicato coraggiosamente da Mellow Records, capimmo presto che dovevamo autoprodurci per essere ancora più liberi anche dal punto di vista formale. Daal era ed è ancora oggi un progetto “libero”. Non potevamo permetterci di dover “aspettare” un’etichetta discografica per realizzare i nostri lavori. Così realizzammo “Destruktive Actions Affect Livings” e “Dodecahedron”, in duplice versione: la prima in edizione limitata e numerata, con una veste grafica unica e con un bonus CD ad accompagnare l’album ufficiale, la seconda, invece, col classico CD in versione standard. Fu una scelta vincente che portò ad esaurire le copie dei due album in poco tempo.

“Destruktive” fu un ulteriore passo avanti verso la messa a punto del nostro stile. Forse è l’album più “ostico” di quelli fino ad oggi realizzati dai Daal. Purtroppo non fu possibile ripetere l’esperienza nel casale viterbese, ma fu composto interamente nei nostri studi. Credo sia il naturale sviluppo di quanto avevamo fatto nell’album di esordio. Sono legato a due brani in particolare: “AnarChrist”, dedicato all’anarchico Giovanni Passannante, e “Level 6666”, una sorta di racconto gotico sonoro dominato dal Mellotron. In generale l’album è ancora molto sperimentale e caratterizzato dalla fusione di molti stili diversi tra loro.

Diverso è il discorso per “Dodecahedron”, che fu ispirato a dodici storie “gotiche” scritte appositamente per il disco da altrettanti amici. L’album è sicuramente quello più “pensato”… più “studiato” dei tre iniziali. La mia idea era quella di fondere la componente elettronica e dark dei primi due dischi con la musica classica. Ci ispirammo alle dodici novelle gotiche scritte e ne uscì un album oscuro, con una atmosfera comune per tutti i brani, ma allo stesso tempo ricco di sonorità diverse grazie all’utilizzo di strumenti classici quali pianoforte, flauti, violoncelli, violini, o ancora chitarre acustiche e strumenti etnici quali arpa celtica, chitarre indiane e bouzouki. I brani che compongono l’album non hanno titolo, ma semplicemente un numero progressivo, come i capitoli di un libro. Ancora una volta era un album interamente strumentale, ma stavolta tutte le tracce sembravano legate da un unico filo conduttore. Una sorta di concept album strumentale.

Il quarto album, “Dances of the Drastic Navels”, chiude di fatto il primo periodo Daal ed è stato composto in pochi giorni in una baita tra le montagne bergamasche della Valle Seriana. Questa volta mi rinchiusi da solo, perché Davide all’ultimo momento non poté raggiungermi, come inizialmente programmato. In qualche modo volevo ripercorrere il processo creativo dell’album d’esordio, con l’esperienza dei due successori, per chiudere un po’ il cerchio dell’esperienza Daal di quel periodo. Anche questo album fu autoprodotto, ma non realizzammo una versione limitata come per “Destruktive” e “Dodecahedron”, fu un errore e la colpa fu solo mia. Musicalmente credo onestamente sia un passo indietro rispetto a “Dodecahedron”, anche se contiene una novità per i Daal: un brano cantato intitolato “Inside You” ed interpretato dalla splendida voce di Tirill Mohn, artista polistrumentista e cantautrice norvegese, già componente del gruppo White Willow. Un piccolo gioiellino, un valore aggiunto per la nostra musica.

Credo che questi primi quattro lavori, seppur uniti tra di loro dalla “libertà artistica” che contraddistingue il nostro progetto, siano a loro modo molto diversi uno dall’altro.

D.G.: “Destruktive Actions Affect Livings” è un disco che ho amato alla follia. Significava che il progetto non era solamente un esperimento estemporaneo, ma una creatura dai connotati che man mano si stavano delineando. Col senno di poi posso dire che forse abbiamo forzato eccessivamente la mano su alcune parti sperimentali, ma secondo me il disco possiede un paio di brani tutt’ora tra i miei preferiti. “Dodecahedron” è un deciso cambio di approccio alla materia musicale: ci sono ancora alcune parti sperimentali, ma esse sono più “accessibili” rispetto al passato. Per il resto uno dei miei preferiti, con i primi quattro capitoli in cui diamo il meglio di noi stessi. “Dances of the Drastic Navels” ha avuto una genesi sofferta, e forse questo si sente all’interno del disco: inizialmente dovevamo fare un doppio album, poi decidemmo per due album separati da far uscire in contemporanea, poi alla fine arrivammo al risultato che tutti conoscono: un album più freddo, tecnologico, dove la componente elettronica la fa da padrone. Personalmente, se potessi risuonerei gran parte dell’album, che comunque ha avuto, appunto, una produzione un po’ travagliata.

Sempre risalenti a questo periodo, sul vostro profilo Bandcamp è possibile trovare due lavori quali “Echoes of Falling Stars” e “The Call of the Witches” e il singolo “Echoes”. Vi va di spendere qualche parola al riguardo?

A.C.: In realtà “Echoes of Falling Stars” e “The Call of the Witches” sono di fatto i bonus CD contenuti nelle edizioni limitate di “Destruktive” e “Dodecahedron”. Non vennero mai pubblicati singolarmente. Più tardi quasi tutti i brani che li componevano, vennero ripubblicati nel cofanetto “Archives”, per chi non aveva potuto ascoltarli nelle edizioni originali.

