Intervista ai LogoS

Un caro benvenuto a Luca Zerman (L.Z.), Fabio Gaspari (F.G.), Alessandro Perbellini (A.P.) e Claudio Antolini (C.A.): LogoS.

L.Z.: Ciao Donato, un saluto a te, e un doveroso ringraziamento per lo spazio e il momento di condivisione che ci stai dedicando.

F.G.: Ciao!

A.P.: Ciao a tutti!

C.A.: Ciao a te e a tutti i lettori.

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nascono i LogoS e cosa c’è prima dei LogoS nelle vite di Fabio, Alessandro e Luca?

L.Z.: I LogoS sono la risultante e il connubio tra musica e amicizia.

Nel 1990 Alessandro suonava la chitarra, e io (avevo 14 anni) muovevo i primi passi nel mondo dei tasti bianchi e neri. Ero ancora un giovane studente. Lo conobbi quasi per scherzo, in circostanze non propriamente musicali. Alessandro mi chiese se volessi entrare nel suo gruppo di ragazzi del paese che all’epoca suonava cover. L’età media era veramente bassa, basti pensare che solo un paio di loro erano fortunati detentori di una patente di guida e un mezzo su quattro ruote con cui trasportare gli strumenti.

Ovviamente, con tutti i limiti del caso, aderii con entusiasmo a un’avventura carica di magia e di bellezza. Quella bellezza che accomuna amicizie, mondi musicali da scoprire, ideali profondi e autentici che delinearono le nostre scelte e il nostro percorso musicale.

Da lì a poco, e in tempi non sospetti, decidemmo di diventare una tribute band dei Nomadi, una delle primissime in tutta Italia. La nostra proposta si articolava orgogliosamente nei loro cavalli di battaglia: è abbastanza chiaro che i Nomadi influenzarono il nostro modo di comporre e suonare, semplicità e melodia le cose che nel tempo ho fatto anche mie.

In quel periodo conoscemmo anche Fabio, che per un breve periodo partecipò nel gruppo come bassista. Cominciavano a nascere le prime idee originali, i primi embrioni musicali, i futuri tratti distintivi e le nostre personalità musicali. Da lui scoccò la scintilla per il Progressive… era il 1996, in quel momento nascevano i LogoS.

A.P.: Ho un breve passato da chitarrista, strumento che decisi di lasciare ben presto a causa del mio indisciplinato approccio allo stesso. Mi aveva sempre affascinato suonare la batteria e mi dilettavo spesso a suonicchiarla… quando poi mi offrii di suonarla nei LogoS, non ebbi ostacoli e da lì partì la mia avventura dietro i tamburi esplorando comunque un genere di non facile approccio ma ricco di bellissime articolazioni.

F.G.: Iniziai a suonare attorno alla metà degli anni ‘80. Ero un adolescente annoiato e inquieto e, inizialmente, mi avvicinai alla chitarra in maniera superficiale; dopo breve tempo questo passatempo si trasformò in una profonda passione e capii che questo strumento avrebbe fatto parte per sempre della mia vita. Negli anni ho militato in varie band attraversando vari generi musicali, rock, blues, folk… Sono essenzialmente un chitarrista, ma all’età di vent’anni mi capitò di suonare la batteria in una band che proponeva esclusivamente musiche di Jimi Hendrix. Verso la metà degli anni ‘90 entrai in veste di bassista nella band di Luca e Alessandro; erano molto bravi nel riproporre le canzoni storiche dei Nomadi e per me fu un’importante occasione per perfezionarmi con il basso elettrico, uno strumento che mi aveva sempre affascinato. Intorno alla metà degli anni ’90, il gruppo si sciolse e convinsi Luca e Alessandro ad intraprendere un nuovo sentiero musicale: il Rock Progressivo degli anni ‘70, in particolare quello italiano di band come PFM e Le Orme. Nacque così la prima formazione LogoS.

LogoS: come cade la scelta sul nome? E come mai quella S maiuscola?

L.Z.: L’ideatore del nome LogoS è Fabio, nessuno meglio di lui può dare spiegazioni. Per quel che riguarda la S maiuscola, significati particolari o nascosti non ve ne sono. Il tutto nasce dall’esigenza di riconoscibilità, e possibilmente originalità, non essendo, oltretutto, nel panorama musicale mondiale l’unica band detentrice di tale denominazione.

Abbiamo voluto trasformare il nostro nome, in un logo vero e proprio, una sorte di “brandizzazione musicale”. Quella “S” finale, a nostro avviso, rende originale e riconoscibile il nostro marchio di fabbrica, la scelta e l’elaborazione del font, si allinea al “sentimento musicale barocco” che ci contraddistingue.

È sempre stata nostra prerogativa curare i nostri progetti anche nei minimi particolari. Lo riteniamo una doverosa forma di rispetto verso chi si approccia al “mondo LogoS”. Nel “prodotto musica” riteniamo di fondamentale importanza anche l’impostazione e l’aspetto grafico. Personalmente ho comprato CD perché attirato anche solo dalla bella copertina, senza conoscere gruppo o genere musicale. Se ci pensiamo bene, il primo senso coinvolto in qualsiasi “primo contatto” con un prodotto è (quasi) sempre la vista.

F.G.: “Logos” è un termine che nell’antica filosofia greca significa “ragione”; la si può trovare negli scritti di Platone, Parmenide, ma soprattutto Eraclito, il quale invitava ogni uomo amante della saggezza a superare la “doxa” (opinione) per giungere infine al “Logos”, la verità ultima dietro l’apparente molteplicità delle cose. Esso rappresentava per Eraclito l’unità degli opposti, e il Progressive Rock, in effetti, secondo me, è un particolare stile musicale in cui si incontrano (o scontrano) fra loro vari stili musicali apparentemente opposti e inconciliabili fra loro; il rock, il jazz, il folk, la musica classica e d’avanguardia…

E quando si passa dall’essere una cover band di Rock Progressivo Italiano degli anni ’70 al comporre del proprio materiale? Qual è stata la “scintilla” che vi ha fatto cambiare direzione?

L.Z.: In realtà non esiste una precisa linea di demarcazione. Nel nostro percorso e nella nostra proposta i maestri della vecchia scuola ci hanno sempre affiancato e accompagnato. Le composizioni originali nascevano dall’esigenza di espressione personale e di gruppo, avevano l’ambizione di raccontare e raccontarsi, viaggiavano però sempre parallelamente ai brani dei nostri beniamini, banalmente, anche per la necessità di un repertorio sufficiente allo svolgimento di una serata.

I primi pezzi originali erano il riassunto di quello che negli anni avevamo imparato, filtrato, rielaborato e proposto in un mix di sensibilità diverse, che avrebbero dato origine al “nostro suono”, il “suono LogoS”. Tuttavia, la consapevolezza e la scelta netta di proporre esclusivamente materiale originale è maturata nel corso degli anni, di molti anni. È stato un percorso graduale e naturale, che ha visto focalizzare il nostro interesse e le nostre energie, esclusivamente alla composizione di pezzi propri.

F.G.: All’inizio eravamo una cover band che interpretava essenzialmente brani de Le Orme, ma anche Banco, PFM e perfino qualche band italiana di culto come Quella Vecchia Locanda e Biglietto per l’Inferno. Fu per noi molto gratificante e istruttivo cimentarsi nei capolavori del pop italiano degli anni ‘70 ma, ad un certo punto, nacque in noi, in maniera del tutto naturale, l’esigenza di proporre qualcosa di nostro. Molti musicisti trascorrono la loro vita a proporre e riproporre brani celebri; non c’è niente di male in questo, ma sentivamo che non era la nostra strada. Per me e Luca comporre canzoni non fu una novità; prima dei LogoS entrambi avevamo avuto esperienze nel campo della composizione, seppure in band diverse.

A.P.: Era la parte che con il tempo ci interessò di più, era bello trovarsi e dare forma alle nostre idee. Realizzare brani propri ti apre nuove finestre sulla musica e ci si sente parte di essa.

Il 1999 è l’anno del vostro esordio discografico: “LogoS”. Mi raccontate la sua genesi?

L.Z.: Il primissimo periodo di attività vedeva una formazione a tre: batteria, basso, tastiere. La vera svolta, tuttavia, avvenne con l’arrivo di Massimo Maoli, delle sue chitarre, e soprattutto dei suoi testi. Le sue poesie, e la comune visione musicale, contribuirono pesantemente nella creazione quasi alchemica di tutti i brani. “LogoS” è stato il nostro primo lavoro. Dopo i primi tre anni di attività, si sentiva il bisogno di fissare definitivamente le nostre idee, le nostre canzoni. All’epoca, internet praticamente non esisteva e la tecnologia negli studi di registrazione era appannaggio di gruppi con ben altre possibilità. Con pochi mezzi, ma con molto entusiasmo, realizzammo il CD. Ricordo con piacere le bobine a nastro usate su un registratore 8 piste Fostex.

F.G.: “LogoS” è un album a cui sono molto affezionato. Si sente l’energia e la freschezza di quattro ragazzi poco più che ventenni alla loro prima importante prova musicale. È a tutti gli effetti un disco “live in studio”; le uniche cose che abbiamo successivamente sovrainciso sono le voci e qualche arpeggio di chitarra.

