Intervista ai Tacita Intesa

Diamo il benvenuto a Davide Boschi (D.B.), Thomas Crocini (T.C.) Alessandro Granelli (A.G.) e Daniele Stocchi (D.S.): Tacita Intesa.

D.B.: Ciao!!

T.C.: Hello there!

A.G.: Ciao Donato!

D.S.: Bella!

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Tacita Intesa e cosa c’è prima dei Tacita Intesa nelle vite di Davide, Thomas, Alessandro e Daniele?

A.G.: Prima dei Tacita? Io cantavo e suonavo la chitarra in vari gruppettini della zona, facevamo cover degli Eagles, Lynyrd Skynyrd, Black Sabbath, eccetera… Insomma, roba da ragazzi rockettari alle prime armi. Nascondevo, però, nel cassetto la voglia di osare di più, suonare brani più complessi sotto certi aspetti come quelli dei Rush, Yes e Genesis… ma mi mancava con chi suonarli. Poi gli altri ragazzi dei Burnin’ mi videro cantare ad un concertino in paese e mi chiesero di unirmi a loro come cantante. Sapevo della loro esperienza e voglia di fare musica originale così dissi subito di sì. In seguito, dopo la prima prova, chiesi di poter portare la chitarra alle prove, perché senza mi sentivo smarrito (è sempre stato il mio strumento principale)… e niente, come al solito la chitarra prese il sopravvento.

D.B.: Anche io, come Alessandro, prima di entrare a far parte dei Tacita Intesa ho suonato assieme ad alcuni miei coetanei in due o tre formazioni diverse, ma niente di serio!  Facevamo principalmente cover hard rock/punk, di gruppi come Guns N’ Roses, AC/DC, Green Day, ecc. Onestamente, prima di conoscere i ragazzi, non avevo mai ascoltato una canzone Progressive Rock… Non li ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto scoprire questo fantastico mondo!

T.C.: Io, Filippo e Daniele avevamo una band hard rock (con allora il batterista della futura prima formazione dei Tacita Intesa, Pasquale Balzano), ci chiamavamo Burnin’ e facevamo cover e inediti, fortemente influenzati dai Deep Purple.

La volontà e il desiderio di produrre brani più complessi e variegati, sfruttando le ampie possibilità offerte dalle tastiere, era già presente… fu grazie ad Alessandro che queste idee trovarono un giusto catalizzatore.

D.S.: Come ha già detto Thomas, io, lui, Filippo e Pasquale suonavamo insieme con un’altra formazione, eravamo poco più che adolescenti alla scoperta della musica… quelli sì che sono giorni da ricordare!

Tacita Intesa: come si arriva alla scelta del nome e… “tacita intesa” tra chi?

T.C.: Burnin’ non piaceva più a nessuno… A me garbava molto, ma, in effetti, era troppo legato a Blackmore & Co., serviva qualcosa più in linea con la musica italiana e la cultura, e chi meglio di uno studente del Ginnasio come Pasquale poteva venir fuori con la risposta giusta?

A.G.: Io entrai nel gruppo dopo che il nuovo nome era già stato proposto da Pasquale. Mi sembra di essere stato l’ago della bilancia: gli altri erano metà a favore e metà contrari… A me piacque, aveva qualcosa di interessante. Poi ci venne in mente di associarlo all’intesa musicale che si creava durante le nostre improvvisazioni in sala. Tra me e Thomas l’intesa musicale è sempre stata alta durante le improvvisazioni e forse è tuttora l’intesa più “tacita”. Effettivamente abbiamo sempre suonato assieme: condividevamo un gruppetto della zona denominato Binesich dove, tra le altre cose, ci sbizzarrivamo con la nostra giovane passione in comune: suonare i brani dei Black Sabbath!

D.S.: Il nome lo tirò fuori Pasquale una sera quasi per caso. Poi, dal momento che, come ricordato da Alessandro, ci piace improvvisare tra di noi in sala prove, ovvero una sorta di “tacita intesa” in sé per sé, il nome ci sembrò azzeccato.

Dalla nascita del progetto nel 2012 alla pubblicazione di “Tacita Intesa” (1 giugno 2014), il passo è relativamente breve. Vi va di narrare il percorso che vi ha portati dalla prima nota scritta su carta al vostro esordio discografico e, dunque, la genesi dell’album?

T.C.: È più corretto dire “nota suonata” anziché scritta: iniziammo, infatti, con delle jam session appena Alessandro entrò nella band, e proprio durante queste belle serate musicali, trascorse all’interno del rimorchio di un camion adibito a sala prove che chiamavamo Spacetruck, presero forma abbozzi di futuri brani come “Corona” o “Periodo Refrattario”.