“Echoes”, la cover del famoso brano dei Pink Floyd, venne realizzato per un tributo discografico dedicato alla storica band inglese. Lo pubblicammo integralmente e singolarmente in poche copie, perché ci venne richiesto dai nostri fans.

D.G.: Sono due lavori che raccolgono fondamentalmente alcuni brani finiti in compilation o dischi tributo, oltre a contenere un paio di inediti e qualche cover. In realtà, come detto da Alfio, i primi due sono usciti insieme a “Destruktive” e a “Dodecahedron”, come edizioni limitate.

Tocca attendere quattro anni da “Dances of the Drastic Navels” per vedervi ancora in gioco con un nuovo lavoro: “Decalogue of Darkness”. Nell’album decadenza e romanticismo s’incontrano per creare un’opera definita da più parti l’album più maturo e completo dei Daal. Condividete il pensiero? E, in tal caso, cosa, appunto, lo rende “migliore” degli altri?

A.C.: Penso che “Decalogue of Darkness” non sia migliore dei suoi predecessori, credo sia semplicemente diverso. Abbiamo voltato pagina per questo album, soprattutto dal punto di vista compositivo e dei suoni. Ho cercato di utilizzare un approccio “meno sperimentale” e più vicino ai canoni del Progressive Rock “più romantico”. Anche le registrazioni, la strumentazione utilizzata ed il mixaggio sono tutti adeguati allo stile che avevamo in mente per questo disco. Quindi meno elettronica, strumenti più “tradizionali e adeguati” allo stile “romantico” e all’atmosfera “gotica” che si respira un po’ in tutto l’album. Dici bene, decadenza e romanticismo ed arrangiamenti sinfonici portano “il Decalogo” ad assumere questo aspetto apparentemente più maturo e completo. Non so poi se è davvero così. In ogni caso non sei l’unico a pensarlo…

D.G.: Da un punto di vista produttivo lo rende migliore di altri perché è un disco molto “pensato”. C’è stata molta preproduzione rispetto al passato, mettendo da parte, appunto, del tutto la componente sperimentale, senza improvvisare nulla, e siamo totalmente soddisfatti del risultato: siamo lontani anni luce da “Disorganicorigami”, siamo “progrediti” facendo un disco di “progressive”!!!

E quali sono questi “Dieci precetti delle tenebre” (ma anche del male e dell’ignoranza, così come la lingua inglese ci suggerisce per la traduzione del termine “darkness”)?

A.C.: Abbiamo scelto di non mettere titoli e di dividere semplicemente l’album in dieci capitoli, utilizzando un po’ la stessa filosofia scelta per “Dodecahedron”. In realtà, stando a ciò che osservo oggi nel mondo, ci vorrebbero altro che dieci brani per descrivere lo stato di decadenza ed involuzione dell’essere umano. La musica del “Decalogo” cerca di rappresentare il nostro stato d’animo di fronte alle “bruttezze” della società moderna. Personalmente trovo “oscuro” l’atteggiamento dell’essere umano di fronte alle principali problematiche che affliggono questo mondo. La violenza utilizzata non solo nei gesti, ma anche negli atteggiamenti e nelle parole, l’indifferenza di fronte all’evidenza di problematiche assillanti e gravi, quali, per esempio, il cambiamento climatico e tutte le cause inerenti a questa piaga che sta segnando la nostra società. L’egoismo e l’ignoranza dimostrata soprattutto da “qualcuno” (fortunatamente non da tutti) nell’affrontare tematiche o situazioni che di fatto coinvolgono l’intera umanità… Sono solo esempi che credo ognuno di noi possa riscontrare ed integrare con altri, anche nella quotidianità della nostra vita.

Un elemento che, tra gli altri, mi ha sempre attratto di “Decalogue of Darkness” (ma anche degli album dei Daal in generale) è la copertina. Davide, tu sei l’autore di tutti gli artworks che accompagnano i vostri lavori, sempre caratterizzati da qualcosa di affascinante e inafferrabile. Ma come nascono di volta in volta?

D.G.: Non nascono sempre nella stessa maniera: quasi sempre il titolo dell’album viene scelto in base al mood dei brani, e da lì comincio a idealizzare mentalmente quello che voglio rappresentare. Invece, per il prossimo lavoro che uscirà nel 2022, è successo esattamente il contrario: io ed Alfio ci siamo incontrati a Roma, gli ho mostrato alcune tavole che avevo preparato e gli ho suggerito il titolo dell’album. “Daedalus” contiene brani che si rifanno al concetto della cover e del titolo stesso.

E il 2018 è anche l’anno di “Navels Falling into a Living Origami”, quello che definirei una sorta di “esperimento totale”: una lunga suite che racchiude parti edite vestite con nuovi abiti di scena e parti inedite in cui vi lasciate andare completamente navigando tra i generi musicali. Ma come nasce e si concretizza l’iniziativa?