A.P.: Ricordo bene l’entusiasmo di quel periodo, fu una prova che ci vide rinchiusi in sala prove per settimane, e il bello era anche occuparsi della parte tecnica che, come si sa, in genere affascina molto i musicisti. Aiutati dall’amico Simone Chiampan (presenza tecnica fondamentale ancor oggi), sperimentavamo la ripresa degli strumenti con pezzi di varie batterie e microfoni apparentemente non adatti, il tutto per fare uscire al meglio il suono che avevamo in mente… era il massimo che si poteva ottenere con quello che avevamo a disposizione.

LogoS è un viaggio attraverso lo spazio. Com’è stato trattato il tema nei testi?

F.G.: Con l’eccezione de “Il grande fiume”, una suite di diciotto minuti il cui testo è stato scritto da Luca ed è ispirato al romanzo “Siddharta” di Herman Hesse, le altre canzoni parlano della meravigliosa vastità dell’universo e di uomini impegnati in viaggi interstellari fra galassie che brillano come gemme misteriose nel buio del cosmo; solitari viaggiatori il cui scopo finale è incontrare creature evolute la cui profonda  saggezza possa aiutare noi umani a recuperare quella spiritualità che abbiamo perso da molto tempo.

Proseguendo il cammino sul doppio binario “cover-inediti”, ecco che nel 2001 siete già pronti con un nuovo album: “Àsrava”. Spulciando la vostra biografia sul sito, mi ha colpito la breve presentazione di questo lavoro: la svolta tecnica di “Àsrava”. Quali sono, dunque, le differenze sostanziali con il vostro esordio discografico (ma anche i punti di contatto)?

L.Z.: “Àsrava” è un disco con cui ci siamo voluti mettere alla prova.

In quel periodo l’identità musicale del gruppo non era ancora perfettamente delineata; di conseguenza è stato naturale anche l’approccio musicale più tecnico, più ricco di barocchismi, più elaborato e forse più in linea con gli stilemi tipici del “New Prog”, dove il virtuosismo ricopre un ruolo fondamentale nell’impostazione e nell’esecuzione dei brani.

Il primo lavoro è caratterizzato da composizioni sicuramente articolate, ma forse più ingenue, canzoni con del potenziale, ma che probabilmente risentono anche di inevitabile inesperienza. Da dire anche che quel disco non fu mai pensato per il pubblico, erano semplicemente le nostre canzoni, registrate per la nostra soddisfazione o poco più. “LogoS”, ci fece prendere consapevolezza che qualcosa di buono poteva uscire anche dalle nostre mani. Dopo due anni nacque così “Àsrava”, un lavoro tecnicamente più complesso ma accomunato da un denominatore comune, un marchio di fabbrica che nel tempo abbiamo sentito nostro e che ha sempre accompagnato i nostri dischi: la costante ricerca della melodia, quella del nostro paese, quella di Rossini, di Verdi e, mi permetto di aggiungere, quella di Morricone.

F.G.: I testi di “Àsrava” sono pervasi da un’atmosfera più cupa rispetto al primo album. Erano gli anni in cui varie nazioni occidentali realizzavano con irresponsabile leggerezza esperimenti nucleari, come quello condotto dalla Francia nel 1996 nell’atollo di Mururoa, nel Pacifico. Questa inquietudine la si può avvertire nel brano “99”.

A.P.: Anche in quel disco ci occupavamo di tutto, fu allora che sperimentammo i software per la registrazione e devo dire che fu per noi un’esperienza difficile e, nello stesso tempo, bellissima. A differenza del primo disco, c’era più consapevolezza nella ricerca del suono e anche in quel caso la matrice tecnica non cambiò: sempre rinchiusi in sala prove, sempre le stesse persone e la voglia di fare, però con qualche mezzo in più. Credo non sia sbagliato considerare “Àsrava” come uno dei primi dischi indipendenti e autoprodotti registrato completamente in maniera digitale.

Gli “Àsrava”, nella dottrina buddista, sono i quattro influssi negativi che impediscono all’uomo di raggiungere l’illuminazione. Cosa vi attrae di una tematica del genere e come diventa musica e parole in “Àsrava”?

F.G.: “Àsrava” è il titolo di un lungo brano strumentale suddiviso in quattro parti in cui abbiamo tentato di rappresentare i quattro influssi negativi che, nella dottrina buddista, sono responsabili dell’infelicità degli esseri umani. In termini più comprensibili per noi occidentali, gli “Àsrava” non sono altro che le incessanti attività della mente, che sovrappone continuamente alla realtà il suo costante e compulsivo bisogno di giudicare, condannare, paragonare, commentare. Il saggio, chiamato “illuminato”, è colui che ha pacificato la propria mente e vive con serena equanimità le gioie e le sofferenze che la vita ci dona di giorno in giorno. C’è chi trova questo senso di pace attraverso la preghiera, chi dedicandosi al prossimo. Personalmente, questa pace la raggiungo attraverso la musica; quando ascolto la mia musica preferita o suono assieme alla band sento di ritrovare me stesso, allontanandomi per un po’ dalle inquietudini e dalle insicurezze che la mia mente crea ogni giorno.

Dopo una serie di avvicendamenti avvenuti negli anni, ecco l’arrivo di Claudio in formazione, è il 2004. Come mai questa sorta di “precarietà”? E, per Claudio, cosa c’è prima dei LogoS nella tua vita artistica e come entri nella loro “orbita”?

L.Z.: “Precarietà” temo sia limitativo nella visione e valutazione d’insieme del gruppo. Abbiamo collaborato con svariati musicisti nel corso degli anni, ma la permanenza in pianta stabile degli elementi nella band è stata dettata da fattori di fondamentale importanza, che inevitabilmente hanno delineato e stabilizzato il gruppo nell’attuale formazione: la volontà, la convinzione, l’adesione totale al progetto, per quello che può esprimere, per quello che può dare, a noi e agli appassionati, la visione e il sostenimento a lungo termine.

Il nostro approccio verso il “prodotto musica” è artistico, emozionale, comunicativo. Cerchiamo di proporre e raccontare storie che abbiano una valenza significativa, cerchiamo di presentarle con il vestito migliore, il vestito delle feste, come usiamo dire a Verona, la nostra città.

È una musica difficile da pensare, difficile da costruire, ancor più “da mantenere”. È una musica che dà origine a brani che raramente, se non in contesti e spazi dedicati, può essere proposta con continuità nei live. È quindi capibile che una situazione musicale di questo tipo non sia sicuramente per tutti. È sempre nelle aspettative, nell’impegno e nelle personali convinzioni che si tracciano e delineano le strade, anche musicali, senza nulla togliere a chi magari ha scelto altri percorsi. Ricordiamo, e ringraziamo, tutti gli amici che hanno percorso insieme anche solo un pezzetto del nostro cammino, li ricordiamo con amicizia, affetto e gratitudine.

C.A.: La mia formazione pianistica è costruita da studi classici, iniziati a circa 8 anni; è un percorso che ho condiviso con un insegnante privato che ha rafforzato e indirizzato la mia passione. Parallelamente al pianoforte, però, cresceva una grande ammirazione per il Rock alimentata dall’ascolto nel tempo libero dei vinili di mio padre. I titoli che più mi interessavano erano di artisti quali Pink Floyd, Led Zeppelin ma anche Le Orme e Banco del Mutuo Soccorso. Erano soprattutto queste band italiane che mi incuriosivano in quanto il pianoforte era parte integrante e protagonista della scena sonora: un rock colto e raffinato, che faceva uso di tecnica, competenza e cuore; non limitato all’uso della sola chitarra elettrica.

Prima dei LogoS ho avuto esperienze nell’ambito Rock classico, principalmente in band di cover. Erano situazioni divertenti che, all’epoca, permettevano di suonare in molti locali. Una cosa, però, era fuori discussione: con quelle band non ci sarebbe mai stata la possibilità di proporre Progressive. Conoscevo da molti anni Massimo: eravamo vicini di casa e condividevamo da sempre l’amore per alcuni artisti; fu quindi abbastanza naturale che ci fosse un interesse comune alle attività dell’altro e anche una cooperazione su esperienze comuni (principalmente organizzavamo interessanti sessioni di improvvisazione con i musicisti più estrosi che provenivano dalle mie precedenti band). Nonostante questo feeling, non era mai emersa l’idea di un mio ingresso e/o collaborazione nel mondo dei LogoS, benché io conoscessi la band ed avessi preso parte come spettatore a vari loro concerti, dall’esordio ad altre serate successive. Avevano già un tastierista, quindi nella mia mente erano al completo. Una sera suonai a Massimo l’intro di “Firth of Fifth”; la sorpresa fu tanta quando mi disse che il brano era appena stato aggiunto alla scaletta della band e si ipotizzò di inserire il mio intervento in un eventuale futuro concerto. Dopo poco finii a fare una serata di prove con la band. Era il 2004 e ricordo che stavano provando una versione embrionale di “Via di fuga” (che diventerà poi “In fuga” nell’album “L’enigma della vita”). Nei primi anni in cui iniziai a suonare non esisteva nulla da cui derivare le partiture dei brani che non fossero musica classica, Internet non c’era e anche successivamente al suo arrivo le potenzialità erano molto lontane dai livelli di oggi, non esistevano ancora YouTube e suoi i tutorial o i vari pdf che oggi si recuperano velocemente. L’unico modo era ascoltare a ripetizione porzioni di qualche secondo (su cassette o CD prima e su PC poi) per trascrivere un frammento alla volta, nota per nota, per poi ripeterli, impararli ed eseguirli. Alla fine di quella prima serata di prove, potei esibire il mio repertorio pianistico di Progressive tratto dai momenti di spicco dei vari dischi e frutto di quelle ore di trascrizione; in pochi minuti nacque l’idea di una formazione a doppia tastiera: Luca all’organo e io al piano. Quella passione per la trascrizione espressa in quel momento di musica fu il mio esame di ingresso nel mondo dei LogoS.