A.G.: Era un periodo produttivo, non eravamo così impegnati come adesso e quasi ogni sera ci trovavamo per suonare in elettrico in sala prove, in acustico nelle nostre rispettive case oppure per uscire insieme e divertirci, anche in compagnia di altri amici, portando sempre con noi quella ricerca di ispirazione che deve venire da ogni esperienza per rendere le cose più naturali. E così era: le idee non sono nate solo in sala prove, ma anche parlando e filosofeggiando fino a tarda notte. Dopo qualche anno, ci siamo resi conto di avere abbastanza materiale per incidere il primo disco (anche se di breve durata: sui 30 minuti) ed eravamo carichi ed emozionatissimi. Ci dirigemmo ad uno studio di amici, il Fudo Recording Studio, dove il nostro primo disco venne registrato.

D.S.: Un sacco di brani sono nati spontaneamente mentre suonavamo in sala prove, all’epoca facevamo tantissime prove e l’affinità tra di noi era ai massimi livelli, c’erano tutti gli ingredienti per un periodo di grande creatività.

A sette anni di distanza dall’esordio discografico, siete pienamente soddisfatti del vostro primo lavoro o, col senno di poi, cambiereste qualcosa?

T.C.: Penso che tutte le band, anche le più famose, cambierebbero qualcosa dal primo album; nel nostro caso ci sarebbero tante cose che proverei a fare meglio, ma forse sono proprio quelle ingenuità e quegli errori che gli danno un particolare gusto autentico.

A.G.: Non so se posso parlare a nome degli altri, ma per me il primo disco è ancora un piccolo orgoglio e ne vado fiero. È vero che eravamo molto ingenui e molte cose, a farle ora, le farei completamente in maniera diversa. Però quella ingenuità e l’azzardo nel fare determinate scelte musicali sono il punto forte di quell’album.

D.S.: Personalmente i primissimi brani prodotti (coff coff, “Corona”, coff coff) mi suonano malfatti e un po’ noiosi, sarà che i miei gusti musicali nel frattempo sono cambiati, comunque vado ancora molto fiero di quei brani composti di getto e che da subito suonavano bene come “Portmanteau” e “Periodo Refrattario”.

Davide, tu arrivi nel 2014, dopo l’uscita dell’album d’esordio e l’abbandono di Pasquale Balzano. Come sei entrato in “rotta di collisione” con la band e com’è stato “impadronirsi delle pelli” del gruppo?

D.B.: Beh, diciamo che il nostro incontro è stato frutto di una fortunata coincidenza forse…
Ricordo benissimo che ricevetti una chiamata da Filippo, il quale mi disse che aveva avuto il mio numero da un altro batterista della mia zona, Luca Patrussi, del quale sono stato allievo per un periodo.
Luca, in quel momento, non avrebbe avuto modo di impegnarsi in un altro progetto musicale, e quindi girò loro il mio contatto. Al telefono Filippo mi parlò rapidamente del progetto, del loro primo album e di quelle che sarebbero state le intenzioni future del gruppo e restammo d’accordo sul fare una prova assieme, una sorta di audizione! Ci accordammo su un paio di brani, se ricordo bene “Valzer della morte” e “Periodo Refrattario”, e nulla, a quella telefonata seguì la famigerata audizione che, a quanto pare, andò bene!

Passano quattro anni e tornate con un nuovo album: “Faro”. Vi va di approfondire il suo concept-non concept dedicato al viaggio?

T.C.: Con l’ingresso di Davide nella band, e la scelta della sua sala prove come nuova “sede ufficiale”,  andare alle prove si trasformò in un viaggio e ciò ci consentiva di stare un’oretta a parlare, e a progettare per la band; e forse questo discorrere fu anche motivo di voglia di crescere e maturare musicalmente.

A.G.: Il disco non nacque con un’idea di concept, ma principalmente con la voglia di registrare i brani scritti dopo l’entrata di Davide, senza tralasciarne alcuno: ci sembrava importante inserirli tutti, era il nostro cammino, il nostro viaggio. È vero che alcune canzoni hanno un testo collegabile (il tema del viaggio spaziale viene ripreso nei primi quattro brani), ma poi si perde proprio perché non tutti i brani nel corso dei quattro anni furono scritti con le stesse ispirazioni, e poi ci piace essere sempre abbastanza liberi nei temi trattati.

Il concept, comunque, è scaturito da solo. La prima canzone “Polena” è l’inizio del viaggio della nave spaziale “Tacita Intesa” portata da venti solari verso orizzonti fantascientifici. L’ascoltatore può unirsi a noi in questo “viaggio” musicale, percorrendo al contempo la storia che ci ha portato fino a Faro. Si va verso il pianeta “Solaris” (canzone dedicata al libro di Stanislaw Lem), in un pianeta identico alla nostra “Terra” e nei pressi della “Cometa” dove Philae e Rosetta, due sonde spaziali della ESA, passano assieme le ultime ore d’amore. Si passa poi da varie storie strampalate come “Grazie Sears!” e “Onda Nera”, per culminare con la “Città che Sale” (dedicata all’artista futurista Boccioni), conclusione mistica del viaggio.