A.C.: “Navels” nasce come inaspettato e graditissimo regalo per il mio cinquantesimo compleanno da parte di Davide e di alcuni amici musicisti. Credo sia uno dei regali di compleanno più commoventi e sentiti per me. Praticamente Davide ha utilizzato vecchie parti registrate delle mie tastiere ed ha ricomposto in studio questa lunga suite progressiva. Solo in seguito, dopo aver deciso di pubblicare l’opera, sono intervenuto anche io in qualità di arrangiatore e risuonando alcune parti qua e là. Ma il 90% del merito è di Davide. Credo “Navels” dimostri tutta la sua vena e genialità artistica.

D.G.: Nasce dal fatto che ho sempre ritenuto il Progressive, più che uno stile, un approccio alla materia. In questo caso la mia idea era di rimodellare alcune parti presenti sui dischi passati, riarrangiandole, aggiungendo nuove parti, dilatando molto il tutto, una sorta di sospensione sonora che durasse all’infinito: ne è venuta fuori una suite di 50 minuti, che ben rappresenta l’approccio alla materia, più che alla composizione.

Tra 2019 e 2020 ci sono due “regali” che fate al pubblico: “Archives” e “Daecade”, il primo contiene “Destruktive Actions Affect Livings”, “Echoes of the Falling Stars” e “The call of the Witches”, il secondo è una raccolta celebrativa (più l’inedito “Daecade(nt)”). Quando nasce l’esigenza di “tirare le somme” dei vostri primi dieci anni da Daal?

A.C.: “Archives”, come già accennato, è stato realizzato per poter permettere ai nostri fans di ascoltare il nostro secondo album e buona parte del materiale contenuto nei bonus CDs utilizzati per le versioni a edizione limitata, che sono andati “sold out” in brevissimo tempo. Diverso il discorso per “Daecade”, che di fatto è un bilancio dei primi dieci anni di Daal, pubblicato per l’occasione solamente in vinile (colore viola) e con l’aggiunta di un inedito “Daecade(nt)” composto e realizzato esclusivamente per questo lavoro. Ci sembrava un bel gesto da poter dedicare a tutti i nostri fans, che con gli anni sono diventati davvero tanti.

D.G.: “Archives” raccoglie, appunto i lavori sopracitati che ormai erano esauriti, “Daecade” è, invece una celebrazione su vinile dei primi nostri dieci anni. Non avevamo in mente certamente di fare un’antologia su CD, ma quando si è prospettata la possibilità di farla su vinile abbiamo logicamente cambiato idea.

E nel dicembre 2021 ecco comparire sui vostri social alcuni brevi video che anticipano il nuovo album “Daedalus”. C’è qualcosa che potete già snocciolare al riguardo?

A.C.: Ho appena finito il mixaggio e il mastering del CD e della versione digitale. Credo che l’album uscirà nei primi mesi del 2022, ma non sappiamo ancora se lo autoprodurremo o se verrà realizzato e distribuito insieme ad una label… vedremo. Io sono molto soddisfatto dell’album, ci abbiamo lavorato praticamente per un anno intero, insieme ai nostri ormai fedeli collaboratori: Ettore Salati alle chitarre e Bobo Aiolfi al basso. Musicalmente credo sia un buon compromesso tra quanto fatto nei primi lavori e in “Decalogue of Darkness”. Mi soddisfa il fatto che, ancora una volta, abbiamo realizzato un’opera diversa dalle precedenti, pur riconoscibilissima come nostra!

D.G.: Personalmente posso dire che sarà un disco forse più immediato dei precedenti, ma con tutte le solite caratteristiche del gruppo.

In questo percorso che procede spedito da quasi quindici anni, come sono cambiati (se lo sono) Alfio e Davide in fatto di approccio alla scrittura (limitatamente ai Daal)? E come si riesce ad essere un progetto libero da schemi e stili, un progetto anarchico e viscerale, a volte malinconico e cupo, a volte elegante e romantico?

A.C.: Sono convinto di non essere poi cambiato così tanto. Daal per me è ed è sempre stato un progetto davvero libero da qualsiasi schema o vincolo e sono davvero felice di aver trovato in Davide un partner musicale che appoggia e condivide con la stessa libertà questa filosofia. Vedi, nelle mie proposte musicali ho sempre cercato la personalità e l’originalità (dove possibile) prima di ogni altra cosa. Non mi interessa riproporre il Progressive Rock degli anni Settanta, che peraltro adoro e ritengo un periodo unico. Mi sono sempre chiesto che senso abbia “copiare” o ripercorrere lo stesso approccio di cinquanta anni fa. Se devo ascoltare musica “datata” preferisco farlo ascoltando gli originali e non le copie del 2020…. Sicuramente i Daal sono lontanissimi da questa concezione di scrittura ed approccio alla musica.

E cosa vi affascina, in generale, delle tematiche esoteriche? Sono, dunque, una sorta di “terreno fertile” per il vostro modo di fare musica?

A.C.: Il mondo esoterico mi ha sempre affascinato. In particolare, sono da sempre incuriosito da tutto ciò che non si può spiegare razionalmente… o almeno da tutto ciò che apparentemente sembra razionalmente inspiegabile. Le tematiche esoteriche sono da noi spesso utilizzate come metafore della vita reale. L’oscurità del “decalogo”, come spiegato prima, apparentemente legata al mondo della magia nera, è in realtà la descrizione in musica dell’oscurità del nostro mondo e del nostro tempo. Pensa che siamo persino stati accusati di satanismo ed oscenità per un videoclip di uno dei brani del decalogo, in realtà un vecchio film muto svedese che descrive un sabba con tanto di diavoletti a dir poco buffi… Ecco, forse l’oscurità vera sta dentro queste prese di posizione, davvero assurde e prive di senso.

