Intervista a Giuseppe “Julius” Chiriatti

Un caro benvenuto al tastierista e compositore Giuseppe “Julius” Chiriatti.

G.C.: Grazie a te dell’invito, che cade giusto a un anno esatto dalla pubblicazione del disco “Cut The Tongue”, realizzato grazie al mio Julius Project!

Iniziamo la nostra chiacchierata dalle origini. Quali sono i tuoi primissimi passi nel mondo della musica e i primi “amori”?

G.C.: Ascolto musica fin dalla tenerissima età: mio zio era appassionato di swing e aveva tanti dischi che ascoltavo a soli 4-5 anni, mentre i miei coetanei sentivano solo le canzoncine per bambini. Mia madre era diplomata al Conservatorio, avevo in casa a disposizione un pianoforte verticale ma, invece, ho iniziato strimpellando la chitarra intorno ai 12 anni: solo l’anno dopo mi sono avvicinato ai tasti bianchi e neri. A 15 anni sono entrato nel primo nucleo di quelli che poi sarebbero diventati i Forum, il mio primo gruppo, con i quali ho suonato fino al 1980. La prima folgorazione avvenne quando ascoltai per la prima volta i Led Zeppelin, seguiti a ruota dai Pink Floyd e dai The Nice di Keith Emerson, ma l’elenco sarebbe lunghissimo… ho ascoltato e apprezzato praticamente tutta la produzione di quel periodo!

Quando e perché Giuseppe diventa Julius?

G.C.: Qui c’è un piccolo aneddoto da raccontare: alcuni anni fa avevo iniziato a scrivere un breve racconto autobiografico su alcune vicende della mia gioventù, ma non volevo usare il mio nome. Pensai quindi a un nome che lo richiamasse e chiamai il personaggio Giulio, nome che mi piace molto e che ha le prime tre lettere in comune con il mio. Da Giulio a Julius il passo è stato breve!

Tra il 1978 e il 1981 componi i brani di quello che, molti anni dopo, sarebbe diventato il concept album “Cut The Tongue”. Mi parli della sua genesi e del suo contenuto?

G.C.: Tutto nacque dopo una brutta notte di San Silvestro, descritta successivamente nel brano “Speed Kings”. Era un’alba gelida quella del primo gennaio 1978 e, abitando in campagna, il freddo era molto intenso: ma il freddo maggiore lo avevo nel cuore ed ero tanto angosciato. Ad un tratto guardai fuori dalla finestra e vidi il sole che iniziava a squarciare l’oscurità della notte. Le prime parole mi vennero di getto: “Dividendo il cielo, l’alba del primo dell’anno sta cercando di riscaldare questo ghiaccio che copre tutto, ora…”. Fu così che scrissi “Clouds pt.1”, il primo brano di quello che sarebbe poi diventato questo disco. Nei mesi successivi, e fino al gennaio 1981, ne nacquero altri sedici, scritti in disordine e apparentemente senza alcun filo logico. L’opera narra la storia di un ragazzo di nome Boy, un giovane come tanti che vive un percorso di crescita interiore attraverso esperienze difficili e introspettive, ma che lo porteranno a maturare e ad accettare la propria solitudine come necessaria a ritrovare se stesso.

Nelle intenzioni di Julius tutta la produzione era destinata ad essere eseguita dal suo gruppo dell’epoca, i Forum, i quali tuttavia, avendo abbandonato nel 1976 il prog a favore del rock-jazz, ritennero questi brani poco interessanti e superati. È davvero solo questo il motivo del “naufragio” dell’album? Non hai mai avuto modo di concretizzarlo in qualche altra maniera (prima del 2020)? E mi parli anche un po’, in generale, dell’esperienza Forum?

G.C: Sì, decisamente. Mi scoraggiò molto la freddezza con cui i miei amici di allora accolsero le demo che avevo preparato, ma forse avevano anche ragione. Il Prog stava tramontando, nuovi orizzonti musicali si affacciavano e quindi il loro disinteresse per “Cut The Tongue”, tutto sommato, era storicamente giustificato. Quanto al fatto se abbia mai pensato di riprenderlo, avevo dimenticato totalmente la sua esistenza, fino al giorno in cui mia figlia Bianca ha scavato nel mio passato musicale e lo ha “riscoperto”. I Forum sono stati il mio primo gruppo e li ho amati profondamente, fanno parte della mia adolescenza e gioventù e abbiamo fatto insieme cose bellissime. Siamo sempre rimasti molto amici e con due di loro ho anche suonato in un altro gruppo, più avanti. È stata l’esperienza che mi ha formato musicalmente e la ritengo la mia “scuola elementare”, dove ho appreso quelle nozioni base che ti accompagnano per tutta la vita.