Quali sono, a vostro modo di vedere, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i due album? Il vostro modo di creare musica, negli anni, ha subito dei “cambi di rotta” o siete rimasti fedeli alle origini?

T.C.: Nel debut album i brani erano più diretti e, in un certo senso, molto collegati alla loro placenta di improvvisazione, molte parti vennero improvvisate in studio, dove abbiamo registrato in turni separati.

Per “Faro”, invece, ci furono circa due anni di pre-produzione dei brani, dove ci registravamo in multitraccia in sala prove, simulando ciò che poi avremmo fatto in studio; ogni canzone venne attentamente arrangiata, ponendo attenzione a tutti gli strumenti, agli accenti e alle armonie, mentre su “Tacita Intesa” lasciammo molto all’istinto.

L’unica cosa in comune tra i due album è il concepimento dei brani, che avviene sempre partendo da una jam session compositiva, che ci tengo a differenziare dalla jam da pub: noi non stiamo un’ora a suonare la base di “Hey Joe” mentre Alessandro improvvisa un assolo, bensì cerchiamo di seguirci e al contempo proporre qualcosa, di modo da dare vita a brani mutevoli, con un bel groove e atmosfere diverse.

A.G.: Mi sembra che Thomas abbia espresso bene la differenza sostanziale tra i due album. Ci tengo ad aggiungere che il cambio di rotta è stato marcato dall’uscita di Pasquale nell’estate del 2014. Pasquale, che purtroppo è venuto a mancare recentemente (giovedì 6 maggio 2021), seppure avesse un animo molto irrequieto, come dimostrato dal suo triste gesto, aveva un’energia trainante fuori dal comune che sfoderava a pieno durante le improvvisazioni. Era molto istintivo nel suonare e talvolta impreciso, ma aveva tanta carica e penso che ciò abbia contribuito molto a rendere il primo album più genuino e spontaneo rispetto al secondo.

Dopo la sua uscita abbiamo cambiato espressione musicale, volevamo gestire la composizione diversamente, in maniera più studiata. Ciò ci sarebbe servito (e ci serve tuttora) per migliorarci tecnicamente. Fu a quel punto che entrò l’altro giovane uragano della batteria, Davide, tecnicamente infallibile e con un’attenta ricerca al dettaglio nel suono dei suoi piatti e delle sue pelli che ha rappresentato al meglio il nostro cambio di rotta… e poi aveva una sala prove dentro ad una serra, la sua Greenhouse!

D.S.: Sicuramente nel secondo album, consci di quegli “errori di gioventù” commessi nell’opera prima, e con già un’esperienza in studio alle spalle, abbiamo prestato maggiore attenzione alla composizione e alla musicalità dei brani, forse perdendo un po’ dell’autenticità data da una certa ingenuità unita alla voglia di fare, ma al contempo guadagnando un prodotto più coeso nel suo insieme.

Date molta importanza ai testi, sempre interessanti e ricchi di riferimenti (dal primo test di fusione nucleare nei pressi dell’atollo Bikini al dipinto “La Città che Sale” di Umberto Boccioni, passando per l’inondazione di birra avvenuta in un quartiere di Londra nel 1814 e altro ancora). Ma come nasce un testo dei Tacita Intesa e come viene “incastrato” con la musica?

T.C.: Alessandro sfodera il suo estro letterario-poetico e divulgativo: io imparo tanto dai suoi testi quanto da Alberto Angela!

A.G.: In sala prove, durante la creazione primordiale delle canzoni, non ci sono parole sensate. Se mi viene una linea melodica in testa la canto al microfono con parole senza senso, ma che hanno una sonorità che entra bene all’interno della canzone. Ci sono alcune parole usate e insensate che poi sono rimaste nel nostro repertorio Tacita, ma che non posso citare qui… sia mai che diventino una canzone in stile “Sussudio” di Phil Collins! I testi quindi nascono dopo. Ci tengo a precisare che alcune delle idee sono nate assieme a Filippo e Daniele, appassionati di molti ambiti, tra cui videogiochi, film, viaggi spaziali e birra… Per fare un esempio, il testo di “Valzer della Morte” nasce dal fatto che sul gioco “Metal Gear Solid” e nel film “Godzilla” si cita il test nucleare di Castle Bravo dell’atollo di Bikini. Io poi ho messo queste idee in parole e ho aggiunto del mio: un pizzico di fisica (quello che studio) e fantascienza (quello che leggo).