Ad un occhio inesperto, il fatto di essere solo in due lascia pensare ad una gestione “semplice” della creatura Daal. Ma è davvero così? Come si dividono i compiti all’interno del progetto?

A.C.: Siamo un duo anche se, di fatto, da ormai qualche anno, Ettore e Bobo ci danno una grossa mano. Per esempio, in “Daedalus”, Ettore ha contribuito in maniera fondamentale agli arrangiamenti. I Daal sono un “marchingegno ben oliato ed affidabile”, nel quale trovano posto le nostre smanie di espressione artistica, qualsiasi esse siano. Ci è sempre stata chiara una cosa: non avremmo mai dato per scontato nulla e non avremmo mai messo nessun tipo di paletto dal punto di vista creativo. Così se io mi occupo dell’80% delle composizioni, delle registrazioni, mixaggio e mastering, Davide si occupa della realizzazione di tutto ciò che concerne l’aspetto grafico e visivo del progetto. Quindi artwork, copertine, video, immagine del progetto, sono tutte opere del genio artistico di Davidone. Naturalmente alla fine tutto è deciso da entrambi, sia dal punto di vista musicale, che da quello dell’immagine.

In ogni album, comunque, compare una nutrita schiera di collaboratori. Ma come vengono scelti, di volta in volta, i musicisti adatti alla realizzazione dello specifico album? E quanto conta, nell’economia della vostra proposta, “espandere” il contributo sonoro coinvolgendo “terze parti”?

A.C.: Ettore Salati e Bobo Aiolfi, sono ormai da qualche anno i nostri collaboratori fissi. Di volta in volta, a seconda degli album in lavorazione, vengono coinvolti amici musicisti che in ogni opera hanno sempre portato un valore aggiunto alla nostra proposta iniziale. Potrei mettermi ad elencarli tutti, ma rischierei anche di dimenticarmi di qualcuno, quindi preferisco evitare. Voglio solo sottolineare come ogni musicista coinvolto di volta in volta, abbia sempre dato il massimo per la buona riuscita dei lavori dei Daal e si sia adattato perfettamente alla filosofia di libertà artistica del nostro progetto.

Una curiosità tutta mia: come nascono i titoli degli album (e dei brani)?

A.C.: A seconda dell’album, i titoli sono nati da Davide o me. In particolare, “Disorganicorigami”, “Destruktive”, “Dodecahedron”, “Navels” e i titoli dei bonus CD, sono opere di Davide… Il resto è venuto da me… ma anche in questo caso non esiste una regola.

Uscendo ora dall’universo Daal e indirizzandoci altrove, cioè su Alfio e Davide “non Daal”, mi piace ricordare che, recentemente, ho avuto il piacere di intervistarvi entrambi in “Dialoghi Prog – Volume 2”. In quell’occasione abbiamo parlato di tante cose con Alfio (Prowlers, Fufluns, Tilion, il disco solista) e dei Nodo Gordiano con Davide. Ora mi piacerebbe approfondire dell’altro che non è stato toccato in quelle conversazioni. Inizio con Alfio (solo per una questione alfabetica!).

Alfio, un’altra tua esperienza artistica che è decisamente degna di nota è Colossus Project, un progetto, appunto, con il quale hai realizzato, per il duo Musea-Colossus, l’album “The Empire and The Rebellion” (2008), ispirato al primo film della prima trilogia di Star Wars. Mi parli un po’ dell’iniziativa? Verrà portata avanti in futuro?

A.C.: Il Colossus Project è nato da un’iniziativa di Marco Bernard, dell’associazione finlandese Colossus magazine. Con l’etichetta Musea mi hanno conferito l’onore e l’onere di realizzare questo album dedicato alla saga di Star Wars, in particolare ispirato ad “Episode IV”, il primo realizzato da Lucas negli anni Settanta. Per me è stata l’occasione di comporre, registrare (in parte), mixare tutte le composizioni dell’album e di coordinarne l’aspetto artistico, dirigendo i vari ospiti italiani e non che hanno partecipato all’album “The Empire and The Rebelion”. È stata una bella esperienza che mi ha fatto crescere anche artisticamente. Ho conosciuto e collaborato con tanti artisti e con alcuni condivido ancora oggi una buona amicizia. Non credo però ci sarà un seguito, la sensazione è che né Colossus né Musea siano più interessate a pubblicare opere simili.

Restando nelle lande finlandesi, per la Colossus Magazine (la rivista finlandese specializzata in Progressive Rock) hai tenuto una rubrica dedicata agli strumenti vintage e realizzato alcune interviste a grandi artisti. Come nasce e si sviluppa questa collaborazione?

