Intervista ai Capside

Un caro benvenuto a Valentina Casu (V.C.), Giovanni Casada (G.C.), Roberto Casada (R.C.), Manolo Ciuti (M.C.) e Martino Faedda (M.F.): Capside.

Capside: Ciao, è un piacere conoscerti e rispondere alle tue domande.

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Capside e cosa c’è prima dei Capside nelle vite di Valentina, Giovanni, Roberto, Manolo e Martino?

R.C.: I Capside nascono nel 1992 da una mia idea e del nostro primo cantante, Ivan Pastorino. Volevamo creare un gruppo che suonasse musica stravagante e sicuramente fuori dal canone di allora, pressoché dominato dal metal o dal pop leggero. Siamo andati in giro per la città a scovare musicisti che avessero la nostra stessa voglia. Alla fine abbiamo messo su una band di matti, con pochi mezzi ma grandi idee. Nel primo nucleo, oltre a me, c’erano Manolo, Martino, Ivan e Mario Reni, sostituito un anno dopo da Antonio Maciocco. Qualche mese più tardi ci raggiunse pure un altro bravissimo chitarrista, Mario Loi, che oggi vive in Spagna, e, ancora più in là, il flautista Alessandro Carta. Dopo qualche rimpasto Valentina arriva nel 1995 e Giò nel 1997.

M.C.: I Capside nascono con la voglia di suonare musica inedita e assolutamente originale. Per quanto mi riguarda, prima ci sono state piccole partecipazioni a gruppetti, per lo più rock punk.

M.F.: Prima dei Capside mi sono divertito con alcuni gruppuscoli, il più importante una band metal chiamata Outrider che, tra la l’altro, già provava a produrre materiale originale. Ricordo benissimo quando Roberto mi chiese se volessi provare con loro e rispondere positivamente è stata una delle migliori scelte della mia vita, anche se all’inizio pensavo fossero un gruppo di svitati! Ho fatto anche altre esperienze successive, generi, stili, ma poi, comunque, si è sempre ritornati alla base.

V.C.: Sono nata musicalmente coi Capside, nel 1995. In seguito ho fatto altre esperienze musicali, contemporaneamente al gruppo, perché avevo bisogno di sperimentare con la mia voce.

G.C.: Prima suonicchiavo a casa per diletto. Mentre i Capside iniziavano, io ero studente universitario a Cagliari. Poi, rientrato a Sassari, ho iniziato con un gruppo di amici, i Zona Rimozione, con i quali facevamo rock demenziale e qualche cover. All’epoca condividevamo la sala prove con i Capside, nei quali suonava mio fratello Roberto. Non ci abbiamo messo molto a fare amicizia e, proprio in quel periodo (1997), Antonio Maciocco lasciò il gruppo e mi proposero di suonare con loro. Ricordo che proprio in quelle prime prove arrivò Alessandro Carta con una nuova idea latineggiante, trasformata subito in una ballad hard rock (dalla quale nacque “La Casa e il Ciliegio”). Più tardi ci fu un periodo di crisi, non ricordo gli anni, durante il quale feci un’esperienza blues con i Blujuice, per poi riavvicinarmi definitivamente durante la registrazione di “Capsidea”.

Capside (da leggersi alla “latina”): come cade la scelta sul nome?

R.C.: È un’idea del nostro primo cantante. La (o “il”) capside sarebbe l’involucro esterno di una particella virale. Una metafora in questo caso, al posto del virus c’è la band che non si fa influenzare da fattori esterni. Il concetto era di fare quello che ci piaceva senza cadere nel commerciale e il guscio “Capside” ci serviva per difenderci dalle tentazioni del mondo esterno conformista. Giovani idealisti, insomma, eheh!

Mi parlate un po’ dei vostri primi anni, quelli che precedono l’esordio con “Capsidea” (2009)? Sbaglio, o ci sono anche demotapes e partecipazioni a raccolte discografiche condivise con altre band sarde (oltre all’esperienza live) in questo periodo?

M.C.: Sì, un paio di demotapes e un CD sempre autoprodotti, più un paio di raccolte con gruppi locali.