C’è qualche altro aneddoto che ti va di condividere su quel periodo storico?

G.C.: Mi viene in mente subito un provino fatto alla RCA. Avevamo portato una serie di brani a metà strada fra il Prog e il free-jazz, forse un po’ troppo “avanti” per l’epoca. Furono ascoltati con molta attenzione e poi fummo convocati a Roma. Una volta lì, ci fecero tanti complimenti e poi… ci proposero di fare un album di cover di successi italiani riarrangiati in chiave disco-music… non ti dico la delusione!!!

Tocca attendere il 2014, e ringraziare tua figlia Bianca, appunto, per sentir nuovamente parlare dei tuoi brani. Com’è riuscita a convincerti a riprendere in mano quelle composizioni?

G.C.: Tutto è successo quasi per caso. Dovevo partecipare a un revival di gruppi leccesi degli anni ’70 e desideravo riprendere qualche vecchio brano dei Forum; quella sera c’era Bianca con me, che avrebbe poi cantato le canzoni scelte. Scartabellando fra le vecchie carte ha tirato fuori un raccoglitore con i brani di “Cut The Tongue” e io le ho detto di lasciarlo fuori così avrei approfittato per buttare via tutto e fare un po’ di spazio. Lei mi ha chiesto perché volessi eliminarli e le ho risposto che si trattava di “robaccia”, vecchi brani scartati all’epoca. Mi ha chiesto di farglieli sentire e le ho detto di cercare fra le musicassette, dove c’erano forse dei provini. Ed è stato così che lei le ha messe su ed è rimasta folgorata, dicendomi che sarei stato un pazzo a eliminarle. Io non ero molto convinto, pensavo fosse tutto fuori epoca, vecchio, ma il suo entusiasmo giovanile alla fine mi ha convinto a rimetterci su le mani: ha insistito tanto!

Ed ecco allora che, grazie soprattutto a Paolo Dolfini (Jumbo), la tua “creatura” acquista la fisionomia definitiva. Come si è svolta la vostra collaborazione? E quanto dell’idea originale è stata preservata?

G.C.: Pur fidandomi delle giovani orecchie di Bianca, ho voluto prima sottoporre a Paolo quei brani per sapere cosa ne pensasse. Paolo ed io siamo grandi amici da quasi vent’anni, ci siamo conosciuti ai raduni dell’Hammond Italia, dove si incontravano tanti appassionati di quel meraviglioso organo. Ho così preparato dei provini rispettando fedelmente le idee originali, facendo cantare quasi tutto a Bianca, e ho spedito il tutto a lui. Ricordo ancora che il suo primo commento fu “Ma sai che non sono niente male?”, che equivale, per chi lo conosce bene, a un giudizio entusiastico! Abbiamo così creato una piattaforma di condivisione del progetto dove abbiamo lavorato a quattro mani, lui nel preziosissimo ruolo di arrangiatore e io nel metterci dentro altre idee e correzioni. Il prodotto finito, benché arrangiato in maniera un po’ diversa, rispecchia fedelmente l’idea originale, non è stato stravolto nulla, se non ovviamente alcuni aggiustamenti che ho fatto nei testi per rendere più fluida la narrazione.

25 novembre 2020: quando comprendi, infine, che il materiale è pronto per essere pubblicato?

G.C.: Nell’estate di quello stesso anno: è stato allora che abbiamo completato il tutto. In agosto Paolo ha partecipato al missaggio finale al RecLab Studio di Buccinasco (Mi) e il 28 agosto ci siamo andati insieme per gli ultimi ritocchi e la finalizzazione. Da quella data fino al 25 novembre è stata tutta produzione, definizione delle grafiche e stampa.

Mi parli dei suoni dell’album? Cosa ti ha ispirato all’epoca e come si è adattato il tutto all’oggi?