A.C.: In quel periodo la mia collaborazione con Marco Bernard si intensificò. Avevo realizzato due lunghe suites con i Tilion per dei progetti discografici tributo ai film di Sergio Leone. Marco ne rimase molto colpito. Mi colpiva il suo entusiasmo e la sua passione per questo genere musicale. Ci sentivamo e vedevamo tramite Skype praticamente ogni settimana. La rivista Colossus magazine era fantastica! Professionale, ricca di fotografie e di articoli, ben fatti. Così proposi a Marco una rubrica sugli strumenti che utilizzo abitualmente e che sono considerati storici: Hammond, Minimoog, Mellotron, ecc. Così iniziai anche a scrivere dei piccoli articoli e realizzai anche tre interviste: agli amici Vincenzo Zitello e Lino Vairetti e ad uno dei miei miti, il compianto Ken Hensley degli Uriah Heep. Fu una bella esperienza che mi arricchì ulteriormente. Ne conservo un ottimo ricordo anche a distanza di così tanto tempo.

Dagli album di Vincenzo Zitello, passando per “Echoes from the undertow” di B-Rain, progetto dello stesso Davide (con cui andremo più a fondo tra poco), e “Il Risveglio Del Principe” dei Celeste, non sono pochi i lavori in cui c’è lo zampino. Ma come ti trovi da ospite?

A.C.: Sono molto felice di aver collaborato con così tanti artisti del panorama musicale italiano. Cerco sempre di soddisfare le esigenze di chi mi coinvolge e mi metto al servizio della buona riuscita dell’opera. Con Zitello ormai la collaborazione dura da molti anni e ne sono infinitamente orgoglioso. Vince è un fratello per me. Devo dire che ho sempre avuto molta libertà nell’interpretare la mia parte nei vari album. Credo che chi mi abbia coinvolto mi conosca musicalmente molto bene e sappia quello che posso dare e quello che non farei mai. Non sono Keith Emerson e non sono Jon Lord. Sono Alfio Costa e a questo punto penso che la mia musica possa parlare chiaramente per me. Chi mi cerca per un’“ospitata” sa quello che posso dare e lo faccio sempre con il massimo entusiasmo.

Ti va di spendere anche qualche parola sull’iniziativa “Giallo! (One Suite For The Murderer)”, uscita per la Musea nel 2008 e condivisa con Dark Session, Leviathan e Floating State?

A.C.: Anche quello fu un momento particolare e speciale. Per la prima volta apparivo in un album come solista, avendo realizzato l’intro e l’outro dell’opera dedicata a “Profondo Rosso”, il film di Dario Argento con la splendida musica dei Goblin. Si trattava, però, anche questa volta di reinterpretare musicalmente alcuni momenti del film scelti da Marco Bernard.  Così mi presi l’inizio e la fine del film e partecipai al progetto di mio fratello “Dark Session”, suonando nella suite “Vision of Helga”, che credo resti un piccolo gioiellino, degna espressione delle capacità musicali di Flavio.

Davide, se non vado errato il tuo esordio avviene con la Neo-Prog band Gallant Farm, con cui pubblichi l’album “Leverage” nel 1994. Mi parli un po’ di quell’esperienza e di quel disco? Come mai il cammino della band finì?

D.G.: Beh, il cammino della band fu’ in realtà lungo, poiché suonai con loro per una decina di anni e forse più. Era un periodo in cui si riusciva a suonare nei locali in maniera più semplice di ora e, mediamente, facevamo almeno un concerto a settimana. Dopo alcuni anni di rodaggio e con un buon repertorio alle spalle, decidemmo per la carta del disco. “Leverage” fu prodotto e missato da Mauro di Donato (Ezra Winston) nei loro studi vicino Viterbo nel 1988, ma vide la luce soltanto qualche anno dopo per merito della neonata Progland di Guarini. Continuammo a suonare almeno fino al 1995, dopodiché le strade si separarono.

E poi The Far Side, Nuova Era, Ozone Player, Doracor, Taproban, Aries, Pensiero Nomade, Nodo Gordiano: sei instancabile! Ti va di fare una “riassunto” delle tue esperienze?

D.G.: La maggior parte dei nomi sopracitati sono solo collaborazioni che mi vennero proposte nel corso degli anni. Discorso diverso per i The Far Side, con cui siamo amici da decenni. Cominciai a suonare con loro nel 1988 e pubblicammo un unico CD nel 2003, per la Mellow Records, dal titolo “Parallelebiped”. Con Salvo Lazzara ho collaborato su vari dischi di Pensiero Nomade, nonostante sia totalmente lontano dalle mie solite coordinate stilistiche. Sono soddisfatto, invece, del mio approccio con il Nodo Gordiano: “Sonnar” lo ritengo un gran disco, come lo sarà “H.E.X.”, uscito a metà dicembre 2021 su Lizard Records.

E nel 2018 hai anche il tempo di esordire con un disco tutto tuo, “Echoes from the undertow”, uscito a nome B-Rain. Ti va di narrarmi la genesi di questo lavoro che si muove tra ambient, new age ed elettronica (ma non solo)?

D.G.: Alfio stava lavorando ai suoi progetti musicali, e quindi avevo un po’ di tempo per me stesso: ho cominciato a tirare giù qualche idea e, pian piano, ho creato alcuni paesaggi dalle tinte “umbratili”. La particolarità di questo lavoro è che non ho mai suonato la batteria su nessun brano, affidandomi, invece, a percussioni e loop. Fondamentale direi l’aiuto ricevuto da alcuni ospiti più o meno famosi, Roberto Vitelli (Ellesmere), Vincenzo Zitello, Luca Pietropaoli (Fonderia), ecc.