D.S.: I temi nascono sempre da lunghe chiacchierate tra amici dove ogni tanto saltano fuori curiosità o aneddoti appresi da film, documentari, videogiochi (e chi più ne ha più ne metta). Siamo tutti appassionati di scienza e storia e spesso ci piace andare a scovare quelle piccole cose “fighe” successe per davvero.

Una domanda relativa alle copertine dei due album è d’obbligo. In entrambe è raffigurata qualcosa che “nasce” dal terreno (naturale, con risvolti artificiali, in “Tacita Intesa” e completamente frutto dell’opera umana in “Faro”). Quali sono i significati celati dietro quelle immagini e come avviene la loro scelta?

T.C.: Nel primo caso, Daniele, il nostro tastierista, volle rappresentare in immagini alcuni concetti delle canzoni, quali il cogliere qualcosa dal suolo e l’ingranaggio, simbolo di industria. “Faro”, invece, vede in copertina delle antenne e parabole un simbolo di comunicazione rapida e senza ostacoli, baluardo della sfida dell’uomo alle barriere fisiche. È buffo come questa foto fu praticamente fatta per caso e in fretta e furia al termine di una gelida mattinata di fotografie in cima al Monte Secchieta; eravamo infatti convinti di avere abbastanza materiale con pale eoliche e scenari innevati, poi scorgemmo questo complesso di antenne televisive e ne fummo incuriositi, così, poco prima di andarcene, ci mettemmo in posa dinanzi a esse per uno scatto…  La metà superiore diventò la copertina, mentre la foto intera si è trasformata nel poster!

A.G.: Anche il titolo dell’album nacque in quel frangente. Il testo di “Cometa” era già stato scritto e, mentre ero intento a guardare il panorama dal monte vicino alle antenne, sento correre Filippo verso di me gridando qualcosa del tipo: “Il titolo dell’album deve essere Faro!” indicando le antenne… Ecco, questo è un esempio di come nascono le idee in casa Tacita! L’analogia nacque poi spontanea: le antenne rappresentano il “faro” celestiale che comunica con la nave spaziale Tacita Intesa, come fa Rosetta con Philae nel brano “Cometa”… un po’ astruso, eh?

D.S.: La copertina del primo album l’ho disegnata di persona, mi piace dilettarmi senza pretese in piccole illustrazioni come passatempo. Inizialmente era un disegno che avevo fatto per me e non era nato come copertina. Se la memoria non mi inganna, un testo prototipo mai usato scritto da Alessandro (o Pasquale?) ad un certo punto diceva “l’albero degli ingranaggi”, o qualcosa di simile, la cosa mi colpì a livello di immaginario e decisi di raffigurarla su carta. Lo feci vedere a Filippo che ne rimase colpito e decidemmo di usarlo come cover dell’album. Personalmente l’albero mi piace molto come immagine, è da sempre uno dei simboli fondanti di tutte le culture del mondo, l’albero della conoscenza del cristianesimo, l’Yggdrasil della cosmogonia norrena, il Sicomoro dei buddisti e così via. Spesso d’inverno, quando i rami sono nudi, mi ritrovo ad ammirare le forme contorte ed apparentemente senza senso che assumono, nelle varie sagome ci rivedo vasi sanguigni, connessioni cerebrali, scariche elettriche… è una piccola fissa personale.

Il Rock Progressivo Italiano dei Tacita Intesa è imprevedibile: riff aggressivi, ritmi incalzanti e passaggi spaziali, con la giusta dose di tempi dispari. Così descrivete, in breve, la vostra musica ed è quello che, condito da una buona dose di influenza settantiana (e non solo), si trova nei vostri lavori. Ma quali sono le “fonti” cui “attingete” in fase di composizione e, in generale, al netto di quanto già raccontato, qual è il processo creativo che c’è dietro ogni vostra creazione?

T.C.: Posso fare alcuni esempi pratici: il bridge di basso su “Eureka!” è direttamente ispirato da groove in tempi dispari udibili su brani degli Area come “Arbeit macht frei” o “Gerontocrazia”; il mood di “Corona” ricorda molto “Breath” dei Pink Floyd;  il riff principale di “Onda Nera” si ispira alle composizioni dei Calibro 35; mentre la parte iniziale di “Periodo Refrattario” è in 5/8 perché l’idea di “tempo industriale” ci venne da Howard Shore che ha scelto proprio questa metrica dispari per il tema di Isengard, ne La Compagnia dell’Anello.