M.F.: I primi anni sono stati di formazione, abbiamo creato pian piano il nostro stile e affinato il nostro gusto e siamo anche migliorati tecnicamente. Ad ogni modo, quei primissimi giorni sono stati irripetibili, una folgorazione, divertimento assoluto, prove su prove nella nostra mitica saletta di via Buccari a Sassari, concerti nei posti più loffi della città (tra cui il mitico Zanzibar). I Capside di allora devono tutto a quei primi giorni di trip musicale. Ho bei ricordi anche dei periodi di ingresso di Vale e di Giò.

G.C.: Ricordo con grande piacere i live allo Chalet di Algher,o all’epoca gestito da Sergione Grimaldi, in corrispondenza con l’incisione di “Sersa98” con “La Casa ed il Ciliegio”, all’epoca si scendeva dal palco ubriachi non solo per la birra, ma anche perché si buttava l’anima. Che tempi! Associo quel periodo alla figura di Gavinuccio, un nostro caro amico musicista, purtroppo scomparso di recente.

Il 2009, appunto, vi vede esordire con “Capsidea”. Mi narrate la genesi dell’album? Quante delle primissime idee sono confluite nel disco?

M.F.: “Capsidea” è il nostro “primo” vero disco. Dopo i vecchi demo e le raccolte volevamo metterci alla prova con un lavoro registrato come si deve e ben prodotto. È un mix di nuovi brani e cose che facevano già parte del vecchio repertorio.

G.C.: Io sono arrivato a registrazione in corso con i nuovi brani già definiti dagli altri (“Africa”, “Mobbing”, “Funk Zappa”, “Ride”) mentre, per esempio, “E non vorrei” la suonavamo già ai tempi dello Chalet. Esiste pure una registrazione live nel primo demo.

Sul fronte sonoro, quali artisti hanno “influenzato” le vostre note? Vi va di spendere qualche parola anche sul contenuto delle liriche?

V.C.: In realtà non ho punti di riferimento precisi perché non ho mai mitizzato un musicista e neanche un genere particolare, però posso dire che molte delle melodie che creo nascono sicuramente dall’ascolto di tanta musica rock, classica, jazz, pop, fino alla lirica. Qualcuno, di cui non ricordo il nome, mi disse: “Se non sai di cosa scrivere, scrivi di te”. Questo è stato l’esordio della mia scrittura, molto autobiografica, che poi si è arricchita di racconti, a volte fantastici, surreali.

G.C.: Adoro ascoltare musica a 360°, da tastierista e amante del suono dell’organo Hammond le influenze più dirette sono a Jon Lord, Keith Emerson, Jimmy Smith ed i solisti jazz dei primi anni ‘60-‘70. Poi Tony Banks e tutto il mondo che ruota intorno all’ hard rock, Prog Rock, jazz, fusion, passando per la musica sinfonica, mi piace molto anche l’elettronica, soprattutto nell’evoluzione degli anni ‘80-’90, e il cantautorato italiano in generale, diciamo che le influenze sono piuttosto variegate!

M.C.: Più che il genere in sé, sono influenzato da un gruppo per il suo modo di suonare, l’intenzione.

M.F.: Bella domanda, impossibile rispondere, troppa buona musica nella mia collezione. Dal punto di vista chitarristico adoro Jeff Beck e il suo approccio melodico. Nel Progressive mi piace moltissimo la scena di Canterbury.

Tocca poi attendere quasi dieci anni per vedervi tornare con un nuovo lavoro: “Tous Les Hèros” (2018). Innanzitutto, come mai questo lungo “intervallo” tra i due lavori?

G.C.: Produrre un disco in proprio non è cosa facile, soprattutto quando si ha famiglia. In quel periodo è nato un moto riproduttivo tra i vari componenti del gruppo, quindi con bambini piccoli trovare il tempo per registrare ed arrangiare nuovi pezzi era un po’ complicato e ci siamo limitati a suonare il nostro repertorio nelle serate live e durante le lunghe sessioni di prova in saletta.
Poi i bambini sono cresciuti e siamo riusciti a trovare il tempo di buttare giù un po’ di idee che ci frullavano per la testa. In questo ci è venuta incontro l’evoluzione tecnologica che ci ha permesso, con una spesa accettabile, di comprare un po’ di strumentazione per registrarci in proprio direttamente in sala. Da lì, le sessioni di prova si sono trasformate in sessioni di registrazione per “Tous Les Hèros”.