Come nasce il nome B-Rain e cosa significa?

D.G.: In realtà non significa nulla… forse inconsciamente significa pioggia mentale… ma non ne sono sicuro… suonava bene…

Come detto in precedenza, gli artwork degli album dei Daal sono tuoi. Questo tuo lato artistico, negli anni, è stato anche “prestato” ad altri artisti. Com’è, dunque, il Davide lontano dalle pelli e come nasce e si sviluppa il tuo lato “grafico”?

D.G.: Nasce dalla mia passione per le arti figurative: ho cominciato sperimentando e, pian piano, mi sono ritagliato un piccolo spazio nell’ambito degli artwork: soprattutto nell’ambito del Prog c’è la possibilità di spaziare stilisticamente senza troppi vincoli. Credo di aver fatto almeno una sessantina di cover, anche se ultimamente ho ristretto il campo esclusivamente ai dischi dove sono presente come musicista.

In definitiva, al netto di tutte le vostre esperienze, come valutate, all’interno del vostro percorso artistico, il progetto Daal? E quanto, secondo il vostro punto di vista, differisce da tutti gli altri vostri mondi creativi?

A.C.: Daal è un progetto unico nel suo genere. Oggi ne sono ancora più convinto di prima. Con i Daal sono e mi sento artisticamente libero. Posso esprimermi senza vincoli di sorta e posso interfacciarmi con un partner musicale quale Davide che, oltre ad avere molta esperienza e un alto valore come Artista, mi ha sempre aiutato a crescere e a “progredire” come musicista. …e di questo gliene sarò sempre grato.

D.G.: Il progetto Daal è stato, ed è ancora, un progetto stimolante artisticamente, sotto tutti i punti di vista: il processo che ci porta man mano a lavorare su nuovo materiale è sempre interessante, scevro da frizioni o stress, per cui anche molto rilassante, ma credo che questo avvenga generalmente in gruppi formati da poche menti. D’altronde non abbiamo più venti anni, abbiamo dato e ricevuto dalla musica molto, se un progetto fosse stressante, fatto di persone che litigano su qualsiasi stronzata, esso non mi vedrebbe certamente coinvolto.

E, in generale, come sono stati accolti i vostri album da pubblico e critica in questi anni (va detto che all’attivo avete anche alcune nominations ai ProgAwards come miglior disco italiano)?

A.C.: Direi che sono stati accolti molto bene! Molto più di quanto ci aspettassimo, per lo meno per quanto potessi aspettarmi io da un progetto così “libero”. So che “Decalogue of Darkness” è entrato anche nelle classifiche di gradimento di ProgArchives, un portale internazionale formato da autorevoli conoscitori del genere. È una bella soddisfazione, considerando anche che i Daal non sono una live band.

D.G.: Alla fine posso dire che sono stati accolti molto meglio di quello che pensassi: forse il fatto di aver prodotto due dischi come “Dodecahedron” e “Decalogue of Darkness” ha avvicinato più persone al nostro mondo, comunque non fruibilissimo, fatto di molto mistero e di oscurità.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

A.C.: La tecnologia legata al web e a internet ci ha dato la possibilità di condividere e creare musica con altri artisti, anche dall’altra parte del pianeta. Io stesso ho realizzato progetti discografici a distanza e un esempio ne sono i Daal. È fantastico perché fino a qualche decennio fa questa era pura fantascienza.

Purtroppo, però, ha anche sentenziato la fine dell’ascolto della musica. Ormai la musica non si ascolta più, viene fruita e utilizzata in modo molto veloce e facile, con una scelta impensabile fino a pochi anni fa, tramite le piattaforme digitali e le vie anche illegali presenti sul web. Risultato: In pochi ascoltano, in tanti sentono distrattamente.

Prendi il tuo cellulare ti metti le cuffie e scarichi l’album del tuo artista preferito, stop. Fine delle copertine colorate, del profumo della carta, del rumore della puntina tra i solchi o semplicemente anche del CD che entra nel suo lettore. È finita l’epoca di chi ascoltava musica nella propria camera sfogliando il booklet di un CD o leggendo i testi dei brani su un gatefold di un vinile. Oggi in pochi ascoltano come si deve la musica… e pensare che il pregio più grande della musica dovrebbe essere quello di permettere di ascoltare.

D.G.: Io direi che tutto sommato è una cosa positiva: la musica, di conseguenza, viaggia velocissima e rende possibile la fruibilità a chiunque voglia approcciarsi a qualsivoglia progetto. Ormai si trova qualsiasi cosa sul web, anche nomi che una ventina di anni fa erano ignoti ai più. E questo, in parte, è anche il rovescio della medaglia: tutto viene fagocitato troppo velocemente, la fruizione digitale di una discografia intera, scaricata o comprata con un clic non descrive le fasi “storiche” di quel progetto, fatte di pause, rinascite, storie individuali, ecc.… Oltre al fatto che adesso chiunque, legittimamente o meno, con un minimo di tecnologia può approcciarsi a creare musica propria e riversarla nel web con, appunto, un clic.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?