A.G.: Riguardo ai tempi dispari nelle nostre canzoni vorrei citare “Ritmo Sbilenco” degli Elio e le Storie Tese: “Dov’è scritto, dov’è scritto? / Che scalare le classifiche / Non sia consentito alle canzoni / Che non hanno un tempo dritto”. Ecco, a noi i tempi dispari ci vengono in maniera naturale (anche le improvvisazioni partono da sé con metriche “sbilenche”) e non sono stranamente usati tanto spesso nella musica pop. Cerchiamo così di fare canzoni in uno stile Progressive ma più orecchiabile, quasi pop, e i tempi dispari ci sembrano dare in questo una vena di originalità.

Una cosa importante è anche quella di avere i gusti diversi tra di noi, ciò permette di avere un ventaglio di influenze molto ampio.

Per quanto riguarda da dove io, personalmente, attingo l’ispirazione, seppure ai tempi dei primi dischi (soprattutto del primo) fossi un serio patito di Progressive Rock (Rush, Yes, Genesis, ecc.), mi sto accorgendo sempre di più che la musica va apprezzata tutta e a pieno, senza barriere o limiti auto-imposti. Per cui, al momento, cerco di ricevere ispirazione da ogni stile musicale. Non nego, però, la mia passione per il jazz, che cerco di studiare a fondo nel mio tempo libero. Posso aggiungere anche un nome a cui sto cercando di ispirarmi per il suono della chitarra ultimamente? Ollie Halsall dei Patto, ha un suono micidiale, soprattutto nel (breve) assolo di “You, You Point Your Finger”.

D.S.: Le nostre influenze, ad un orecchio attento, sicuramente non saranno sfuggite, suoniamo quello che ci piace, ascoltiamo quello che ci piace, e da una cosa nasce l’altra. C’è chi dice che l’arte sta nel mascherare le proprie fonti di ispirazione, noi non ce ne siamo preoccupati più di tanto.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

T.C.: Da musicista amatoriale posso solo ringraziare il web e la tecnologia, senza di essa oggi è impossibile pensare a qualsiasi tipo di promozione, e i social permettono a tanti appassionati di musica dello stesso genere di incontrarsi e confrontarsi virtualmente; il Progressive poi, che gode di una nicchia di fan diffusa per il globo, trae immenso beneficio da pagine e canali dedicati alla nostra amata musica.

D.S.: Io credo che i social siano un’arma a doppio taglio, se usati consciamente sono uno strumento fondamentale per farsi conoscere e rimanere a galla nell’immenso mare delle informazioni, un mare nel quale, però, è sempre più difficile distinguere una goccia dall’altra. Forse la possibilità che tutti hanno di pubblicare i propri lavori ha diluito la quantità di quelli che veramente hanno peso.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o, nel caso di “Faro”, ad una campagna di raccolta fondi online?

T.C.: Oggi chiunque può fare un disco, e troppo spesso solo grazie alla disponibilità economica. Se da una parte è meraviglioso che chiunque possa prodursi un album da solo in casa, dall’altra ciò genera una quantità tale di artisti che è difficile da gestire, e spesso con proposte musicali poco valide, ma lo stesso sponsorizzate e pompate moltissimo grazie a ingenti investimenti.

Se posso essere nostalgico, forse era meglio quando esistevano dei filtri naturali e la produzione esterna (Demo-> interesse del produttore-> registrazione in studio-> promozione dell’etichetta), che permettevano solo ai migliori di poter essere ascoltati, senza che essi dovessero continuamente autoprodursi. Nel nostro caso specifico avevamo già investito molto nella produzione dell’album, e avevamo necessità di una mano finale per poterlo pubblicare; d’altronde ogni membro della band ha disponibilità economiche diverse e bisogna trovarsi d’accordo per rispetto di tutti.

Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via del crowdfunding e/o dell’autoproduzione?

T.C.: Il fatto è che molte band underground (quindi, in un certo senso, di “serie B”) hanno già un’etichetta a produrli, e una per il booking… quindi quelli come noi potrebbero essere definiti di “serie C”! Scherzi a parte, si sa che ci sono “fasce di importanza” anche nella musica, e noi sì, consigliamo questo metodo che alla fine è molto onesto e non fa altro che permettere una pre-ordinazione da parte dei fan.

A.G.: Se devo essere sincero a me personalmente nella musica avviene spesso il contrario. Talvolta apprezzo molto di più un disco autoprodotto rispetto ad uno prodotto da altri. Se un disco autoprodotto è fatto bene si vede: c’è cura nei dettagli e una libertà di stile che non riesco sempre a trovare in altri dischi di band affermate ed “etichettate”. Poi sarà che la passione per il Progressive porta sempre ad apprezzare nicchie e “perle rare” della musica… Comunque torno a dire che è meglio non precludere nulla all’ascolto!

D.S.: Molti artisti oggi di fama internazionale hanno esordito con dischi autoprodotti, credo che ormai sia uno stigma superato.