Sempre restando in tema di “cambi”, in questi anni a cavallo del millennio, anche Fabio e Alessandro vivono una sorta di “pausa” dal progetto per rientrarvi più avanti (o meglio, Fabio rientra nel 2004, dopo aver lasciato nel 2000, mentre Alessandro lascia poco dopo per tornare in squadra nel 2013). A cosa è dovuta questa scelta? E cosa avete fatto negli anni senza LogoS?

F.G.: Non ho abbandonato la band in seguito a dissidi, ma semplicemente perché avevo bisogno di tornare a una dimensione musicale più tranquilla, più “acustica”. In quegli anni ho composto musiche per teatro, ho partecipato come session man a due album di un affermato cantautore veronese e, assieme a una flautista, ho fondato una band di musica prevalentemente strumentale in cui confluivano atmosfere folk bretoni, inglesi, irlandesi e brani di nostra produzione dalle sonorità più moderne che in qualche punto potevano ricordare vagamente i primi Jethro Tull. Con loro ho inciso un album e ancora oggi abbiamo una discreta attività live.

Nel 2004, al mio ritorno nei LogoS, era giunto Claudio al pianoforte ma Alessandro se ne era andato; abbiamo iniziato a cercare un nuovo batterista e, nel frattempo, per non restare inattivi, ho iniziato a suonare la batteria nella band, convinto che entro breve tempo avremmo trovato qualcun altro. Invece, quel “breve tempo” è durato quasi dieci anni. Nel 2013, dopo aver terminato l’incisione de “L’enigma della vita”, sono stato ben lieto di restituire ad Alessandro le bacchette, essendo lui un batterista molto più competente e creativo di me.

A.P.: Anche nel mio caso non fu un distacco dato da incomprensioni o controversie, fu solo un periodo in cui io avevo bisogno di più “linearità”: sentivo la voglia di suonare un genere più squadrato e conobbi alcuni musicisti della zona. Con loro mi cimentai in brani più standard, prettamente rock blues, contemplando i grandi classici dei mitici “Seventies”.

Suonavamo cover di gruppi come Led Zeppelin, Gran Funk Railroad, Lynyrd Skynyrd. Tuttavia mi tenevo in contatto regolarmente con i miei vecchi compagni, anche perché scoprii ben presto che con nessun’altra band mi sentivo veramente “a casa” come con i LogoS. Quando Luca mi chiamò nell’estate del 2013 per propormi di rientrare, accettai subito.

L’esperienza Rock Blues fu propedeutica per un approccio diverso rispetto a quello che avevo in passato portando un’impronta più rock, più vicina al mio nuovo modo di intendere i brani e non alterando ciò che ha sempre contraddistinto il sound LogoS.

E poi proseguite, come sempre, il vostro cammino live ma subite una sorta di “battuta d’arresto” sul fronte discografico tale da dover attendere il 2014 per vedervi tornare con un nuovo lavoro. Come mai questo ampio divario temporale tra “Àsrava” e “L’enigma della vita”?

L.Z.: Come detto all’inizio dell’intervista, è nostra intenzione dare sempre il massimo delle nostre possibilità, su tutti i fronti. “L’enigma della vita” ha avuto una gestazione lunghissima anche per questo. La tecnologia nel 2006 offriva già svariate possibilità nella manipolazione e nell’editing, però eravamo agli albori di quella che oggi chiamiamo “home recording”. In virtù dell’eterna insoddisfazione che alberga nelle insane menti dei musicisti, passammo gli anni a cesellare e rifinire come gioiellieri al lavoro sul loro più prezioso manufatto. Anche la parte grafica ci impegnò molto. Creare una copertina iconica, un’immagine che nell’immaginario riconducesse al nostro disco, questa la nostra priorità. Trovammo tutto questo nel cancello di campagna che chi ci segue conosce.

C.A.: Personalmente non definirei l’assenza di dischi come una battuta d’arresto. In quei tredici anni la band fu molto impegnata in concerti, nell’elaborazione di idee ma soprattutto nel trovare un equilibrio al proprio interno. Ci furono molti cambi di line-up: ogni cambio di formazione comporta un periodo naturale di inefficienza per reimpostare nuovamente l’assetto. Poi, nel 2010, ci fu l’uscita dal gruppo di Massimo: fu un duro colpo per tutti. Fu necessario affrontare alcune serate già a calendario con una formazione che si basava sui tre musicisti rimanenti. Lo ricordo come un periodo eroico in cui ogni musicista poneva massima attenzione sul set composto da due tastiere e una batteria. La cosa più complessa era sopperire all’assenza degli strumenti fisici a corda: avendo solo due tastiere, e partendo dal presupposto che il nostro genere musicale prevede arrangiamenti molto ricchi in termini di sonorità, adottammo soluzioni software con Virtual Instruments che emulassero chitarre e bassi, oltre ai classici pianoforte, Hammond e synths, anche con l’uso di pedaliere e scenari timbrici molto complessi.

“L’enigma della vita”, appunto, esce nel 2014. Mi parlate un po’ di questa lunga “gestazione” e dell’album in generale?

L.Z.: L’album raccoglie tredici anni di composizioni originali che, strada facendo, sono maturate fino a diventare canzoni vere e proprie. I testi del disco sono tutti di Massimo Maoli. I suoi scritti abbracciano tematiche sempre vicine all’uomo e alla sua esistenza, dall’affascinante e inspiegabile mistero nascita-morte, passando alle “immagini impresse sui muri di mattoni”, in riferimento alle esplosioni nucleari che, in alcuni frangenti, dell’uomo hanno lasciato solo un’ombra, solo un flash stampigliato su un intonaco.

Non mancano riferimenti spirituali: cit. “La sapienza di una grande mano ha scolpito forme indescrivibili”, che spostano il baricentro della riflessione in contesti più intimi e introspettivi, dove l’essere umano e il creato fanno capo a un Creatore, un essere Divino, dalla cui volontà tutto ha avuto origine. Un Creatore che ha dato la vita e, allo stesso tempo, la possibilità, il privilegio e il dono di darla a nostra volta, quasi una “volontà di condivisione divina”. Cit.: “In principio era il nulla, e dal nulla siamo stati generati e generiamo”.

Come avete avuto modo di ascoltare, anche se non totalmente ermetici, gli scritti di Massimo non sono di facile comprensione, hanno bisogno di tempo per essere approfonditi, assimilati, capiti.

L’album si snoda così, in composizioni lunghe, molto articolate, complesse, variegate; che inevitabilmente devono fare i conti con testi di difficile valorizzazione; testi che, oltretutto, non nascono per essere musicati, non hanno la classica struttura strofa-ritornello; sono semplicemente poesie, esternazioni, impressioni.

Le musiche sono quelle che conoscete, sinfoniche, a tratti barocche, legate prevalentemente alla tradizione italiana. Quella tradizione da cui hanno attinto i grandi gruppi Progressive Italiani che tutti conosciamo. La composizione dei pezzi è stata molto lunga. Un brano aveva mediamente gestazione di un anno e mezzo, e per riuscire a dare una forma soddisfacente e definitiva alle nostre idee non ci precludevamo mai scadenze o vincoli, nelle durate e nelle tempistiche.

Il nostro motto era ed è questo: “Diamo il tempo che serve per il tempo che serve”.

Mixaggi non proprio velocissimi, e qualche divergenza interna di vedute, hanno poi contribuito a dilatare ulteriormente i tempi per l’immissione del CD sul mercato discografico.

C.A.: L’utente finale che ascolta un’opera con molta probabilità ignora completamente le fatiche derivate all’autore dalla stessa: dal momento del concepimento alla realizzazione definitiva. Soprattutto per le band indipendenti non esiste un vademecum così come non esistono passi chiari da seguire. Oltre a quanto già indicato da Luca sulle tematiche di registrazione e grafica, ci fu un grande sforzo nelle fasi di mixaggio dove trovare un equilibrio definitivo sui brani rispetto alle semplici versioni demo fu molto complesso; inoltre si volle dare una veste più ufficiale ed importante rispetto ai precedenti dischi autoprodotti con una distribuzione internazionale: serviva quindi la ricerca di una casa discografica e di una azienda di distribuzione disposte ad investire sul nostro prodotto. In aggiunta la band non era molto nota ai canali “ufficiali” benché avesse già due dischi all’attivo: era conosciuta dagli appassionati del genere grazie alla curiosità e alle recensioni che i primi due album avevano raccolto negli anni, e che vennero incentivate qualche mese prima dell’uscita de “L’enigma della vita” mettendo gli stessi due album a disposizione gratuitamente sul nostro sito internet per un tempo limitato.

Il disco, qualitativamente inattaccabile, è definito da voi stessi l’album della maturità. Vi va di motivare questa “sensazione”?

