Califfi, I – Fiore di metallo

I CALIFFI

Fiore di metallo (1973)

Cetra

 

Non una rarità nel panorama musicale del nostro paese vedere un artista o una band iniziare, intervallare o proseguire la propria carriera attraversando i verdi prati del prog. Gli esempi sono vari, dai Giganti con “Terra in bocca” a Riccardo Cocciante e il suo “Mu”, passando per Dik Dik e Alan Sorrenti. Della stessa categoria fanno parte I Califfi con l’album Fiore di metallo.

Va innanzitutto detto che I Califfi “progressivi” vedono un consistente cambio di formazione rispetto alle origini. Infatti, di quel gruppo, formato da Franco Boldrini (basso e voce), Carlo Felice Marcovecchio (batteria e voce solista, poi confluito nei Campo di Marte), Paolo Tofani (chitarra, poi negli Area) e Giacomo Romoli (tastiere), resta solo il primo (che nel frattempo “imbraccia” anche il synth). Per il nuovo progetto Boldrini chiama il fratello Maurizio (batteria, percussioni e voce), Vincenzo Amadei (chitarra e voce) e Sandro Cinotti (piano, organo e synth).

L’avvento del sound britannico (soprattutto gli Emerson, Lake and Palmer) affascina molto Franco Boldrini, il quale decide di svoltare verso sonorità più “ardite” e verso l’utilizzo di synth come il Moog (presente nell’album).

Si arriva così al contratto con la Fonit-Cetra e a Fiore di metallo. Nell’album, registrato in soli quindici giorni, si alternano momenti di puro progressive (Varius è una gemma) con altri totalmente debitori verso il periodo beat ed altri ancora in cui si notano elementi più hard che vanno dai Gleemen ai Deep Purple. Il livello tecnico della band è notevole e lo si nota soprattutto nei brani più “tirati”, con Cinotti alle tastiere e Amadei alla chitarra spesso sugli scudi.

Le motivazioni di questo lavoro dall’anima camaleontica sono ben spiegate da Maurizio Boldrini nell’intervista rilasciata a Francesco Fabbri nel 1991: intendevamo volutamente proporre al pubblico una parte di noi un po’ più dolce e un’altra dotata di maggiore vivacità”.

Come spesso accaduto, purtroppo, il disco ha poca visibilità e dunque poco successo.

Nel mio passato. Il brano d’apertura rappresenta perfettamente il pensiero espresso da Maurizio Boldrini nell’intervista, racchiudendo in poco più di cinque minuti la duplice anima della band e dell’album. Troviamo infatti l’alternarsi di frammenti leggeri, quasi beat, in cui è la voce a farla da padrone, con altri puramente prog, con cavalcate di chitarra distorta e organo (notevoli le accelerate di Amadei e Cinotti) ben supportati dalla sezione ritmica. Anche il synth si ritaglia il suo spazio lungo il percorso e sul finale ricorda un po’ la PFM.

Il riff iniziale di Fiore finto, fiore di metallo è davvero hard e richiama da lontano i Deep Purple. L’intero brano poi viaggia su ritmi alquanto sostenuti grazie alla batteria e al basso dei fratelli Boldrini e al sempre presente Amadei con i suoi riff e soli.

Con Alleluia gente… si passa alla pura melodia. Amadei “sguaina” la chitarra acustica e inizia un percorso molto lieve e sognante (notare però il passaggio intorno ai venti secondi: “Stairway to Heaven”?!). Con lui troviamo un Maurizio Boldrini alle percussioni mai invadente, giochi di synth e la voce che si incastra bene nell’atmosfera creata dalla band. Il ritornello, con i suoi cori, ci riporta direttamente agli anni ’60.

Varius, insieme alla finale Campane, è il punto più alto e più progressivo dell’album. È senza dubbio Cinotti il protagonista assoluto del brano. Il primo minuto e mezzo è interamente occupato dalle sue evoluzioni all’organo, un Rick Van Der Linden degli Ekseption che crea atmosfere alla Antonius Rex. Poi, una fuga da far impallidire i grandi tastieristi progressivi, lascia senza fiato (Boldrini alla batteria riesce comunque a stargli dietro brillantemente). E dopo un frammento di piano alla Banco, e una ripresa aggressiva, I Califfi si gettano a capofitto nel puro jazz-prog dimostrando capacità tecniche e d’improvvisazione di notevole caratura.

Dopo aver sfoderato le armi migliori, I Califfi si prendono una “pausa” con Felicità, sorriso e pianto ed emerge pienamente il lato dolce e malinconico della band. Siamo in piena atmosfera beat con il brano debitore, soprattutto nel ritornello, verso i Dik Dik.

Con A piedi scalzi invece ci troviamo nel “limbo” che separa il clima beat dei ’60 dalle prime sortite verso le nuove sonorità provenienti da oltremanica. Nel brano possiamo cogliere molte assonanze con l’unico lavoro dei Gleemen, dal ritmo abbastanza sostenuto al canto che ci riporta decisamente nel decennio precedente, passando dalla chitarra di Amadei che racchiude l’essenza di “Bambi” Fossati. Alcuni stacchi hard risultano comunque interessanti.

Un po’ come Felicità, sorriso e pianto anche Madre, domani… tocca corde leggere, con lievi arpeggi di chitarra e canti delicati. A differenza del brano citato, però, la band inserisce alcuni stacchi, affidati soprattutto al synth, che vanno a “rompere” la linearità della melodia.

Col vento nei capelli ripropone l’anima “hard” della band, come già fatto in Fiore finto, fiore di metallo e A piedi scalzi. Sono Amadei e Maurizio Boldrini i trascinatori, il primo con continui riff e assoli rockeggianti e il secondo con il suo insistente “battere”. Anche in questo caso cantato e cori ci riportano indietro nel tempo.

Campane, il brano che chiude l’album, alza di molto il livello creativo della band. È il synth l’indiscusso protagonista. Nei segmenti più scuri e coinvolgenti, tra campane e atmosfere dark (ben rese da synth, piano e basso), sembra di scorgere i Goblin. Il clima cupo è inframmezzato da momenti più luminosi, dove troviamo il piano, resosi più delicato, ad accompagnare i giochi sintetici.

A detta di molti, se la band avesse realizzato un album seguendo il modello dei brani Varius e Campane (definite da Paolo Barotto tra i pezzi migliori in assoluto di tutto il progressivo italiano”), oggi Fiore di metallo sarebbe uno dei classici prog italiani. Chissà, forse sarebbe stato così, ma, rifacendoci nuovamente alle parole di Boldrini (intendevamo volutamente proporre al pubblico una parte di noi un po’ più dolce e un’altra dotata di maggiore vivacità”), possiamo dire che il loro obiettivo (non essere “proggers” tout court) sia stato pienamente raggiunto.

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