M.C.: Insomma, meglio aspettare un po’ piuttosto che mettere in giro robaccia!

Suoni spesso caldi e corposi che convivono in soluzioni mai “semplici”, un continuo “fluttuare” intelligente e creativo tra i generi, il tutto arricchito dalla voce rovente di Valentina (e tanto altro ancora). Ma come sono nati i brani di “Tous Les Hèros”? E, in generale, come prende corpo un brano dei Capside?

V.C.: Di solito in sala si sviluppa la musica, poi su quella creo una melodia e un testo, a seconda di quello che la musica mi suscita. Su “Tous Les Hèros” ci sono anche testi di Roberto e Manolo e del cantante che mi ha preceduto, Ivan Pastorino.

G.C.: Molti brani facevano parte del repertorio storico del gruppo che abbiamo deciso di registrare in maniera migliore “per i posteri” (“La principessa”, “Il mare di Messaggi”, “Jasmine”, “Silenzio”, “La Casa e il ciliegio”). Altri sono vecchie idee ripescate dal cassetto (“Tous Les Hèros”, “Uomini della città”), altri ancora sono nati durante la registrazione (“Tàtari Tzentrale”, “Black Market (Ideogramma)”). Non c’è un vero e proprio modus operandi per fare un nuovo brano, uno dei cinque arriva con un’idea di base e, suonandola insieme, ognuno aggiunge del suo, si inserisce qualche passaggio rimasto nel limbo, si provano arrangiamenti, il testo. Diciamo che il brano si sviluppa progressivamente, una volta definito si scelgono bene i suoni e si aggiustano assolo, passaggi, ecc.
Per i suoni personalmente mi ispiro prevalentemente agli anni ’70, dove ritengo esistessero le migliori tastiere di sempre. Le mie sonorità si basano su strumenti storici come Hammond, Rhodes, String Machine, Minimoog, l’immancabile pianoforte, il mitico mellotron (il primo campionatore della storia) e altri synth prevalentemente dei primi anni ’80. Una cosa che è doveroso precisare, è che la maggior parte delle sonorità del disco nascono da emulazioni software di quegli strumenti pescate nel mondo dei VST freeware. A parte uno o due strumenti, tutto il resto è a impatto zero!

M.C.: Parte da una idea, un riff, anche un piccolissimo groove che piace a tutti, e i Capside riescono a modellare il pezzo come un ceramista crea un qualcosa da un pezzo di creta.

M.F.: Spesso è il basso che detta la linea, poi andiamo avanti per strati. Valentina poi fa un lavoro egregio di armonia dove riesce a creare una canzone nella canzone.

R.C.: E se non c’è almeno un dispari non ci divertiamo!

Mi parlate un po’ anche della stupenda copertina surreale?

M.F.: Abbiamo visto le opere del nostro conterraneo Tony Demuro e ci sono piaciute. Tony è un artista direi visionario, molto conosciuto in tutta Europa, con commesse in Francia e in tutto il continente. Contattarlo è stato facile e scegliere alcune sue opere che potessero adattarsi alla nostra musica davvero semplice.

Quali sono, a vostro modo di vedere, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i due album?

M.F.: Personalmente sono molto legato a “Capsidea”. Mi dà la sensazione di un gioiello grezzo ma con tanto carattere. “Tous Les Hèros” è molto più rifinito, maturo, potente. Ma sono affezionato ad entrambi.

G.C.: A mio avviso c’è un diverso approccio all’arrangiamento con maggiore cura nella scelta dei suoni e dei dettagli. Su “Tous Les Hèros” abbiamo curato maggiormente i tempi e il “tiro” e comunque siamo maturati a livello esecutivo.

M.C.: Sicuramente il secondo disco ha una qualità sonora molto superiore, ma prima o poi riprenderemo “Capsidea” e ne faremo un nuovo super capolavoro.

E come sono stati accolti i vostri lavori da pubblico e critica?

G.C.: Credo che siamo “ben visti”. Le recensioni di “Tous Les Hèros” sono tutte molto buone e quando ci siamo confrontati con un pubblico neutrale, come nella bellissima esperienza di Sanremo, abbiamo avuto degli ottimi riscontri da parte degli altri musicisti e dei presenti in sala.