L.Z.: “Maturità” è un concetto relativo, la “maturità” in senso assoluto è un qualcosa che non esiste. La “maturità” del 2014 non può essere di certo quella del 2022, non sarà quella del 2032. Per quel che ci riguarda “essere maturi” è un obiettivo che probabilmente e paradossalmente non raggiungeremo mai, e aggiungo di più: è nella ricerca del miglioramento personale e di gruppo quella che noi intendiamo come maturità, l’evoluzione che genera motivazione, pur consapevoli che il punto di arrivo non sarà mai raggiunto. È proprio questo, che a nostro avviso, da input creativi e future progettualità, la rincorsa a qualcosa che probabilmente non esiste.

Per lo standard che avevamo nel 2014, “L’enigma della vita” si apprestava a soddisfare tutto quello che all’epoca era catalogato nel nostro immaginario come “prodotto professionale”. Un prodotto appunto, che soddisfaceva standard artistici-qualitativi degni e meritevoli di essere proposti, almeno secondo la nostra opinione. Concept, musica, immagine, triade indissolubile e indispensabile nella nostra factory.

Un viaggio interiore che attraversa temi come la creazione dell’universo, la nascita degli esseri umani, l’amore, la solitudine, la morte, la guerra… Un viaggio per risolvere il più grande dei quesiti… Quale è il significato del nostro esistere? Quale è “L’enigma della vita”?  Siete riusciti a darvi una risposta?

L.Z.: Ti risponderò a titolo esclusivamente personale, anche se non sarà semplice. “Quale è il significato del nostro esistere?”. Me lo chiedo tutti i giorni. Ho sempre pensato all’essere umano come a qualcosa che trova senso, soddisfazione e dignità nell’interazione e nella condivisione con i propri simili, su tutti i fronti.

In tempi bui come questi, vedo e vivo con enorme sofferenza la civiltà dello smart-working, delle didattiche a distanza, dei concerti online. La persona ha estremo bisogno di contatto, confronto, di una stretta di mano, di un abbraccio.

Quello che era normalità, oggi è utopia, quello che era umano, oggi è distopico e disumano. Mascherine, schermi, distanziamenti, tutti proiettati nel mondo del Metaverso, il mondo dell’effimero, mondo in cui tutto è sempre a portata di click, un mondo in cui abbiamo tutto ma al contempo nulla. Un mondo in cui il desolante vuoto spirituale è sempre riempito di beni materiali, in un’insaziabile, ossessiva, infinita e bulimica offerta. Riconducendomi alla tua domanda, posso dirti che a queste condizioni e in questi termini la risposta è: nessun significato.

“Quale è “L’enigma della vita?”. Domanda lecita anche se ambiziosa. Non essendone i creatori, non ci è dato di sapere. È il mistero, e il fascino del vivere, in un’eterna lotta tra bene e male, spirituale e materiale.

“Siete riusciti a darvi una risposta?”. Francamente no, però ritengo doveroso lasciare una piccola, umile e insignificante traccia del mio passaggio in questa vita terrena, qualcosa che possa abbellire e migliorare il mondo, qualcosa che possa dare soddisfazione o anche motivo e spunto di riflessione, anche tra molti anni. L’arte, in questi termini, dà un senso al nostro esistere. L’espressione artistica rende udibile, visibile e di conseguenza ricordabile quello che era intimamente nascosto nell’animo di chi lo ha pensato. Dare un suono, una forma e un ricordo “all’IO”, nel rispetto del mistero è tutto quello che possiamo fare. “L’enigma della vita” non lo risolveremo mai.

F.G.: “L’enigma della vita” è la potente domanda che l’uomo, fin dai primordi dell’umanità, pone a sé stesso: “Chi sono io?”.

A.P.: Forse riprendendo quanto sopra scritto, ci sarebbe da chiederci, che enigmi ci chiederà di risolvere la vita in futuro?

E dopo due autoproduzioni, “L’enigma della vita” esce grazie ad un’etichetta, l’Andromeda Relix. Come nasce e si sviluppa la vostra collaborazione?

L.Z.: Gianni Della Cioppa è il responsabile e fondatore di Andromeda Relix. È un veronese come noi, giornalista e scrittore musicale, grande appassionato e sostenitore della musica a 360°.

Con la sua etichetta produce svariati gruppi e generi musicali, anche se la sua attitudine principale è volta al metal e al Progressive. Ricordo il primo contatto con lui a un concerto Progressive nelle nostre zone, fummo presentati da un’amicizia in comune. Gli consegnammo quello che era ancora una demo del disco.

Dopo la sua importante approvazione, iniziammo a discuterne tutti i dettagli. Gianni ci lascio estrema libertà di scelta e ampi spazi di autogestione, limitandosi a consigliare sulla base della sua esperienza, competenza e professionalità. Fu proprio la discrezione e la delicatezza nei nostri confronti a farci propendere per Andromeda Relix, scelta rivelata azzeccata da ambo le parti.

C.A.: C’è poco da aggiungere a quanto detto da Luca. Gianni è una istituzione nel mondo della musica italiana: una penna che da trent’anni firma articoli e recensioni su testate musicali di primaria importanza, oltre che un manager dal costante impegno nella ricerca di band interessanti da scritturare nella sua etichetta Andromeda Relix. Quello che forse alcuni non conoscono è la sua attività di divulgatore che avviene in serate e/o eventi a tema musicale. In una di queste serate, nel 2010, sul palco di un Teatro, il cammino dei LogoS e di Gianni si è incrociato. Dopo quella sera ci incontrammo più volte in altri eventi di divulgazione dove il nostro live veniva introdotto da suoi interventi sul tema Rock o Prog, o con l’analisi della carriera di qualche artista. Oltre ad un rapporto di stima e rispetto, si è instaurata una grande fiducia. È stata una scelta naturale rivolgersi a lui al momento della discussione sulla casa discografica. Vogliamo inoltre ricordare il nostro distributore Pick Up Records di Bassano: anche a loro va il nostro più sincero ringraziamento per il continuo sforzo nella gestione dei nostri album.

E nel 2016 due incontri fondamentali indirizzano il cammino di quello che sarà il vostro album successivo: Marica Fasoli e la piccola Sadako…

L.Z.: Per la precisione, il primo contatto con Marica, anche se datato 2016, non fu quello che diede l’incipit a “Sadako e le mille gru di carta”. Casualmente, mi imbattei sui social nella locandina di una sua mostra che si teneva nel museo di S. Giulia a Brescia. Era un periodo in cui lei sviluppava ed esponeva principalmente due cicli di opere “Invisible people” e “3d Boxes”, cicli incentrati sul concetto contenuto/contenitore.

L’irresistibile fascino di quegli abiti vuoti e di quelle scatole, dipinte oltretutto magistralmente, mi riportavano e mi rievocavano suggestioni metafisiche e surreali molto vicine ai grandi del passato, che personalmente molto ho amato e amo tutt’ora: Giorgio De Chirico, René Magritte, Salvador Dalì.

Visitai la mostra e fui totalmente folgorato da tutta quella bellezza. Ritornai nella mia Verona e la contattai complimentandomi per la magnifica esposizione. Osservavo dalla distanza quello che faceva, non consapevole che da lì a poco sarebbe nata una collaborazione importante.

C.A.: Da questo punto di vista, il merito della scoperta e del potenziale utilizzo in un prossimo disco va a Luca. Fu lui a tenere i contatti con Marica e quando lei iniziò il ciclo degli origami furono momenti coinvolgenti. L’antica leggenda delle gru intrecciata nelle sue opere al taoismo dei cinque elementi portò Marica a generare le cinque opere da cui noi abbiamo tratto la copertina nell’elemento dell’acqua. Il Taoismo antico, infatti, esprimeva la natura ciclica del mondo nei termini dei cinque elementi: Legno, Fuoco, Terra, Metallo e Acqua. Quello che si costruiva nelle nostre menti era un potenziale incredibile, con un bacino di significati ed intrecci tra contesti diversi che apriva infinite possibilità di contestualizzazioni ed approfondimenti: la storia di Sadako; la leggenda giapponese; cosa rappresentavano le gru “dispiegate” (ossia prima piegate e poi aperte e riportate ad essere un foglio piano) disegnate da Marica; il messaggio di Pace; tutte situazioni autoconsistenti ma che nel disco potevano trovare un denominatore comune, un filo conduttore che le univa e le completava.

Nasce così “Sadako e le mille gru di carta” (2020), un lavoro che parte dalla storia di Sadako e pone l’attenzione sul tema della guerra e della corsa al continuo potenziamento bellico. Com’è stato sviluppato l’argomento, sempre attuale (ahimè…), nei vostri testi?

L.Z.: La storia di Sadako ci arrivò come un pugno nello stomaco, in tutta la sua violenza, drammaticità e attualità. Storia che ci ha colpito e commosso profondamente. Una vicenda carica di emozione, di rabbia, sdegno ma al contempo legata a un fortissimo messaggio di pace.

Gli origami, dispiegati e dipinti da Marica, partivano da una storia importante. Nelle misteriose pieghe che nascondevano l’incommensurabile dramma atomico, si celava un germoglio di speranza e di vita per le future generazioni. Una vicenda così importante meritava di essere raccontata con tutti i mezzi, anche con i nostri, quelli della musica. Marica aderì da subito con grandissimo entusiasmo al progetto.