A.C.: Dal mio primo album pubblicato con i Prowlers, “Morgana”, nel 1994, ho capito quanto fosse difficoltoso trovare una label che potesse produrre e promuovere la propria musica. A quei tempi era addirittura più facile, rispetto ad oggi, trovare nell’ambiente Prog persone serie e qualificate in grado, prima di ogni altra cosa, di credere in te e di impiegare passione, tempo e denaro per dare una giusta visibilità al tuo progetto. Con gli anni tutto si è ulteriormente complicato. Sono nati migliaia di gruppi nuovi e dall’altra parte le etichette del settore sono quasi tutte sparite. Certo con l’utilizzo di software sempre più perfetti è stato anche più facile ed accessibile a tutti poter registrare e mixare un disco in piena autonomia nel proprio home studio.

Ma l’aspetto più triste resta quello legato alla promozione. Spesso succede che i discografici ti producono un disco che praticamente hai già realizzato da solo, limitandosi a stamparlo. Stampato l’album dovrebbe immediatamente scattare una promozione massiccia fatta di live ed eventi. Purtroppo la realtà è assai diversa e per svariati motivi si fatica pesantemente a suonare la propria proposta musicale in un contesto degno di nota. Personalmente mi ritengo fortunato perché, nonostante le varie difficoltà, ho sempre trovato persone che hanno creduto in me. È anche vero che con i Daal abbiamo scelto di autoprodurci ed affidare solo la distribuzione alle etichette. Questa decisione ha i suoi lati positivi e negativi e necessita di una robusta presenza in prima persona dell’artista nella promozione su tutti i canali tecnologici a disposizione.

D.G.: C’è un appiattimento generale direi, dovuto proprio al fatto di avere centinaia di proposte tra le quali poter scegliere, cosa che fino a venti anni fa era pura fantascienza, per cui i gruppi di un genere di nicchia vendono poco e nulla. Commercialmente parlando, il Progressive esiste per una manciata di gruppi come Marillion o IQ, forse.

E qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

A.C.: Credo che la scena Prog Italiana sia ricca di autentici talenti, ma di altrettante proposte scadenti e banali. Personalmente ho avuto la fortuna di collaborare con molti artisti interessanti e queste collaborazioni, come già accennato in precedenza, mi hanno sicuramente fatto crescere. Purtroppo, però, ho anche notato nel tempo una sorta di infelice cocktail di presunzione ed invidia da parte di musicisti ed addetti dell’ambiente (per fortuna non molti) che, a mio avviso, non porta alcun vantaggio. Siamo un genere di nicchia, un piccolo granello di polvere in un universo di musica e dovremmo essere tutti più uniti e “complici”.

Altra nota dolente sono gli eventi live, col tempo praticamente diventati pochissimi e non sempre gestiti e organizzati adeguatamente. Il disinteresse generale per la cultura non aiuta sicuramente, ma credo che anche nel nostro piccolo ambiente ci si debba porre più di una domanda e fare le giuste riflessioni. Spesso capita di suonare gratuitamente in eventi poco pubblicizzati e con pochissima gente. È totalmente sbagliato! Il lavoro di un musicista va pagato e va valorizzato adeguatamente, altrimenti è meglio starsene tranquillamente a casa. Alla fine degli anni Ottanta suonavamo tutte le settimane. Negli anni Novanta una o due date al mese. Con l’avvento del nuovo millennio, parlo per me, le date sono diventate una manciata in un anno e non sempre in situazioni gradevoli. Infine oggi, per poter avere un adeguata location mi sono dovuto inventare anche il ruolo di organizzatore di eventi e ti assicuro che è molto frustrante per un musicista.

D.G.: Secondo me gli spazi sono insufficienti per proporre musica live ma, come per il Prog, questo discorso vale per tutti gli altri generi: personalmente nel corso della mia carriera da musicista avrò suonato una decina di volte al massimo in posti in cui valeva la pena esibirsi live.

La scena Prog Italiana direi che è ottima! Mi piacciono un sacco di gruppi, tutti i progetti del Roversi, La coscienza di Zeno, Il tempio delle Clessidre, gli storici Il Bacio della Medusa e, naturalmente, i progetti del mio compagno di avventura Alfio Costa, Daal in primis!

Esulando per un attimo dal mondo Daal e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

A.C.: Io amo cucinare. La ritengo un Arte quasi al pari della musica. Ho frequentato una scuola di cucina e ho fatto, anche in questo caso, la mia scelta optando per piatti semplici e per la qualità degli ingredienti. Certo non mi vedrai mai a MasterChef…

D.G.: Come detto in precedenza, ho sempre cercato di coniugare vita normale e spazi artistici: per anni ho collaborato con vari gruppi ed etichette per gli artwork e le cover dei CD e ho realizzato il mio album da solista (“Echoes from the Undertow”, sotto il nome B-Rain, uscito per Lizard). Inoltre, per un breve ma intenso periodo della mia vita ho creato percussioni di metallo e gongs sotto il nome di Kimerism Gongs. Insomma, appena ne ho avuto la possibilità, ho cercato di colorare sempre la mia vita.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