M.F.: “Capsidea” è un disco “ante social network” e ha avuto meno visibilità. “Tous Les Hèros”, invece, ha avuto davvero tante recensioni positive, a volte quasi incredibili, entusiastiche. È stato davvero bello vedere riconosciuto il nostro impegno.

 “[…] Noi ci muoviamo in quest’universo / di ingratitudini / Siamo pagine di un testo / che qualcuno ha perso senza rimpiangerci”. Su Bandcamp è possibile ascoltare un vostro brano dal titolo “Termiti”. Vi va di presentarlo? A mio avviso, c’è tanto dolore nelle parole del testo, ma anche tanta presa di coscienza…

V.C.: “Termiti” è volutamente un brano di contrasti, tra una musica “leggera”, quasi “dance”, e un testo che parla di rassegnazione, di una quotidianità fatta di gesti ripetitivi, omologazione, insoddisfazione.

M.F.: “Termiti” è un classico brano alla “Capside”, dove si fondono stili che vanno dal Prog, alla fusion, fino alla dance pop. Io ci vedo e ci sento gli Steely Dan in salsa sarda!

E restando in tema di singoli, nel novembre del 2021 avete pubblicato il video del brano “A mio figlio”, una piccola lettera scritta a mio figlio, nata da una musica che avevamo nel cassetto da un po’ di tempo e che parla di come diventare padri e madri possa cambiare la percezione della propria esistenza (parole di Valentina Casu), tratto dal vostro prossimo album cui state lavorando. All’ascolto emergono una delicatezza e una poesia davvero evidente ed emozionante. Una domanda per Valentina (ma aperta alla risposta di tutti): com’è cambiata, dunque, la percezione della tua esistenza con l’arrivo di tuo figlio? Anch’io sono diventato padre da poco, per la prima volta, e la mia esistenza è stata completamente e inaspettatamente stravolta…

V.C.: Mettere al mondo un figlio è un atto di coraggio, o forse di incoscienza. Finché non diventi genitore resti sempre figlio, col tuo egoismo, le tue priorità, la tua libertà. Poi vieni travolto dalle responsabilità, ma anche da un amore incondizionato.

G.C.: Io ho vissuto un’esperienza un po’ particolare, perché mia figlia arriva dal precedente matrimonio di mia moglie e quindi diventare padre è nato da una scelta consapevole e condivisa con loro, un’esperienza totalizzante e bellissima che ti riempie la vita a 360°. Poi crescono, ma nel cuore restano sempre piccolini.

M.C.: La musica è stata composta dal sottoscritto ma poi, come al solito, tutti hanno contribuito all’arrangiamento finale.

Nel complesso, “A mio figlio” quanto è “rappresentativo” del nuovo lavoro che sta per arrivare? E ci sarà spazio anche per “Termiti”?

V.C.: “A mio figlio” è rappresentativo nella misura in cui esprime una maturità e una consapevolezza che ci ha accompagnato nella composizione di tutto l’album. In realtà, si tratta di un lavoro molto eterogeneo e stupirà sicuramente anche chi ci segue da tempo.

G.C.: Secondo me è una di quelle chicche che si trovavano spesso nei dischi Prog, a livello melodico e ritmico è un elemento unico e a sé stante, non riesco ad affiancarlo a nessun altro brano del disco.

M.C.: Certamente ci sarà spazio anche per loro.

Il nuovo album, dunque. C’è qualcosa che vi è possibile anticipare? Quanto e come si lega ai lavori precedenti?

G.C.: Difficile per chi scrive e suona i brani rintracciare la somiglianza o meno tra i vari, personalmente non riesco a fare dei netti distinguo. Così, a sensazione, il prossimo disco avrà dei picchi più estremi tra un brano e l’altro, si passa dalla fusion, un pizzico di jazz, blues, Prog classico, Prog Metal, ci saranno tante influenze dentro, non vedo un filo conduttore ben distinto tra i brani.

M.C.: Più che lega diciamo che a noi Capside piace giocare con la musica senza limiti di nessun tipo.

