Ash Ra Tempel – Schwingungen

ASH RA TEMPEL

Schwingungen (1972)

Ohr

 

Uno delle vette più alte raggiunte dal Krautrock. È questo l’unico pensiero utilizzabile per introdurre Schwingungen, secondo album in studio, e uno dei capolavori degli Ash Ra Tempel.

Dopo l’esordio del 1971 con l’album omonimo, gli Ash Ra Tempel vedono l’abbandono da parte di Klaus Schulze (preferì una carriera solista). Gli altri due membri fondatori, Manuel Göttsching (chitarra, organo ed elettronica) e Hartmut Enke (basso ed elettronica) allora trovano in Wolfgang Mülleril batterista e vibrafonista degno sostituto.

Nel febbraio del 1972 entrano in studio in compagnia di John L (voce, marranzano e percussioni), Matthias Wehler (sax) e Uli Popp (bongos) e registrano Schwingungen.

L’album è un viaggio cosmico e ipnotico, forse anche spirituale, con atmosfere psichedeliche e suoni, spesso e volentieri, evanescenti e dilatati all’inverosimile. Gli Ash Ra Tempel riescono ad ampliare e rendere ancor più fluido quanto di buono realizzato con l’album d’esordio, e ad essere più visionari ed estremi dei “colleghi” Tangerine Dream. Il lavoro vocale di John L è qualcosa di straordinario e angosciante al tempo stesso.

Dall’ascolto emergono inoltre importanti richiami alle opere dei Pink Floyd con cui esiste anche un legame “fisico”. Infatti, la band tedesca nacque dopo esser stata a Londra e aver acquistato la strumentazione della leggendaria band britannica.

Così Manuel Göttsching racconta l’esperienza della registrazione dell’album nell’intervista rilasciata a Filippo Bordignon nel 2005: Invitammo alle registrazioni qualche ospite tipo John L, che era un cantante veramente folle, una sorta di figura eroica a Berlino. Io, Hartmut Enke e Wolfgang Müller (il batterista) ci divertimmo un sacco. Era la prima volta che registravamo nei Dierks Studio ma ricordo un’atmosfera particolarmente rilassata specialmente quando Wolfgang incise la traccia di vibrafono per la titletrack. Avemmo solo qualche casino con quelli dell’hotel perché rientravamo all’alba e volevamo fare colazione nel pomeriggio. Ci toccò trasferirci in un altro hotel. Forse con “titletrack” Göttsching intende il brano di chiusura Suche & Liebe, è lì che Müller dà il meglio di se con il vibrafono.

L’album si apre con Light: Look at your sun. I suoni dilatati della chitarra di Gottsching, a tratti floydiani, ci proiettano in una dimensione onirica in cui John L ci accompagna con una nenia allucinata. A lungo andare, il canto diventa un tutt’uno con la base musicale che tende sempre più verso un blues psichedelico. Poi Gottsching prende il là. È un crescendo musicale su cui John L ripete in loop “We are all one”, prima della calma finale, dove tutto si fa vago.

La partenza di Darkness: Flowers must die ci proietta sempre più nello spazio profondo, tra mormorii elettronici ed evoluzioni sintetiche. Ecco comparire, tra di essi, il suono di un bongo, che ci riporta per qualche attimo a terra. Poi John L dà il meglio di sé: il suo canto lancinante e ipnotico ci scuote dalla testa ai piedi. I suoi vaneggiamenti non danno tregua e continuano su di una base tribale, con sprazzi di sax. Il delirio diventa anche musicale. Siamo in balia di onde sonore che ci colpiscono da ogni parte. John L è instancabile, così come i suoi compagni. Solo nel finale la voce sembra assopirsi (si limita a delle urla) mentre il suo posto è preso da un ottimo assolo di chitarra.

Con Suche & Liebe, che occupa l’intero lato B, siamo decisamente immersi tra le galassie più remote. I suoni che ci accolgono sono notevolmente più dilatati di quelli del brano d’apertura. I primi contatti con altre “forme di vita” si hanno intorno ai tre minuti, ma la vacuità sonora continua a regnare incontrastata. Non si riesce a trovare un vero appiglio, siamo solo avvolti da vibrazioni. Dagli otto minuti comincia a prendere forma qualcosa di più concreto che cresce senza sosta, supportato da ritmiche “senza tempo” e suoni elettronici. Poi la calma, prima effimera, con un vento cosmico che ci circonda, in seguito un po’ più reale, celestiale, ma non troppo, con un coro angelico (John L è anche questo) che si staglia su un gioco di piatti e chitarra. Il tutto in un continuo crescendo d’intensità, molto alla Pink Floyd. Pura estasi.

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