A.C.: Oddio è davvero difficile per me. Sono nato ascoltando i brani alla radio nella casa dei miei genitori. Ero un bambino all’inizio degli anni Settanta e credo di aver assorbito in qualche modo le sonorità di quel periodo, sia che provenissero dal pop che dal rock. Da adolescente sono diventato un accanito ascoltatore di hard rock, soprattutto Kiss, Black Sabbath, Deep Purple, Uriah Heep e Led Zeppelin. Poi è nato l’amore con i Pink Floyd che dura ancora oggi. Solo qualche anno più tardi ho dato il giusto valore al Progressive Rock. Prima quello internazionale con i Rush, i King Crimson ed Emerson Lake and Palmer, poi quello italiano che già avevo conosciuto negli anni della mia infanzia, ma che solo da adolescente ho rivalutato. Soprattutto Osanna, Goblin, The Trip e Balletto di Bronzo… loro furono i miei veri eroi del Prog di casa nostra. Oggi non mi ritengo un vero ascoltatore di Progressive Rock, sono molto istintivo anche nell’ascolto della musica. Adoro la musica classica, le colonne sonore di Morricone, la musica di Vincenzo Zitello, quella di Giovanni Sollima e, in ambito rock, Opeth, Lunatic Soul e Porcupine Tree.

D.G.: Se dovessi avere una pistola puntata alla tempia, e dovessi scegliere cinque dischi “per sempre”, direi: “Ummagumma”, “Spirit of Eden”, “Tales from Topographic Oceans”, “In the garden of Pharaos” e “Larks Tongues in Aspic”. Senza pistola alla nuca, invece, sono un ascoltatore che va a periodi. Ho abbandonato da tempo il sinfonico e ricerco costantemente gruppi che con la sperimentazione hanno creato un linguaggio originale e senza tempo. È il caso di una recente scoperta che ho condiviso con Andrea, i misteriosissimi DOM ed il loro “Edge of Time”.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

A.C.: Non ho un nome in particolare da consigliare. Ce ne sono davvero tanti di Artisti degni di essere approfonditi. Mi sento solo di dare un consiglio ai giovani. Leggete, informatevi, andate a teatro, al cinema, nei musei, alle mostre d’arte e ascoltate musica. Fatelo con passione e curiosità… riscoprite il senso della vita, riappropriatevi della vostra vita, dell’appartenenza ad una società che ha creato anche tanto splendore, condividete le vostre sensazioni, le vostre emozioni e lasciate da parte l’inutilità dell’“apparire” che ci viene continuamente imposta ogni giorno da tv, media, social web e dai loro falsi eroi.

Tornando al giorno d’oggi, personalmente e artisticamente, come avete affrontato e reagito al “periodo buio” della pandemia che abbiamo vissuto recentemente (e che, in parte, stiamo ancora vivendo)? Pensate che l’arte e la musica, in Italia e a livello globale, siano state solo “ferite di striscio” o abbiano subito un “colpo mortale”?

A.C.: La pandemia ha dato un ulteriore colpo a tutto lo scenario musicale ed artistico, rendendo tutto più difficile da realizzare, soprattutto dal punto di vista dei live. Personalmente ed artisticamente ho scritto e realizzato il mio primo album solista “Frammenti” e non mi sono mai fermato, per lo meno per quanto riguarda il lavoro in studio. Purtroppo non ho potuto suonare il disco “Refusès” dei Fufluns uscito questa estate, proprio perché tutti i concerti e i festival hanno riproposto le performances interrotte e previste per il 2020, ma che, per ovvie ragioni, non si sono mai concretizzate.

Alfio, recentemente hai comunicato la tua uscita dal progetto Fufluns. Posso chiederti il motivo?

A.C.:  La mia uscita dai Fufluns è imputabile a motivazioni strettamente personali e a scelte prettamente artistiche. Voglio bene ai ragazzi della band e li considero cari amici, ma, mio malgrado, mi sono reso conto che non potevo continuare a farne parte, perché oggi ho esigenze artistiche che non riscontro più in questo progetto. È un peccato perché ritengo che “Refusès” sia un grande album, che mi ha coinvolto al 100% per ben tre anni (anzi… più di tre anni), ma ascoltandolo oggi lo sento estremamente “lontano” da me.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sugli anni di attività con i Daal?

A.C.: Ogni volta che iniziamo un album, dopo aver composto le bozze dei brani, li invio a Davide per avere un feedback. Soprattutto gli ultimi lavori hanno subito riscontrato il suo favore. Sarà perché ormai da qualche anno (anzi l’ultima volta era prima che scoppiasse la pandemia), prima di iniziare a comporre, scendo a Roma a trovarlo ed è sempre l’occasione giusta per fare festa nelle osterie di Trastevere…!

Per chiudere: c’è qualche altra novità sul prossimo futuro dei Daal che vi è possibile anticipare? 

A.C.: Dopo “Daedalus”, al momento non abbiamo ancora deciso cosa fare e come continuare… Anche questa incertezza, fa parte del nostro modo di essere Daal.

Grazie mille ragazzi!

A.C.: Grazie mille a te Donato, per la tua passione e per il tuo interesse!

D.G.: Grazie a te!

(Gennaio, 2022)

 

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