M.F.: Non scherziamo, il nuovo album (che si chiamerà probabilmente “Ladyesis”) è la summa dello stile Capside. Il picco più alto della nostra produzione. Sia per gli arrangiamenti, sia per i testi di Valentina, vero filo conduttore di tutta la produzione. I brani sono praticamente tutti nuovi, nati dalle sessioni recenti. Le nuove canzoni mi danno sensazioni super positive, hanno una grande forza, tutte diverse, tutte Capside 1000 per 1000.

R.C.: Siamo sempre in evoluzione…

Spostandoci, invece, sul fronte live, come sono i Capside sul palco? Cosa c’è da aspettarsi da un vostro concerto?

M.F.: Una cosa la so, negli ultimi anni i Capside si divertono molto dal vivo. I primi anni eravamo molto seriosi, molto concentrati sulle nostre canzoni intricate. Da qualche tempo, invece, suonare in concerto ci diverte moltissimo, abbiamo imparato a sorridere ed a stare bene con il pubblico. C’è una bella leggerezza di fondo che stranamente si accompagna con la nostra musica che semplice non è. E il pubblico apprezza.

V.C.: Noi ci muoviamo sul palco esattamente come nella vita quotidiana, ed emergono i nostri caratteri e una vena ironica che ci portiamo dietro nei live.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

G.C.: Si ampliano enormemente gli orizzonti, quindi le possibilità diventano infinite, però ci si trova in mezzo ad una miriade di proposte, quindi farsi notare in un mare così immenso, lavorando in maniera amatoriale, o quasi, diventa quasi impossibile.

M.C.: La velocità del web è impressionante, come ti ricorda ti dimentica.

R.C.: A me ha dato l’accesso ad una montagna di musica a cui non avrei avuto accesso altrimenti.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino? Non avete mai pensato di tentare la “carta” etichetta discografica?

G.C.: Con famiglia e lavoro risulta ormai complicato stare dietro a ‘ste cose, ma non è che ce ne sia mai fregato più di tanto. Abbiamo sempre suonato per amicizia e amore per la musica, mai con fini “manageriali”. Per noi è un divertimento, stare insieme agli amici facendo qualcosa che ci piace.

M.C.: Sempre autoprodotti, liberi di fare sempre quello che ci piace.

R.C.: Niente etichette… io suono per divertimento e non per lavoro.

M.F.: A me piacerebbe pure provare la carta “Casa discografica”, ma a sentire di certe esperienze, non so se ne valga la pena. Certamente vorrei ampliare il nostro pubblico, dare una possibilità in più alle canzoni.

Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?

M.F.: Eh sì, è proprio come dici tu. Noi siamo super sicuri dei nostri brani, sentiamo che potrebbero sfidare tutto e tutti, pure le produzioni più blasonate. Non lo dico per vanità, ci crediamo molto. Certo, uscire dal proprio giro è davvero difficile, e pure frustrante se credi davvero nella tua arte. Alle nuove generazioni non posso consigliare nulla, sono già bravissimi da par loro e riescono spesso a fare autoproduzioni da urlo, altroché.

G.C.: Penso che, al giorno d’oggi, essere “imbrigliati” in un’etichetta con finalità principale il business, sia controproducente per la creatività. Ultimamente raramente ho sentito dischi dei “grandi” che attirassero la mia attenzione, mentre pescando nelle bacheche di amici musicisti e nella musica alternativa si sentono cose molto interessanti e ben fatte.

M.C.: La buona musica va oltre l’etichetta che ti promuove o produce.

E qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

G.C.: Ci sono tantissime piccole realtà che fanno roba fighissima, ma molti si fanno ingolosire dalla moda del momento.

M.C.: Diciamo che il mondo musicale italiano e sardo è pure pieno di meteore.

M.F.: La scena Progressiva ha un problema di fondo: troppo legata ai cliché e ai miti di un tempo. Bisogna cercare l’originalità, a tutti i costi, pena la noia!

R.C.: Ci sono band valide, ma troppe poche occasioni di esibirsi.

Esulando per un attimo dal mondo Capside e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nel quotidiano?

M.F.: Boh, non so se può interessare ma io sono un appassionato di lingua sarda, amministratore di una pagina Facebook dove si imparano le regole base di scrittura del nostro idioma. In pochi anni siamo arrivati a quasi 20.000 iscritti.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

V.C.: Neil Young, Joni Mitchell, The Smiths, Chet Baker, Bill Evans, The Who, Battiato, Creedence Clearwater Revival.