G.C.: All’epoca avevo a disposizione un piano elettrico Wurlitzer, un organo Farfisa, un synth Jen, un Davolisint e una tastiera di violini Elka, oltre al pianoforte verticale di cui ti ho parlato: certo, non era esattamente quello che avrei desiderato utilizzare, ma gli strumenti che avrei voluto costavano milioni di lire e mi sono dovuto accontentare. Quando si è trattato di riprendere in mano il tutto nel 2014, invece, possedevo già la strumentazione ideale: Organo Hammond del 1964, perfettamente restaurato, con Leslie 145 anch’esso d’epoca, Moog Voyager, il nuovo Mellotron M4000D e un paio di workstation; Paolo, dal canto, suo ha utilizzato il suo fantastico Moog model D e la Korg Lambda come strings machine. A completare la tavolozza delle tastiere, entrambi abbiamo usato poi la Kurzweil PC3 e la Nord Stage 2 per tutti gli altri suoni. Sul fronte del basso Marco ha usato i suoi magnifici Rickenbacker del ’75 e il Wal dell’84, e fra le chitarre segnalo due Gibson Les Paul del ’68 e del ’72 e una Fender Stratocaster dell’86. Come vedi la stragrande maggioranza sono strumenti vintage o che replicano suoni vintage, e ciò è stata ovviamente una scelta ben precisa, perché il desiderio era quello di mantenere l’atmosfera da me immaginata all’epoca.

“Cut The Tongue”: mi spieghi anche il titolo piuttosto curioso? E come mai è uscito a nome Julius Project?

G.C.: Dalla storia narrata nel disco un po’ si comprende: ero un ragazzo di 22 anni, vissuto in provincia, ed ero stufo di sentirmi dire da tutti cosa dovessi fare della mia vita: avevo già le idee piuttosto confuse senza che avessi bisogno di altri che me le confondessero ancora di più, genitori, amici di famiglia, conoscenti un po’ “borderline”, tutti personaggi descritti nel disco. Desideravo davvero “tagliar loro la lingua” affinché tacessero una buona volta e mi lasciassero da solo a pensare ai fatti miei. È nata così la lirica della title track, che poi ho finalmente musicato nel 2019, e che ho affidato a Richard Sinclair nel ruolo dello “spirito guida”. L’origine del nome, invece, è molto semplice: come ti ho detto prima qualche anno fa avevo già adottato lo pseudonimo “Julius”, e da lì quindi è nato “il progetto di Julius”, “Julius Project”!

Da Richard Sinclair (Caravan, Camel, Hatfield and the North) a Paolo Dolfini (Jumbo), passando per Marco Croci (Maxophone), Dario Guidotti e Daniele Bianchini (entrambi nei Jumbo), solo per citarne alcuni: per la realizzazione di “Cut The Tongue” hai scelto una squadra di prim’ordine. Ma come nascono, appunto, le collaborazioni con questi musicisti? C’è una qualche possibilità di vedervi, con la formazione del disco (o quasi), sul palco in futuro?

G.C.: Cominciamo da Richard: l’ho conosciuto nel 2017 in occasione di un concerto organizzato da quella che sarebbe divenuta l’Associazione Prog On della quale faccio parte, grazie al Maestro flautista Gianluca Milanese e a Mario Manfreda, presente come chitarrista nell’album. Ho avuto l’onore di suonare l’organo con lui in più di un’occasione e siamo diventati amici. Di Paolo ho già detto, mentre Marco, che è suo amico, l’ho conosciuto in occasione di un concerto dei Maxophone al festival Prog di Veruno e sono rimasto molto colpito dal suo modo di suonare e anche dalla sua voce, tanto che ha cantato “Speed Kings” nell’album. Dario e Daniele non li conosco personalmente: li ha coinvolti nel progetto Paolo, che ha suonato con loro nei Jumbo e per me è stato un onore immenso avere la loro collaborazione, sono stati fra i miei idoli della gioventù; mai avrei immaginato che un giorno potessero suonare e cantare cose mie! Per quanto riguarda il live, ci stiamo lavorando. Non è un’impresa facile, siamo sparpagliati fra Milano e Lecce e oltretutto siamo in tanti; ci sarà senz’altro un appuntamento dal vivo, magari non con tutti, ma io confido che presto ce la faremo!

Ma ci sono anche le voci delle tue figlie Bianca e Martina nell’album. Com’è stato lavorare con loro? Avresti mai pensato nel lontano 1978 che, un giorno, l’album sarebbe stato realizzato “in famiglia”?