Sul fronte concerti, negli anni, non siete stati di certo immobili, e l’album “2015 Live Bootleg”, ad esempio, ne è una testimonianza. Ma, immagino, una delle più grandi soddisfazioni sotto questo punto di vista sia senza dubbio il tour giapponese del 2019. Come hanno fatto i Tacita Intesa a raggiungere il paese del Sol Levante? Come vi è sembrata la situazione musicale dall’altra parte del pianeta? E com’è stata la risposta del pubblico alla vostra proposta? C’è qualche aneddoto che vi va di condividere sull’esperienza giapponese?

T.C.: Il web ci ha aiutato! È grazie ad esso se le nostre canzoni sono arrivate in Asia, accolte dalla nutrita schiera di fan dello “Spaghetti Prog”. Là c’è una situazione molto diversa, i musicisti sono dei professionisti dell’hobby, e il nostro livello di preparazione rispetto al loro era quasi imbarazzante. Le altre band autoctone che abbiamo visto esibirsi con noi ci stupivano sempre per la qualità dell’esecuzione, pulita e impeccabile, e l’alto livello tecnico. Anche l’impianto audio e il suono che ne usciva era sempre incredibile, e la qualità audio sentita nei loro piccoli locali, alla stregua dell’acustica dei pub inglesi, è infinitamente superiore a quella udibile in Italia. Nonostante tutto noi mettevamo in atto il nostro show mediterraneo, colorato e originale, che risaltava nella fredda perfezione nipponica e ci garantiva un’enfasi del pubblico particolare. Quando eseguimmo “Impressioni di Settembre” andarono tutti in visibilio perché, diciamocelo, la “Carbonara come la cuciniamo noi” all’estero non la sanno fare, e per loro sentire quel brano leggendario suonato da connazionali della PFM fu una bella esperienza.

Una cosa che ci colpì fu la maniacale attenzione per la nostra esibizione: attenzione massima e sguardo sempre verso di noi, non una disattenzione, non una parola, niente birre… solo interesse per chi era sul palco. Alla fine dei concerti, poi, hanno assaltato il nostro banchino del merchandising, esigendo autografi e foto.

A.G.: Speriamo sia stato perché apprezzavano la nostra musica! Sembrerebbe proprio di sì, visti i complimenti in giapponese che ci hanno rifilato e le svariate foto, baci e abbracci (prima del fatidico Covid-19) con cui ci hanno salutato. Il popolo del Giappone ha una cultura eccezionale e si vede da ogni cosa che fanno: la fanno con cura e dedizione. Abbiamo suonato in piccoli locali ma con impianti seri e costosissimi, con fonici da paura che sapevano fare davvero bene il loro lavoro e si sentiva durante il concerto. In tutto questo, poi, il pubblico ha pagato il biglietto per entrare ai due concerti, e se abbiamo capito bene, questa è la norma in Giappone. Nonostante questo, i locali erano pieni e, come ha già detto Thomas, molti hanno pure acquistato del merchandising. Insomma la musica la supportano eccome in Giappone, mentre qua in Italia non abbiamo mai trovato così tanto “calore”… Anzi, sembra che regni l’opinione del “Se c’è un biglietto da pagare per una band emergente, meglio starsene a casa!”. Non fraintendermi però, in Italia abbiamo tante meravigliose realtà di festival gratuiti. Per citarne uno nella nostra città, il Mengo Music Fest di Arezzo è uno di questi… però è importante dare il giusto spazio e contributo anche alle band emergenti.

D.S.: I primi contatti con il Giappone li abbiamo avuti tramite social con il grandissimo Masaki che ha pavimentato la strada per questa piccola impresa personale, colonna morale del viaggio e finanziatore di cene assurde in ristoranti tipici giapponesi. Lo scozzo con una cultura diversa è stato grande, rimanendo in ambito strettamente musicale non mi era mai capitato di suonare davanti ad un pubblico così attento e concentrato su ciò che stai suonando, è stato sia molto soddisfacente che, al contempo, snervante secondo me. Un’altra cosa che mi ha colpito è stata l’incredibile capacità tecnica delle altre band, suonavano come dei professionisti ed era tutta gente che di giorno lavora in ufficio o giù di lì (senza nulla togliere agli impiegati). A parte un iniziale freddezza di facciata tipicamente giapponese da parte del pubblico, post concerto ci hanno fatto una grande festa, magari incuriositi dalla novità dello straniero con i suoi modi di fare stranieri. È stato molto emozionante, peccato solo per la barriera linguistica, in pochi riescono a parlare esaustivamente in inglese. Buono il Ramen, bella Tokyo, non vedo l’ora di tornarci.

E qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà?