G.C.: Vai dal 1969 al 1976, pesca una decina di nomi a caso tra The Who, Pink Floyd, King Crimson, Deep Purple, Genesis, Banco, Area, ELP, Led Zeppelin & C. e va comunque bene!

R.C.: Dai King Krimson (1968) agli Shamblemaths (2022)… escludendo buona parte degli anni ‘80. Cinquanta anni di musica, per me è impossibile fare una classifica.

M.C.: Non si può fare un podio di preferenze personali ognuno ha un primo posto.

M.F.: Se devo fare un nome dico Joni Mitchell. Sono stato folgorato dalla cantautrice canadese circa venti anni fa e da allora la adoro. Mi affascinano le sue melodie, le accordature aperte e il mix di country, rock, jazz, senza confini. Che artista ragazzi! Nel Progressive? Hatfield and the North o… i Voivod.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

V.C.: Io consiglio Joe R. Lansdale e i suoi racconti noir e irriverenti di Hap e Leonard.

G.C.: Sono un amante della fantascienza, quindi il primo che mi viene in mente è Isaac Asimov

M.F.: Sono un divoratore di libri. Un nome? Josè Saramago. Un libro? “Cecità”.

Tornando al giorno d’oggi, personalmente e artisticamente, come avete affrontato e reagito al “periodo buio” della pandemia che abbiamo vissuto recentemente (e che, in parte, stiamo ancora vivendo)? Pensate che l’arte e la musica, in Italia e a livello globale, siano state solo “ferite di striscio” o abbiano subito un “colpo mortale”?

M.F.: La pandemia ci ha rallentato nella produzione del nuovo album ma, col senno di poi, ci ha pure permesso di lavorare meglio sui pezzi. Ritrovarsi è stato poi bellissimo.

V.C.: Ho utilizzato questo periodo in modo creativo, scrivendo finalmente dei testi per alcune canzoni alle quali non riuscivo a lavorare.

G.C.: Secondo me lo stare da soli ha stimolato la creatività, il nostro ultimo disco è frutto anche di quel periodo, ma vedo che anche altri amici musicisti hanno registrato molte nuove idee. Ho l’impressione che sia stato stimolante per la creatività. Diverso discorso per “i professionisti” della musica, sia a livello di locali sia di musicisti, che hanno patito il colpo in maniera molto forte senza aiuti da parte di nessuno, questo ci tengo a precisarlo.

M.C.:  Io opterei per un colpo mortale a un panorama già alquanto moribondo.

R.C.: R.I.P.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività?

M.F.: Ricordiamo sempre con ribrezzo (e risate) quando, nei primi tempi, i vari presentatori di serate ci accoglievano con il classico “Ed ecco a voi i Kepsaid” all’inglese. Così che, ogni volta, in coro dovevamo rispondere “C-A-P-S-I-D-E!”. Adesso se sbagliano ci ridiamo su alla grande, anzi tra di noi ci canzoniamo alla stessa maniera, tipo “Allora Kepsaid, questa settimana quando proviamo?”. Altre cose, non so, ricordo un commento su Facebook qualche anno fa, un tizio sconosciuto che parlava di noi e diceva: “I Capside? Bella storia!”. Non è niente di che, ma la cosa mi aveva riempito di orgoglio.

V.C.: Un buffo ricordo di un concerto, dove io canto sul palco con la gamba ingessata!

R.C.: La volta che durante un concerto con palco montato in una via cittadina (per una manifestazione di volontariato) ecco che, alle mie spalle, senza preavviso, iniziò lo spettacolo di un buttafuoco…

M.C.: La volta in cui uno ci chiese se fossimo un gruppo demenziale.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei Capside che vi è possibile anticipare?

R.C.: Suonare e divertirci… poi da cosa nasce cosa.

M.C.: Produrre creare sviluppare idee musicali.

M.F.: I prossimi mesi sono dedicati alla promozione del nuovo lavoro, sarà una bomba.

Grazie mille ragazzi!     

Capside: Grazie a te!

 

(Giugno, 2022 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 3. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)

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