Sadako, tuttavia, aveva bisogno anche di parole per essere raccontata, parole che all’epoca non avevamo. Decidemmo di affidare la scrittura dei testi a un poeta e amico veronese, Marco Zuffo, eclettico artista nel mondo della poesia e della musica ormai da molti anni. Fondamentale la sua interpretazione e il suo contributo soprattutto per il brano che dà il titolo al disco: “Sadako e le mille gru di carta”.

La generosa stesura da parte di Marco portò inesorabilmente il pezzo alla trasformazione da canzone a suite, senza preclusioni di nessun genere. Ventidue minuti in cui abbiamo cercato di raccontare al meglio la storia della piccola Sadako.

L’abbiamo fatto attraverso svariate ma complementari espressioni artistiche: pittura, poesia, musica.

Dalla loro commistione è nato un brano, e un lavoro, intriso d’arte, ognuna filtrata dalla sensibilità del rispettivo fautore, ognuna convergente nel messaggio e nel concept dell’album: la PACE.

Alla nostra causa si è unita anche Elisa Montaldo, leader de Il Tempio delle Clessidre”, interpretando “Il Sarto”, brano particolarmente indicato alla sua voce, sensibilità e personalità. È stato per noi un grandissimo onore collaborare con lei. Anche in questo caso, nel duetto con il nostro Fabio, si è raggiunta una carica emozionale molto alta.

Secondo un’antica leggenda giapponese, chi piegherà mille gru di carta con la tecnica degli origami vedrà i propri desideri esauditi… Voi avete iniziato a piegare le vostre gru?

L.Z.: Certamente, le abbiamo piegate e donate simbolicamente ai primi mille acquirenti del disco.

A.P.: Per la presentazione dell’album “Sadako e le mille gru di carta” abbiamo scattato alcune foto con Alberto Gaspari, mio nipote, un giovane promettente che lavora nel campo della fotografia e del videomaking. Abbiamo allestito uno spazio con 356 gru di carta realizzate con gli origami: il numero equivale alle gru mancanti che Sadako non riuscì a realizzare in tempo prima di adempiere alla leggenda giapponese. Nel nostro intento, come componenti della band impersonifichiamo gli amici di Sadako che, sempre secondo la storia, terminarono le gru mancanti in sua memoria. Il set si è tenuto al Lazzaretto di Verona, luogo gestito dal FAI e che richiama la storia di Sadako per due motivi: il lazzaretto lega il significato della malattia contro la quale ha combattuto Sadako e ricorda, inoltre, la struttura dell’Atomic Bomb Dome.

C.A.: Lasciami ricordare ai lettori che non solo noi abbiamo piegato le gru per Sadako, ma anche i nostri ascoltatori hanno piegato le gru per noi. Nell’estate del 2020 abbiamo proposto ai nostri amici dei social un simpatico gioco a premi, ossia inviare le foto delle gru da loro realizzate al fine di vincere il nostro album. Ne arrivarono di tutti i tipi e colori, da tutto il mondo e su ogni tipo di carta. Marica, dall’alto della sua esperienza, accettò di partecipare come giudice e scelse le gru da premiare. Fu un’idea divertente e coinvolgente.

Per l’occasione avete realizzato anche una versione Radio Edit della title track, accompagnata da un video carico di struggente poesia e ricco di messaggi (realizzato da Elia Cristofoli). Vi va di parlare dell’iniziativa?

L.Z.: Consapevoli dell’importanza che anche l’aspetto social ricopre in ambito divulgativo, ci siamo spinti nella realizzazione di un video a livello professionale. Claudio individuò in Elia la persona più adatta alla realizzazione del nostro progetto. Nella sua carriera ha maturato significative esperienze anche in ambiti molto importanti (Adriano Celentano, Omar Pedrini, ecc.). Videomaker, scrittore, disegnatore e soprattutto visionario; la persona giusta per noi.

Alla nostra proposta Elia aderì e, con grandissima professionalità, costruì un team di lavoro eccellente, in una location molto suggestiva, il forte di S. Viola a Grezzana, una località in provincia di Verona.

Ricordiamo con grande affetto e riconoscenza tutti i ragazzi del suo staff, dagli assistenti a Elena, la nostra truccatrice, passando per Alessandra e Dania. Protagoniste imprescindibili del video, la piccola Gaia Bissaro (la danzatrice) e Anna Jin (Sadako). Inutile dire che, per quel che ci riguarda, lavorare con una troupe di quindici persone, coadiuvate e dirette magistralmente da Elia, ci ha arricchito molto.

Essendone parte in causa, il nostro giudizio ne risente inevitabilmente; tuttavia riteniamo il video totalmente aderente e allineato alle nostre intenzioni ed aspettative. Ci auguriamo possa essere stato ben recepito anche dal pubblico.

C.A.: A prodotto finito eravamo consapevoli di un rischio: la storia e il potente messaggio contenuto nell’album potevano venire soffocati se imprigionati e limitati unicamente al CD. Volevamo realizzare in aggiunta qualcosa di più immediato e fruibile, destinato anche a chi non segue la band, semplicemente per far scoprire la storia di Sadako e il suo messaggio di Pace. Partendo da questi presupposti, l’idea del video è arrivata quasi subito. C’era la consapevolezza che nessuno di noi si sarebbe potuto improvvisare regista su un tema così complesso; abbiamo conosciuto Elia e siamo rimasti impressionati dalle sue potenzialità. Elia, dall’alto della sua esperienza, ha visualizzato subito quello che poteva essere il potenziale del progetto, mostrandosi propositivo e coinvolto. La stesura dello storyboard, così come la ricerca delle due protagoniste e di tutto lo staff tecnico, fu abbastanza complicata in quanto coincise con l’arrivo della prima ondata Covid-19. Nonostante l’inevitabile rallentamento che subì il progetto per i vari lockdown e i problemi derivati dalla pandemia, fu emozionante scoprire man mano i tasselli che si delinearono: ricordo soprattutto il giorno in cui Elia ci presentò le due protagoniste Gaia e Anna; fu in quel momento che, almeno io, realizzai, ancora prima di iniziare a girare, che il risultato sarebbe stato molto emozionante ed Elia avrebbe colpito nel segno. Non volevamo un semplice video di noi sul palco; non cercavamo il classico videoclip: volevamo una “storia nella storia”; un momento di musica che amplificasse il messaggio di pace del disco; una clip che potesse emozionare. Devo dire che, a mio parere, Elia e tutto lo staff hanno fatto un ottimo lavoro.

Musicalmente, secondo il vostro punto di vista, cosa fa “Sadako e le mille gru di carta” diverso dagli altri? E, in generale, come siete cambiati e cresciuti negli anni per quanto riguarda questo aspetto?

L.Z.: “Sadako e le mille gru di carta” è un progetto non molto dissimile da “L’enigma della vita”. Il nostro stile e il nostro marchio di fabbrica penso siano abbastanza riconoscibili e presenti anche in questo lavoro. Rispetto al precedente, però, ha un impatto molto più viscerale, è un disco con dei tratti distintivi molto passionali. Nella drammaticità del racconto si concretizzano e materializzano linee melodiche molto “italiane”, a volte tristi, ma sempre autentiche e spontanee. Nei nostri brani abbiamo sempre volutamente cercato e sviluppato il concetto di melodia. Il nostro Progressive non è un Progressive virtuoso, pensiamo non sia necessario, ci siamo da sempre focalizzati sull’aspetto più empatico ed emozionale della musica. Le nostre composizioni sono “democratiche”, volutamente alla portata di tutti, convinti che nell’ascoltatore debba sempre rimanere in mente un motivo, una suggestione, un messaggio o un’emozione.

Ai nostri giorni, il livello tecnico medio dei musicisti, in particolar modo quelli Progressive, è molto alto. Paradossalmente, riteniamo che, anche nella non appartenenza a questa categoria di musicisti risieda la nostra peculiarità e la nostra “fortuna”. Non si fraintendano, però, le mie parole: ai musicisti preparati e capaci va tutto il nostro rispetto e la nostra ammirazione, noi abbiamo scelto un altro percorso, anche per necessità.  Abbiamo voluto pensare e portare all’estremo il concetto di melodia, ispirandoci anche ad altre grandissime personalità come Ennio Morricone e le sue celebri composizioni ed orchestrazioni per il grande schermo, dove, per certi versi, in “Sadako e le mille gru di carta” si palesano momenti dal taglio fortemente cinematografico.

Ed è questa una delle nostre più grandi ambizioni: rendere tangibile quello che era storia, con la musica, con il suono, con la melodia e l’emozione.

A.P.: Concordo con Luca nel dire che il nostro modo di suonare si differenzia dal solito cliché del Prog moderno. Penso che il fatto che io abbia avuto altre esperienze e abbia esplorato altri generi è stato in un certo senso positivo. Per usare un paradosso, è come aver reso più comprensibile un “concetto”, come aver incastonato all’interno di un codice una decodifica, questo è il mio pensiero.

E sempre nel 2020 pubblicate “L’enigma della vita DELUXE Edition”, non una semplice ristampa ma una versione in doppio CD che raccoglie anche tracce suonate dal vivo. Come nasce l’idea?