G.C.: Bianca è stata colei che ha tirato fuori dalle tenebre i brani, quindi mi è sembrato assolutamente naturale affidarle la parte di Boy, il protagonista; anche se non si definisce tale, lei è una brava cantante, vocalmente molto dotata e con un timbro estremamente riconoscibile. Molti mi hanno chiesto come mai la parte di un ragazzo fosse stata interpretata da una donna, ma io credo che la storia raccontata non abbia sesso: coinvolge ragazzi e ragazze che attraversano quel periodo buio della vita che li porta a sentirsi sbandati, privi di certezze e di visione del futuro. Credo infatti che “Cut The Tongue” parli di argomenti attualissimi, ora come allora. Con Martina non è stato subito facilissimo. Pur essendo anche lei dotata vocalmente, non ha mai amato esibirsi; tuttavia, quando le ho fatto sentire la sua piccola parte, che è quella del famigerato “profeta” al quale bisognava tagliare la lingua, ne è rimasta affascinata e l’ha interpretata mirabilmente. Anche qui, la voce femminile su un personaggio maschile può spiazzare, ma l’effetto è proprio quello che desideravo: i falsi profeti non hanno necessariamente un vocione maschile autoritario, ma sanno meglio sedurti con le loro lusinghe flautate.

Una curiosità sulla title track realizzata, appunto, nel 2019, su liriche dell’epoca, e destinata alla voce di Richard Sinclair. Come mai questo parziale “ritardo”? E, dunque, il titolo originale dell’album non era quello del 2020?

G.C.: Nelle intenzioni iniziali, in effetti, la title track del disco doveva essere semplicemente un brano recitato del quale, infatti, avevo scritto solo il testo; tuttavia, il titolo originale è stato sempre “Cut The Tongue”, anzi pure con il sottotitolo (of every bad prophet). Come ho detto, nel 2017, in occasione di un concerto organizzato dall’Associazione musicale leccese Prog On, ho invece conosciuto Richard Sinclair e in tale circostanza ho suonato l’organo in alcuni suoi brani. Da lì mi è nata l’idea di musicare il testo di “Cut The Tongue” modellando la melodia su misura per la sua voce, cosa poi avvenuta nel 2019. Lo sottoposi alla sua attenzione e lui, dopo averlo ascoltato, fu entusiasta della mia proposta di cantarlo, ed è così che il disco si è arricchito di questa prestigiosa presenza.

Ti va di spendere anche qualche parola sull’artwork?

G.C.: Tutte le illustrazioni dell’album sono state mie idee, nate dalle suggestioni delle liriche del disco. Ho creato dei bozzetti, ma non sapendo dipingere mi sono rivolto ad un pittore vero, Mimmo Ragone, che ha realizzato esattamente ciò che desideravo, dipingendo tre quadri che ho in casa, dai quali sono tratte le immagini dell’album. La copertina rappresenta il cigno in perfetta solitudine nel lago, mentre la parte interna riassume tutta la storia e le vicissitudini di Boy, il protagonista. A questo proposito vorrei dire anche che in tutte le interviste mi hanno chiesto il significato delle cose più disparate e dei messaggi reconditi di tanti passaggi, ma nessuno mi ha chiesto mai una delle cose più importanti, cioè cosa rappresenti il cigno, onnipresente in tutto il disco. Come spesso ho detto, preferisco che sia l’ascoltatore a trovare il suo personale significato al tutto, ma mi fa piacere svelare, in questa occasione, che per me il cigno non rappresenta altro che l’obiettivo al quale Boy aspira, a volte vicinissimo, a volte sfuggente, a volte assente, ma sempre da lui desiderato.

Com’è stato accolto “Cut The Tongue” da pubblico e critica?

G.C.: Non mi aspettavo minimamente tanto entusiasmo! La critica è stata fin troppo buona, giudicandolo un disco davvero ottimo; mi ha colpito in particolare la stampa estera, che ha speso parole davvero lusinghiere. Anche il pubblico mi ha stupito: in un’epoca in cui il disco fisico non si vende più, è stato sorprendente il riscontro delle vendite, che in poco tempo hanno fatto esaurire metà della tiratura. Come sempre, però, “nemo propheta in patria”, nel senso che nella mia città, notoriamente esterofila e anche un tantino snob, a parte l’affetto degli amici non c’è stato tutto questo gran riscontro, nemmeno da parte delle amministrazioni pubbliche, che pur sbandierando l’interesse per la cultura, hanno praticamente ignorato un fenomeno locale in grado addirittura di valicare i confini nazionali.