A.G.: Nel corso della nostra “carriera” abbiamo avuto modo di confrontarci con altre realtà Progressive, principalmente via web. Mi ricordo, ad esempio, di uno scambio di CD e idee con i Quarto Vuoto ai tempi del primo disco. Abbiamo anche avuto qualche contatto con la Lizard Records per la ristampa del primo disco: l’etichetta stampa album di molte band emergenti del Prog. Altro esempio: ad agosto 2020 abbiamo fatto due concerti via streaming con gli amici Basta! e Ivory Tower (da Kobe in Giappone)! Si sono rivelati due discreti successi, da ripetere. Li potete trovare su YouTube sotto il nome di “The Progressive Rock Show from Italy and Japan Vol. 1 – Day 1” e “Day 2”.

In generale qualche band emergente Prog in Italia si trova (ma tu sarai più esperto di noi), ma nulla in confronto alle band indie del momento chiaramente, e quelle che mi hanno appassionato le conto con una mano. C’è una band che a suo tempo mi appassionò molto, ma non so se continuano ancora a suonare, e sono i Bill in the Tea con l’album “Big Tree”.

Esulando per un attimo dal mondo Tacita Intesa e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nel quotidiano?

D.B.: Per quanto mi riguarda, non ho altre passioni tanto forti come quella per la musica, alla quale fondamentalmente dedico la maggior parte del tempo libero che ho.

T.C.: Io sfogo le mie manie percussive suonando la batteria in una band rock-demenziale, i Sexypenta: mi diverto tantissimo facendomi grasse risate grazie a testi che parlano di insalata, maiali e susine.

A.G.: Io sto conseguendo un dottorato in Fisica Astroparticellare alla SISSA di Trieste. Fisica è una materia che, prima di essere un lavoro, o una materia di studio, è una passione ed è impossibile negare che questa sia preponderante anche nella mia vita artistica. Poi, visto che la Fisica Astroparticellare tratta (detta in maniera molto sintetica) di come le particelle subatomiche si comportano, anzi si sono comportate, nel corso della storia dell’Universo, capisci bene che c’è tanto fascino (oltre ad ingenti calcoli al PC) sia dal mondo macroscopico della cosmologia, sia da quello microscopico della fisica quantistica. Molta ispirazione viene da quello che studio ogni giorno.

D.S.: Io, come ho già detto, mi diletto nel disegno di tanto in tanto e di recente mi sono appassionato al video editing. Tutti i contenuti video che trovate sui nostri social sono realizzati da me, inclusa la serie in otto episodi del nostro viaggio in Giappone. Inoltre, so lavorare il ferro e il legno, nel mio laboratorio realizzo manufatti di vario genere. Diciamo che nel tempo libero so come tenere la mente occupata.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

D.B.: Io, senza dubbio, sono stato molto condizionato dal rapporto di amicizia che si è instaurato con i ragazzi e dalla musica che abbiamo creato assieme. Prima di entrare a far parte dei Tacita Intesa, il Progressive Rock non sapevo neanche dove stesse di casa, ero senza dubbio di indole più punk/hard rock.
Nonostante questo, gli anni passati assieme hanno sensibilmente cambiato i miei ascolti, il che mi ha allontanato un po’ da quei gruppi che hanno caratterizzato il mio primo approccio alla musica, quindi sicuramente collocherei sul podio i Genesis, assieme all’ottima compagnia dei Rush, e poi, per colpa di Alessandro, non posso non chiamare in causa gli Elio e le Storie Tese.

T.C.: Io sono costantemente alla ricerca di musiche mai sentite e passo settimane intere incentrato su un artista o un album in particolare; per esempio, nelle ultime settimane ho approfondito un album dei Greta Van Fleet, uno di Fabrizio De André, uno dei The Black Keys e la “Sinfonia 40” di Mozart… E tutti, in modo diverso, mi hanno emozionato.

Tornando al podio, nessuna band mi ha mai colpito come i Black Sabbath, specie lo stile di suonare il basso: primo posto! Al secondo, invece, metto i Nightwish per le fantastiche melodie e atmosfere trascendentali; mentre al terzo metto i Deep Purple che sono geni indiscussi.

A.G.: È difficile fare un podio di gusti musicali perché dipende molto dal periodo e dal momento… però ci provo cercando di fare una storia dei miei ascolti principali: ho iniziato dal rock/heavy metal più grezzo di Black Sabbath e Deep Purple. Poi ho cercato qualcosa di più colto nei Rush, Yes, Genesis. Nel Prog la scena che mi ha sempre affascinato di più è quella canterburyana… per cui nel podio posiziono i Caravan… anche se sto dimenticando i Supertramp, con il loro Crossover Prog incantevole… anche loro nel podio. Poi ultimamente è arrivato quel “pazzoide” di Steven Wilson con gli ultimi album stratosferici… ma no non lo metto nel podio. Ok, dai, scelgo una band di nicchia: nel podio inserisco i Patto. Ne ho inserite tre giusto? Se me lo chiedessi di nuovo domani sarebbero diverse.