L.Z.: Viste le continue richieste e l’esaurimento dell’ultima tiratura era necessaria un’ulteriore ristampa del disco, abbiamo colto l’occasione per dare un restyling importante al CD, proponendo una versione graficamente aggiornata, più in linea con le attuali tendenze, anche a livello packaging, un nuovo libretto con scatti aggiuntivi e una confezione in cartoncino apribile.

C.A.: Il nuovo disco, spinto dal video, dalla storia di Sadako e dal messaggio di Pace, ha portato il nome della band all’attenzione di un pubblico nuovo. Nel corso degli anni tra il 2014 e il 2018 possiamo annoverare varie esperienze live, anche in contesti internazionali. Come detto da Luca, visto che a magazzino erano disponibili poche copie della versione CD de “L’enigma della vita” e avevamo da parte questo materiale live raccolto nelle varie performance, venne l’idea di utilizzarlo in questa nuova veste: anziché una semplice ristampa, decidemmo di pubblicare una versione arricchita. Nelle nostre intenzioni la Deluxe Edition voleva essere un modo per ringraziare sia il pubblico che abbiamo incontrato di persona, prima e dopo ogni spettacolo, e sia chi ha sostenuto il nostro progetto da ogni parte del mondo, restituendoci un incredibile quanto inaspettato riscontro in termini di affetto ed amicizia.

Tutti i vostri lavori sono sempre arricchiti, appunto, da artwork particolari. Vi va di spendere qualche altra parola al riguardo?

L.Z.: Nel nostro immaginario abbiamo sempre pensato che l’impatto visivo di qualsivoglia prodotto abbia un’importanza fondamentale. Vogliamo, per quanto possibile, associare a un’immagine i nostri dischi, renderli iconici e riconoscibili. Nel campo del marketing o della comunicazione la parola “bello” è abbastanza insignificante, non necessariamente utile o funzionale a una proposta commerciale.

Un’opera, una foto, una scultura potrebbero paradossalmente essere bellissime ma comunicativamente insufficienti. È nell’associazione immagine-prodotto la corretta chiave di lettura e la giusta strada da perseguire. Se poi si aggiunge al tutto anche una valenza artistica o una gradevolezza estetica di fondo, tanto meglio, ma ripeto, non è necessario ai fini della comunicazione efficace.

“L’enigma della vita” nell’immaginario collettivo sarà ricordato come il disco con il cancello aperto, scatto di Fulvio Saiani che ovviamente sempre ringrazieremo; “Sadako e le mille gru di carta” nell’interpretazione di Marica Fasoli porterà con sé gli origami giapponesi e la storia di Sadako Sasaki.

Siamo convinti che dalla curiosità, instillata anche da un’immagine, possa nascere l’approfondimento, la comprensione e la divulgazione.

In generale, come sono stati accolti i vostri lavori da pubblico e critica negli anni?

L.Z.: Bene direi, o quantomeno, ben oltre le nostre più rosee aspettative. La qualità media della nostra proposta nel tempo, a volte anche inconsapevolmente, è sicuramente cresciuta. In questi anni abbiamo avuto il piacere di leggere numerosissime recensioni positive di appassionati del genere. Pur con progressi, dettati anche dal passare degli anni e dall’imbianchimento delle chiome, non era sicuramente preventivato un tale consenso, anche nella critica. Non siamo professionisti, la musica non è il nostro lavoro, facciamo musica per passione, per soddisfazione personale e anche per amicizia.

“L’enigma della vita” ha trovato spazio in copertine di pubblicazioni straniere riguardanti la storia del Progressive Italiano. È stato un grandissimo onore avere il riconoscimento su un tomo molto importante, scritto da un autore altrettanto importante. “Sadako e le mille gru di carta” ha ricevuto plausi ancor più importanti, ma di questo vi parlerà Claudio…

C.A.: Il feedback è stato uno dei punti più interessanti quanto inaspettati. Già con “L’enigma della vita” ci fu un massiccio ritorno in termini di commenti e recensioni da tutto il mondo. Fu abbastanza sorprendente come il giudizio comune promuovesse il nostro album e come questo venisse puntualmente ricordato anche all’inizio di ogni recensione del successivo “Sadako e le mille gru di carta”. Dal canto suo anche “Sadako” ha raccolto molti apprezzamenti. La cosa che più mi ha colpito e commosso di “Sadako” sono state le fotografie che alcuni ascoltatori ci hanno mandato da Hiroshima ritraendo l’album vicino all’Atomic Bomb Dome o al Parco della Pace dei bambini, dove è presente la statua di Sadako. Ricordo inoltre che una copia del disco è esposta anche all’interno del Museo della Pace di Hiroshima: questo è fonte di grande orgoglio in quanto è uno dei simboli principali della storia che abbiamo raccontato ma soprattutto la conferma che abbiamo trattato il tema con il dovuto rispetto.

La vostra carriera è sempre stata vissuta tra palco e studio di registrazione. Concentrandoci sul fronte live, va sottolineato, come fatto da Claudio poco fa, che negli anni vi siete anche esibiti in più occasioni fuori dai nostri confini. A tal proposito, che idea vi siete fatti dell’attuale cultura musicale internazionale, del modo in cui il pubblico ne fruisce e dello spazio che si dedica alla musica dal vivo? E quali sono le differenze con il nostro Paese?

A.P.: Ora come ora, considerando il periodo, vedo la situazione oltre che incerta anche parecchio complessa. Se ci focalizziamo sul nostro trascorso, notiamo che il panorama Prog Italiano ha poco spazio e soprattutto è legato ad una schiera di gruppi che si pensa impersonifichi l’essenza dell’RPI. Io non penso sia proprio così. Ci sono sicuramente dei gruppi in Italia di caratura altissima, tuttavia, nemo propheta in patria.

Nel nostro caso abbiamo avuto molto consenso all’estero e questo ci ha sorpreso e nello stesso tempo entusiasmato, soprattutto con “L’enigma della vita”.

I concerti in Francia e Olanda sono stati bellissimi; abbiamo avuto un pubblico partecipe in entrambi i casi. Il Prog, essendo un genere particolare, annovera tra i suoi seguaci persone che hanno una cultura musicale specifica.

Con “Sadako e le mille gru di carta” c’è stata una riequilibrazione Italia/estero, e anche in questo caso non possiamo che esserne soddisfatti. Siamo orgogliosi di avere fatto due stupende date nelle nostre zone. L’auspicio è che la musica dal vivo ritorni presto ad avere il suo posto nei teatri, nelle piazze, nei festival e che ci sia un nuovo approccio più umano, di contatto con la vera essenza che è quella dello stare insieme e godere di buone vibrazioni che solo la musica può dare.

C.A.: Per la promozione dell’ultimo album vorrei ricordare anche il bellissimo concerto avvenuto a Maresca, un paese sulla montagna pistoiese che, esattamente lo stesso giorno in cui venne presentato il nostro “Sadako e le mille gru di carta” nel 2020, celebrarono la posa di una statua dedicata a Sadako ad opera di un’associazione culturale locale. Noi non conoscevamo loro e loro non conoscevano noi: il tema comune è diventato prima un’amicizia telefonica per trasformarsi in un concerto a fianco della statua nel loro parco della Pace ad agosto 2021. Fabio e Letizia, due membri dell’associazione, ci fecero poi una grande sorpresa nel mese di settembre: non solo furono presenti al nostro concerto “Pace Paquara” a San Giovanni Lupatoto (VR), ma portarono perfino la statua di Sadako, che ponemmo in bella vista davanti al palco. Fu un gesto bellissimo che colpì molto anche il pubblico. Oltre alla statua di Sadako, Marica espose alcune delle sue opere e intervenne in apertura del concerto.

E, restando in tema, vi sentite più “a vostro agio” nei concerti “in proprio” o sul palco di un Festival?

C.A.: Sono due mondi diversi dello stesso universo. Felona e Sorona? I festival, soprattutto se con l’esibizione di molti artisti, prevedono solitamente uno spazio abbastanza limitato sia per il set che per il check sound: quest’ultimo aspetto può comportare imprevisti e poca possibilità di ambientarsi ad un determinato contesto. In questi casi è necessaria flessibilità e capacità di adattamento. Un concerto “sartoriale” dove ci sono una o due band è un altro film. Tempi dilatati, maggiore relax e intimità. Quando parte la musica, però, tutto si fonde. Inoltre, il ritorno in termini di pubblico è lo stesso in entrambi i casi: una volta scesi da un palco, che sia esso grande o piccolo, è incredibile il calore degli spettatori. Qualcuno ti racconta le emozioni che scatena la tua musica, altri raccontano i propri album preferiti perché non conoscevano la band oppure fanno domande tecniche sulla strumentazione. Non sai mai cosa ti diranno o chiederanno.

Quattro album, numerosi concerti e tante soddisfazioni. Qual è, dunque, il bilancio dei primi venticinque anni dei LogoS?

L.Z.: Sicuramente positivo. Finché ci sarà musica e idee da proporre i LogoS continueranno nel loro cammino musicale. Il nostro è sicuramente molto impegnativo, bisogna credere nel progetto e aderire con spirito di costruzione, condivisione e anche sacrificio. Come già indicavo, non essendo musicisti di professione e avendo famiglie, lavoro e impegni vari, a volte risulta veramente ostico garantire assiduità e regolarità. Abbiamo definito una sorta di pseudo regolamento che ci impone almeno una prova settimanale, anche se, dopo giornate lavorative per tutti intense, le palpebre risultano appesantite nei sonnolenti comfort di poltrone, divani e annessi telecomandi. Continueremo comunque a scrivere canzoni e sviluppare progetti, con i nostri tempi e nelle nostre modalità.