Posso chiederti cos’ha fatto Giuseppe “Julius” Chiriatti nel lasso di tempo che corre tra la creazione del concept e la sua ripresa e realizzazione?

G.C.: Dopo la delusione della mancata realizzazione di “Cut The Tongue”, nel 1981 ho abbandonato i Forum, che nel frattempo stavano addirittura deviando nel punk, ho acquistato una drum machine e ho continuato a suonare da solo per alcuni anni, senza però mai esibirmi in pubblico. Nel 1987 ho ripreso l’attività con un duo acustico; poi due anni dopo c’è stata la reunion del gruppo, con repertorio rock-blues, fino allo scioglimento definitivo nel 1993. Dopo altre esperienze acustiche sono approdato nel 1997 in un gruppo blues, nel 2008 in una band funky, nel 2011 in un progetto cantautorale di un amico e nel 2018 in una band ispirata ai Beatles, con la quale ancora collaboro. Questo tanto per citare le cose principali, ma, in realtà, ho attraversato anche altri generi, come il gospel, la disco-music, il pop italiano e internazionale, il che mi ha permesso di sperimentare e arricchire il mio bagaglio musicale.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il tuo punto di vista per chi fa musica?

G.C.: Certamente l’odierna facilità con cui si diffonde la musica è un grande vantaggio per il musicista, rispetto al passato; ci si trova di fronte ad una platea virtualmente sconfinata di possibili ascoltatori, e questo è certamente reso possibile solo grazie a tali strumenti. Ma proprio la facilità di fruizione ha reso l’ascoltatore sempre più distratto e privo di capacità critica. Siamo bombardati da milioni di proposte diverse in un vortice velocissimo che rende la musica subito “vecchia”; in passato i grandi artisti pubblicavano un album all’anno, avevano tutto il tempo per offrire un prodotto di qualità, e l’ascoltatore, dal canto suo, aveva la calma per ascoltarlo al meglio e con attenzione. Oggi l’accelerazione dei tempi rende già “vecchia” la musica uscita il mese prima, con la logica conseguenza che la qualità è venuta progressivamente a scadere. Oltre a ciò, direi che un altro aspetto negativo è dato dal fatto che ora la musica la si “sente” soltanto e non la si “ascolta” più, dieci secondi a brano e via che si passa ad un altro. La grande colpa della musica commerciale, a mio avviso, è stata quella di diseducare il pubblico all’ascolto: guarderemmo mai un film per dieci secondi per poi passare ad un altro?

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel tuo caso specifico, quali ostacoli hai incontrato lungo il cammino?

G.C.: Questo è un aspetto legato a quanto ho detto prima: le grandi case discografiche sono inavvicinabili, perché ormai non producono più arte, ma beni consumabili, alla stregua di un panino del fast food. Le piccole etichette propongono magari prodotti più interessanti, ma spesso non garantiscono una diffusione dei loro prodotti. Personalmente ho provato a proporre il mio album a un paio di piccole etichette, ma mi sono scontrato con delle condizioni imposte che non mi erano affatto congeniali. Ho quindi optato per l’autoproduzione, preferendo puntare tutto su una buona distribuzione. Ho avuto la fortuna di trovare la G.T. Music che mi ha fornito tutto il supporto necessario e che si adopera costantemente per la distribuzione nazionale ed internazionale del disco.

Qual è la tua opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

G.C.: Il Prog Italiano (ma anche straniero) è vivo e vegeto, e questo mi fa un enorme piacere. Certo, è musica cosiddetta “di nicchia”, non passa nelle radio e nelle TV, ma il panorama è estremamente confortante e tantissimi sono gli ascoltatori del genere. Esistono tanti gruppi e progetti validissimi, con grandi idee e ottimi musicisti, e anche l’interesse del pubblico è considerevole, facendo sempre le debite proporzioni. Certo, non si riempiono gli stadi ma, per esempio. al Festival Prog di Veruno, quest’anno, un paio di migliaia di persone c’erano e non erano solo “vecchietti nostalgici”!

Esulando per un attimo dal mondo Giuseppe “Julius” Chiriatti (e Julius Project) e “addentrandoci” nella tua vita, ci sono altre attività artistiche che svolgi nella vita quotidiana?