Non dico gli Elio e le Storie Tese perché loro, più che una band da podio, sono una costante vitale, sempre presenti da quando li ho scoperti e non ne posso mai fare a meno, ma esulano da ogni classifica.

Ok, già che ci sono ti dico che sono in fissa con un musical hip-hop/rap che ho scoperto qualche settimana fa. Mai visto “Hamilton” di Lin-Manuel Miranda? Ha delle musiche pazzesche.

D.S.: Un podio che si rispetti credo debba mutare di continuo, in genere mi appassiono un sacco ad una band o un artista in particolare per un periodo finché non l’ho assimilato a livello molecolare e poi passo ad altro. Se proprio vogliamo tirare giù dei nomi, nel mio cuore sicuramente hanno un posto speciale i Kraftwerk, mi hanno fatto deragliare dai binari del Progressive e fatto scoprire tutta un’altra faccia della musica che non immaginavo esistesse, da lì è nata in automatico tutta la passione che ho per l’elettronica dei primi tempi, quando un giorno cascò dal cielo il primo sintetizzatore e ancora non si sapeva bene come utilizzarlo.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

T.C.: “Life and time of Scrooge McDuck” di Don Rosa: la versione umanizzata dell’ascesa e caduta di Zio Paperone, una storia a fumetti ma piena di messaggi forti e capace di farti emozionare.

A.G.: Io sono un appassionato di fantascienza e ci tengo a consigliare il libro “Solaris” di Stanislaw Lem, alla quale la nostra omonima canzone è ispirata. È uno dei libri di fantascienza migliori che abbia mai letto.

D.S.: Ritornando al discorso del Giappone, da appassionato di Anime e Manga vado pazzo per i lavori di Hiroyuki Imaishi, uno dei pochi che riesce a fondere mainstream a follia creativa pura, fa cose che si possono vedere solo in quel tipo di media. Un pensiero poi va a Miura Kentaro, tristemente scomparso di recente (il 6 maggio 2021), il suo Berserk è una delle storie più avvincenti che abbia mai letto, solo per stomaci forti.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immagini il futuro della musica nel nostro paese?

T.C.: Forse questa pausa forzata ha aiutato molti a riflettere sulla propria musica. Io, per esempio, ho capito che, ahimè, nei social network le cover sono più appetibili degli inediti.

A.G.: La musica ripartirà più forte di prima e ci sarà moltissima voglia di andare ai concerti e scatenarsi… si vede già da ora! Per cui nessun timore per il futuro!

D.S.: L’araba fenice risorge sempre dalle sue ceneri, la ripartenza sarà spontanea e più forte che mai.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi (quasi) dieci anni di attività?

T.C.: Posso ringraziare i miei genitori per aver assecondato il mio desiderio di comprare una chitarra, ma non elettrica come volevo io, bensì una classica entry-level: grazie a questa imposizione, in un anno capii che la mia vera passione era il basso elettrico.

A.G.: Abbiamo suonato in un rimorchio di un camion chiamato Spacetruck (in onore della canzone “Space Truckin’” dei Deep Purple) per più di cinque anni e adesso in una serra, la Greenhouse di Davide… non ti basta come aneddoto? A parte gli scherzi, ricordiamo in tutto questo con affetto il nostro caro amico ed ex-batterista Pasquale Balzano, che recentemente, il 6 maggio 2021, è venuto a mancare. Come detto in apertura, fu lui a dare nome alla band. Un saluto, caro Balza, sei nei nostri cuori e in tutti i CD del primo album sparsi per il globo.

D.S.: Oggi come mai, mi va di ricordare Pasquale, sono troppi gli aneddoti a suo riguardo, troppi i ricordi e le cose che ci ha insegnato, un abbraccio.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei Tacita Intesa che vi è possibile anticipare?

T.C.: La nostra musica cambierà ancora, in linea con le nostre idee e gusti. Tenete d’occhio le pagine per ogni news!

A.G.: Al momento siamo tornati in sala prove a comporre nuovi brani e non vediamo l’ora di poterli portare sul palco. Il futuro prossimo ci attende con la finale regionale Toscana di Sanremo Rock e qualche altra data in zona. Seguiteci sui nostri social per restare aggiornati!

Grazie mille ragazzi!                                   

D.B.: Grazie Sears! No dai, battute a parte, grazie a te!!!

T.C.: Grazie a te, speriamo di vederci ad un concerto prima o poi, ciao!

A.G.: Grazie Donato! Ciao!!!

D.S.: Ciao a tutti!

(Giugno, 2021 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 2. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)

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