Una cosa su cui mi fa piacere porre l’attenzione è vedere la presenza dei vostri due ultimi album nella Top 20 degli album di Rock Progressivo Italiano di tutti i tempi presente su Progarchives.com, il più importante sito al mondo dedicato al Progressive Rock. Cosa ne pensate di questo riconoscimento?

L.Z.: Che dire… non siamo professionisti e quello che facciamo deve prima di tutto gratificare noi stessi. Ovviamente il consenso altrui inorgoglisce, motiva e stimola tutto il gruppo. Avere due dischi sul podio negli anni 2014 e 2020 è indubbiamente una grandissima soddisfazione, essere nella Top 20 RPI di tutti i tempi non ha prezzo.

C.A.: Visto che quella classifica è determinata dai voti della community di ProgArchives, è una fonte di orgoglio e un chiaro messaggio che i nostri album hanno un valore per gli amanti del genere. Fa sorridere che i nostri dischi siano posizionati “sopra” a titoli che sono delle pietre miliari del Prog: prendiamo la classifica per quello che vale; non abbiamo la pretesa che i nostri dischi siano da considerarsi migliori. Viceversa, serve essere obiettivi e considerare il presupposto che molti di quei dischi sono stati per noi un punto di partenza, un materiale di studio che ha influenzato la nostra musica: da questo punto di vista è inutile nascondere che fa piacere vederci “mescolati” a pari livello ai grandi dischi del Prog Italiano.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

C.A.: Per gli artisti indipendenti il web ha aperto porte impossibili da immaginare qualche anno fa. Senza una casa discografica alle spalle non c’era la minima possibilità di essere conosciuto oltre un certo raggio di azione. Pensate ai primi due dischi dei LogoS: stampati in un minimo numero su CD e distribuiti “brevi manu” a qualche amico e appassionato. Il web ha aperto un canale di comunicazione e promozione incredibilmente efficace e a basso costo, vedi YouTube o i vari social dove ogni giorno è possibile allargare il perimetro delle persone che vengono a contatto col progetto con un minimo impegno e qualche idea di comunicazione. Il “contro” principale è rappresentato dalla pirateria che se, ovviamente, interessa tutti gli artisti ad ogni livello, ha un impatto più violento sugli indipendenti: noi arriviamo ad un prodotto discografico dopo sforzi creativi ed economici vissuti in prima persona, calcolando la fattibilità dei vari step al singolo euro; vedere il proprio album in download gratuito su Torrent e forum dopo pochi giorni non fa certo piacere. Siamo consapevoli però che i nostri fan ed appassionati non si accontentano di un MP3 scaricato in maniera furtiva: vogliono un supporto fisico possibilmente autografato; a loro va il nostro ringraziamento che gratifica e giustifica ogni sforzo che facciamo.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino? Non avete mai pensato di tentare la “carta” etichetta discografica in occasione dei vostri due primi album?

L.Z.: Gruppi come il nostro devono avere anche capacità tecniche realizzative per riuscire a produrre in autonomia i propri lavori. Da questo punto di vista l’abbassamento dei costi relativi ai più disparati comparti tecnologici ha favorito la diffusione delle registrazioni “home made”. Oggigiorno, per una band come la nostra, è impensabile registrare un disco come “Sadako e le mille gru di carta” in uno studio professionale.

Mediamente, i brani sono costituiti da novanta tracce, con tutto quello che ne comporta anche solo in termini di registrazione, editing, missaggio, mastering e relativi costi.

Il vantaggio di lavorare in casa con strumentazione virtuale ha aperto un mondo di possibilità infinite a basso costo, oltretutto senza la spada di Damocle del “fattore tempo”, modalità non applicabili nei classici studi. I nostri lavori sono sempre stati registrati da noi, con i professionisti abbiamo fatto “solo” missaggi e mastering.

Anche le grafiche le abbiamo sempre ideate e realizzate in autonomia, dal logo “LogoS” all’impaginazione di tutto l’artwork, sempre in un’ottica di contenimento dei costi e libertà di azione.

I primi due dischi, e la loro stampa ufficiale, sono attualmente al vaglio interno. Al momento non abbiamo ancora deciso nulla.

C.A.: Il vero tormentone in casa LogoS è legato alla ristampa dei primi due album. Il pubblico spesso ci scrive chiedendo informazioni visto che le poche copie stampate all’epoca sono sostanzialmente introvabili.

Qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

C.A.: La scena Progressive è viva e vegeta, piena di artisti, dischi e idee. Però questa scena è mossa indiscutibilmente ed unicamente dalla passione. Credo sia semplice constatare quanto manchi la solidità del contesto nei termini che oggi nessuno più lo fa come mestiere: quanti gruppi o giovani artisti Prog sono dei professionisti? Non ne conto più di un paio. Il Prog di oggi è uno zelo, una parentesi che si apre dopo aver timbrato il cartellino sul lavoro principale che ti permette di pagare la bolletta. Questo fattore è il motivo per cui un album impiega anni per vedere la luce. Soprattutto per questo, collaborare tra band è possibile, direi doveroso. Noi lo abbiamo fatto spesso con i bresciani Phoenix Again con cui abbiamo condiviso vari concerti, uno anche in Olanda. Grazie ad internet sono interessanti anche le sedute di chiacchierata e videointervista tra band sui social: è un modo per acquisire punti di vista differenti sulle stesse attività che costituiscono l’essere una band. Circa gli spazi, credo che il momento sia veramente al minimo storico: sia per la situazione generata dal Covid-19 ma anche per l’interesse che manifestano i locali per il nostro genere. Anni fa si riusciva a suonare Progressive anche nel bar sotto casa; il pubblico e i locali sono cambiati, forse per maggiore burocrazia, scelte stilistiche o motivate da fattori economici, lotte tra vicinato o chissà cosa. Dal canto nostro cerchiamo di accettare solo serate che garantiscano una certa resa in termini di qualità come location e ci siano le condizioni necessarie per esprimersi al meglio.

Esulando per un attimo dal mondo LogoS e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nel quotidiano?

L.Z.: La musica è il mio interesse principale, di conseguenza c’è la passione parallela per gli strumenti. In particolar modo, trovo che Progressive e tastiere vintage siano un binomio affascinante, queste ultime, soprattutto, per la storia che hanno contribuito a scrivere, per le sonorità e per le atmosfere che tutti conosciamo e amiamo. Tanti brani sono stati resi celebri da quei suoni, senza i quali non avrebbero avuto lo stesso impatto e riconoscibilità. Nella mia piccola collezione posso annoverare orgogliosamente un Hammond C3 custom e un Minimoog model D; li potete sentire su “Sadako e le mille gru di carta”.

Sono appassionato anche di arte contemporanea. Credo fortemente nella simbiosi tra musica e pittura, nell’unione, nella collaborazione tra le arti. Arte che racconta, arte che denuncia, arte che guarda il mondo, mondo che dovrebbe guardare all’arte…

F.G.: Oltre ai LogoS porto avanti altri progetti musicali. Suonare Progressive mi piace, è un tipo di musica aperta a un’immensa moltitudine di generi musicali. Nel Prog ci puoi mettere veramente di tutto, ma a volte amo sperimentare altre sonorità ed altri strumenti, come l’arpa irlandese, che ho suonato per vari anni. Quando sono a casa assieme alla mia famiglia amo molto leggere.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

L.Z.: Sono sempre domande difficili a cui rispondere, ancor più difficile sentenziare un ipotetico podio. In gioventù, la mia sensibilità mi portava molto vicino al mondo della canzone cantautorale di protesta. Francesco Guccini è il mio autore preferito, soprattutto interpretato dai Nomadi.

Canzoni come “Asia”, “Canzone della bambina portoghese”, “L’atomica cinese”, “La canzone del bambino nel vento” e molte altre, sono state le mie colonne sonore adolescenziali. Canzoni in cui mi identificavo profondamente, musicalmente, ma ancor di più socialmente, consapevole che parole e musica avrebbero, anche se in minima parte, contribuito a migliorare il mondo. Traguardo tanto grande quanto utopistico, ma quella era la mia ambizione, ingenua, ma tant’è…

Nel 1996 arrivò il mondo del Progressive e la possibilità di scrivere e suonare con la propria testa. Fabio mi iniziò a quella musica nuova, suo l’input, sua la scintilla. Inutile citare i gruppi che tutti conosciamo e che sono stati anche il mio riferimento, sarebbe banale. Dovessi sceglierne uno, direi senz’ombra di dubbio Le Orme. È quello il Prog che io e i LogoS sentiamo più vicino. Per quanto riguarda preferenze-influenze trasportate sul mio strumento ti direi Rick Wakeman, il tastierista che più ho ascoltato e che più mi ha influenzato. Maestri classici?  Johann Sebastian Bach!

Ascolto molto anche il mondo delle colonne sonore, delle musiche per i film. Amo e ammiro moltissimo Ennio Morricone e le sue opere, fonte d’ispirazione continua, il Maestro per eccellenza, il vero genio assoluto, il più grande di tutti e su tutti. Altro grande compositore per le sale cinematografiche è Hans Zimmer, che rende contemporanea, anche con l’ausilio dell’elettronica, la lezione e la scuola di Morricone.