G.C.: Mi piace molto disegnare e colorare a pastello i miei disegni; non sono molto bravo e non ho grande tecnica, ma farlo mi rilassa molto. Ho anche disegnato delle tavole, ognuna delle quali rappresenta un brano del disco, ma tutto in maniera molto “naïf”, senza alcuna pretesa artistica. Sono comunque servite, come dicevo prima, al pittore che ha dipinto il quadro nella copertina interna del disco, dove è narrata in maniera figurata tutta la storia di Boy.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), ti va di confessare il tuo “podio” di preferenze personali?

G.C.: Difficile fare un unico vero podio… troppi sono gli artisti che mi piacciono e che hanno influenzato il mio cammino musicale. Io direi di farne più di uno: su quello dei primissimi tempi ci sono senza dubbio Led Zeppelin, Pink Floyd e Jethro Tull. Nel periodo di “Cut The Tongue” direi Van der Graaf Generator, Genesis e Yes, fra gli stranieri, Banco, PFM e Area fra gli italiani. Oggi ascolto prevalentemente Big Big Train, The Flower Kings e Neal Morse (in tutte le salse…). A tal proposito, vorrei rispondere ad un’insinuazione fatta da qualcuno, sul fatto che l’intro di “The Fog” sarebbe copiata dall’intro di “Whirlwind” dei Transatlantic: lasciando da parte il fatto che la mia, come è noto, è stata scritta nel 1979 e l’altra nel 2009, e quindi nel caso fosse stato possibile il plagio non sarebbe il mio (!), e tralasciando che si tratta solo di qualche nota che somiglia, ho comunque la cassetta con la demo originale dell’epoca che testimonia quanto ho detto circa l’epoca in cui fu scritta. Sono a disposizione di chi volesse ascoltarla ma comunque farò a breve anche un filmato su YouTube.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di te, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che ami e di cui consiglieresti di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

G.C.: Leggevo moltissimo da ragazzo, ora un po’ meno, purtroppo, per questioni di tempo. Ma ho sempre amato profondamente Jules Verne, nonostante sia sempre stato classificato come uno scrittore di letteratura per ragazzi: ancora oggi lo trovo geniale, visionario e straordinariamente precursore dei tempi. Consiglierei a tutti, anche agli adulti, di leggere (o rileggere alla luce di una maggiore maturità) la sua “Isola Misteriosa”, dove il tema iniziale della semplice sopravvivenza lascia il posto alla narrazione della (ri)conquista della civiltà e del progresso: un vero gioiello da cui si potrebbe anche prendere spunto per un nuovo concept album!

Tornando al giorno d’oggi, personalmente e artisticamente, come hai affrontato e reagito al “periodo buio” della pandemia che abbiamo vissuto recentemente (e che, in parte, stiamo ancora vivendo)? Pensi che l’arte e la musica, in Italia e a livello globale, siano state solo “ferite di striscio” o abbiano subito un “colpo mortale”?

G.C.: Ciò che mi è pesato di più è stato non poter suonare insieme agli altri. Per il resto l’isolamento ha fatto sì che potessimo finalizzare l’album e “stringere i tempi”, visto che non avevamo altre distrazioni. Poi per ovviare all’impossibilità dei live, con l’Associazione Prog On della quale faccio parte, abbiamo organizzato una serie di dirette Facebook e YouTube nelle quali ognuno suonava uno o più brani da casa propria, e abbiamo proposto dei filmati in cui suonavamo virtualmente insieme, registrando ognuno la sua parte e poi montando il tutto. Insomma, abbiamo cercato di tenerci compagnia nelle sere tristi e malinconiche del lockdown e di portare un sorriso anche a coloro che ci guardavano. Non credo che il Covid abbia dato un colpo mortale, ma nemmeno ferite di striscio: l’Arte e la Musica sono vive e vitali e lo saranno sempre, ma una forte crisi c’è stata. Però sono fiducioso per il futuro.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro di Giuseppe “Julius” Chiriatti e del Julius Project che ti è possibile anticipare?

G.C.: Non è un mistero che io stia già lavorando sul “sequel” di “Cut The Tongue”: incontreremo nuovamente Boy che vivrà altre esperienze e attraverserà un ulteriore percorso di crescita. Non voglio anticipare troppe cose ma posso dire già che si tratta sempre di un concept album, che il titolo non sarà “Cut The Tongue 2” e che ci saranno collaborazioni importanti anche per la scrittura di alcune delle musiche. I testi però saranno sempre solo i miei.

Grazie mille Giuseppe!

G.C.: Grazie a te, che mi hai concesso questa bella chiacchierata!

(Febbraio, 2022)

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