Altro genio assoluto, che ascolto e apprezzo particolarmente, dalla personalità dirompente, strabordante, è il compianto Leonard Bernstein. Cito le sue musiche per “West Side Story”, il musical di fine anni ‘50 ispirato alla tragedia di Giulietta e Romeo.

F.G.: Da ragazzo ascoltavo molto il folk di band come i Pentangle e, ovviamente, moltissima musica rock, in particolar modo il Progressive di band come Genesis, King Crimson, Gentle Giant. Inoltre, amavo particolarmente il rock sperimentale tedesco dei primi anni ‘70, chiamato Krautrock. Un genere che è stato la culla di band folli e geniali come gli Ash Ra Tempel, Popol Vuh, Tangerine Dream.

Oggi ascolto per lo più musiche d’atmosfera, come ad esempio le opere “ambient” del musicista americano Steve Roach.

C.A.: Nel mio podio ci sono i Pink Floyd ed i Beatles ma anche band più hard come i Black Sabbath e gli Uriah Heep. Delle mie preferenze italiane vi ho già raccontato. Ascolto anche musica leggera, soprattutto italiana (Dalla, Battisti), elettronica (Jean Micheal Jarre, Kraftwerk, Tangerine Dream) e un pizzico di rock americano degli anni ‘90.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

L.Z.: Ti risponderò con un solo titolo e autore: “Siddharta” di Herman Hesse, libro da cui è nata “Il grande fiume”, la prima suite dei LogoS, contenuta nel nostro primo disco omonimo. Non proferirò alcun commento su questo libro, ogni parola sarebbe inadatta e inadeguata.

F.G.: Un libro che ho letto molti anni fa e che ogni tanto rileggo e mi sento di consigliare è “Lettera a uno sconosciuto”, un voluminoso libro dedicato a John Cage, uno dei più grandi musicisti d’avanguardia del secolo scorso. Nel libro è narrata e descritta la particolarissima concezione di ciò che per Cage era il suono e l’arte in generale. La sua complessa e affascinante personalità era molto influenzata dalla spiritualità orientale e la sua profonda ricerca sonora rappresenta un grande patrimonio dell’umanità.

C.A.: In questo periodo sto leggendo con piacere le biografie: mi sono piaciute molto quella di André Agassi e, soprattutto, quella di Vittorio Nocenzi. Il libro di Nocenzi, che riporta in maniera cronologica la storia del Banco, sicuramente piacerà ai lettori: ci sono delle pagine, oltre che interessanti, veramente scritte bene. Assolutamente epico il capitolo che racconta l’incontro tra Vittorio e Francesco Di Giacomo. Per chi ha voglia di leggere la vita di rockstar internazionali consiglio quelle di Ozzy Osbourne e Bruce Dickinson.

Tornando al giorno d’oggi, personalmente e artisticamente, come avete affrontato e reagito al “periodo buio” della pandemia che abbiamo vissuto recentemente (e che, in parte, stiamo ancora vivendo)? Pensate che l’arte e la musica, in Italia e a livello globale, siano state solo “ferite di striscio” o abbiano subito un “colpo mortale”?

L.Z.: Per quel che mi riguarda, sto vivendo male tutto quello che sta accadendo, molto male. Non mi soffermerò in questo contesto nell’argomentazione, ormai stancante, riguardo a tutte le scuole di pensiero. Il tema è profondamente divisivo e una verità in senso assoluto penso non esista. Sia ben chiaro, premetto che quanto sto affermando è a titolo esclusivamente personale, contestualmente al mio personale pensiero, i LogoS in questo caso non sono oggetto in causa:

-sono preoccupato per i rapporti di forza che si sono generati e delineati in questi due anni;

-sono preoccupato per la profonda spaccatura sociale in atto;

-sono preoccupato per il futuro dei nostri figli, privati di qualsivoglia contatto, imprigionati dietro un monitor, istruiti da una fantomatica DAD.

Vedo molte ombre, molte zone grigie, vedo e sento manipolare giornalmente fatti e parole. Ora come ora “obbligare” è sinonimo di “convincere”, “proteggere” equivale a “discriminare”. Penso che la situazione sia sfuggita di mano, credo che il buon senso sia stato messo definitivamente da parte, sono convinto altresì, che la verità si sia piegata all’audience a qualsiasi costo, tv o social ormai poco cambia…

L’ipocrisia e l’indifferenza dei miei concittadini, del mio popolo, sono comunque le cose che a me fanno più male. Altri grandi assenti in questo momento storico, sono stati gli artisti a mio avviso. Anche loro avevano e hanno la responsabilità di denunciare e di parlare alle masse.

In loro ho avvertito paura, timore, ho intuito l’esigenza di far ripartire il circus musicale solamente dal punto di vista aziendale-imprenditoriale. Lo ritengo svilente per la musica stessa, e per chi, magari come me, si rispecchiava negli ideali condivisi e proposti da quelle stesse band che attualmente, in virtù del tanto in auge dogma del “politicamente corretto”, plaudono a scelte, argomentazioni, modalità e politiche quantomeno discutibili: “The show must go on”, ma ci sarebbe da parlarne…

F.G.: La musica, almeno in Italia, negli ultimi anni ha subito un duro colpo; locali storici che proponevano musica live hanno chiuso uno dopo l’altro. Non è solo la pandemia di Covid-19 la responsabile di tutto questo; è il risultato di un brutale decadimento umano e culturale che dura da molto tempo e il Covid ha semplicemente amplificato a dismisura. Basta dare un’occhiata ai social: tutta questa rabbia ottusa, questa maligna voglia di ferire con le parole, questo continuo, compulsivo bisogno di “aver ragione”. È necessaria al più presto una rinascita della musica, perché dove c’è musica non ci sono nemici, non ci sono barriere, non ci sono ideologie da difendere o da imporre. È una sensazione che provo nella band ogni volta che ci troviamo fra di noi: ognuno di noi quattro, com’è ovvio che sia, ha una sua personalità e il suo personale bagaglio di idee, opinioni e giudizi riguardo ciò che avviene ogni giorno nel mondo e nella società; su certi argomenti possiamo trovarci d’accordo, su altri no. Ma nel momento in cui iniziamo a suonare insieme si forma tra noi un’unità e un’armonia che va al di là di tutto il resto. È il meraviglioso potere taumaturgico della musica.

Guardo con ottimismo e speranza alle nuove generazioni; vedo in loro una freschezza, un’energia e una voglia di ascoltare che la mia generazione credo abbia ormai definitivamente perduto.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività?

F.G.: Di aneddoti divertenti ne avremmo tanti da raccontare; ci vorrebbe un’intervista dedicata solo a questo tema! Ricordo, ad esempio, un piccolo festival a cui partecipammo verso la fine degli anni ‘90; il chitarrista della band che suonò dopo di noi era ubriaco fradicio; a metà concerto, in un impeto di furia hendrixiana lanciò la propria chitarra verso il pubblico (fortunatamente nessuno si fece male) e se ne andò come niente fosse, lasciando gli altri membri della band nel panico più totale. Un attimo dopo vedemmo il nostro chitarrista correre disperato verso il palco perché credeva che la chitarra finita giù dal palco fosse la sua!

Oppure, sempre in quegli anni, durante l’esecuzione di “Sentiero nel prato, porta dell’universo”, un nostro brano di una discreta lunghezza, uno di noi (non dico il nome perché si dice il peccato, ma non il peccatore), al terzo o quarto minuto circa, sbagliò accordi e ci ritrovammo forzatamente a eseguire il finale strumentale della canzone senza aver potuto suonare tutta la parte centrale. Praticamente ne venne fuori una versione “45 giri”. E la stessa cosa accadde durante un altro concerto poco tempo dopo! Ancora oggi se ci penso non smetto più di ridere.

Una cosa è certa: quando si suona in una band, i momenti comici ed esilaranti non mancano mai. Le risate sono assicurate!

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei LogoS che vi è possibile anticipare?

L.Z.: I LogoS continueranno a scrivere canzoni. Abbiamo già i testi per un altro concept album. La “penna” responsabile è una figura molto importante per il panorama cantautorale, e non solo italiano, a tempo debito vi daremo ulteriori ragguagli. Stiamo musicando e arrangiando i nuovi brani, il lavoro quindi (Covid permettendo), sarà prevalentemente in studio. In ogni caso proporremo ancora lo spettacolo ideato per “Sadako e le mille gru di carta”, dove abbiamo integrato delle proiezioni sincronizzate ai brani.

L’apporto multimediale coinvolge lo spettatore su più fronti, non solo quello musicale.  Ne deriva un concerto fortemente suggestivo, carico d’emotività e pathos. Attendiamo fiduciosi qualche bella proposta e nel frattempo proseguiamo nella composizione.

Grazie mille ragazzi!     

L.Z.: Grazie a te Donato per l’intervista e l’attenzione. Un abbraccio a te e a tutti i tuoi lettori!

F.G.: Ciao!

A.P.: Ciao a tutti i lettori!

C.A.: Un saluto a tutti, un grande abbraccio.

 

(Aprile, 2022 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 3. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)

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