Panther & C. – Il Giusto Equilibrio

PANTHER & C.

Il Giusto Equilibrio (2017)

Black Widow Records

“Battere il ferro finché è caldo”: sarà stato forse questo il pensiero, pienamente condivisibile, che ha pervaso le menti dei Panther & C. dopo i meritati riconoscimenti seguiti all’esordio discografico del 2015. E allora ecco il bis: Il Giusto Equilibrio.

Confermati i 4/5 della line-up, con il solo avvicendamento alla batteria di Folco Fedele al posto di Stefano Alpa, Riccardo Mazzarini (chitarra), Mauro Serpe (voce, flauto), Alessandro La Corte (tastiere) e Giorgio Boleto (basso) si sono rimessi subito in gioco concretizzando un lavoro notevole, caratterizzato da frammenti genesisiani, passaggi che “tendono un orecchio” (e più) al prog sinfonico, momenti romantici alla Locanda delle Fate, idee attuali che affondano le radici nei ’70 (ma non completamente, sulla scia di quanto proposto da altri interessanti progetti italiani del nuovo millennio, come i Marchesi Scamorza), tutto condito da capacità tecniche, passione, liriche interessanti dalla fisionomia poetica in cerca del giusto equilibrio e un artwork, creato da Gigi Zautredi Boleto ed Enzo Serpe, enigmatico all’esterno e intelligentemente “elementare” al suo interno.

Avvio d’impatto per …e continua ad essere…, brano che dà il via a Il Giusto Equilibrio, con una sontuosa atmosfera medievaleggiante che viene minata dalle deflagrazioni di Mazzarini e Fedele, prima che lo stesso chitarrista prenda il largo con un ispirato assolo che s’intreccia brillantemente con le “spire” di La Corte. Anche la corposa voce di Serpe partecipa alla festa. Poi il brano cala di giri, si fa pacato e magnetico, con il flauto dello stesso Serpe che guida i compagni verso lidi bucolici, prima di veleggiare placidamente verso la conclusione.

Molto intenso e compatto il frammento iniziale di Giusto equilibrio, con il soffio alla Ian Anderson di Serpe a far la voce grossa, ben seguito soprattutto dal basso di Boleto, prima che Mazzarini parta in picchiata con il suo assolo alla McLaughlin. Tutto muta in vista dell’ingresso in scena della voce di Serpe: un clima rarefatto che lascia emergere totalmente il suo canto passionale. Nelle sue parole l’ammirazione per la natura, per la sua bellezza ma anche per la sua crudeltà. E questi sono solo i primi minuti. A seguire è un continuo saliscendi emotivo, una infinita serie di fotogrammi sonori che si susseguono, dai flebili richiami ai Marillion al sano prog settantiano, dalla poesia nocenziana alle sfuriate alla Olivieri dei tasti di La Corte, dalle cavalcate epiche ai passaggi vellutati o malinconici, con Serpe che partecipa volentieri alle “manovre”. Un brano che vale il “prezzo del biglietto”.

Dopo aver speso una mole incredibile di energia con l’episodio precedente, i Panther & C. si concedono una “pausa” con Oric, un brano dall’indole romantica incentrato soprattutto sul canto appassionato di Serpe e che parla di speranza riferita alle serene sensazioni che si potrebbero provare nel passaggio da una vita all’altra ([…] Tutto è semplice quassù, tutto splende / i ricordi non fanno più paura / e il mio essere leggero / non smette di girare / in un vortice eterno di solo amore). L’ordito che l’avvolge è molto tenero, giocato su morbidi arpeggi e tappeti eterei.

Tra passaggi dalle sonorità eighties, trame di chitarre “senza eccessi”, ritmiche blande e un carezzevole intervento di flauto, scorrono i primi minuti di Fuga dal Lago, episodio strumentale in cui si mette in equilibrio lo stato dell’uomo logorato dallo stress con la necessità di sfuggire dalla routine di tutti i giorni. Poi il brano si vivacizza, acquistando in ritmo e corposità, con l’intrigante dialogo tastiera/chitarra che si erge protagonista tra “luci e ombre”.

L’occhio del gabbiano. Dopo una partenza tesa ed “interlocutoria”, La Corte porta un po’ di luminosità al brano mentre Boleto e Fedele aggiungono una dose di ritmo, tutto funzionale al rientro di Serpe. Si respira tensione, soprattutto quando La Corte indossa i panni di Claudio Simonetti, mentre nell’assolo di Mazzarini c’è un velo di tristezza. Una serie di stati d’animo scuri che descrivono il volo e il “pensiero” di un gabbiano che sorvola New York quell’11 settembre ([…] Ali d’acciaio, un forte boato, / una nube di fumo, tutto è crollato / la gente che fugge, / la gente che grida aiuto. / Non riesco a capire / come può un volo portare la morte, / creare il dolore, / vi guardo dall’alto / e mi chiedo se questa è la vita […]). Un lungo passaggio space ed ipnotico realizzato dallo stesso La Corte spezza in due il lungo brano che riprende con il canto dal sentore New Trolls Atomic System, prima di nuove camaleontiche tessiture create da tastiere e chitarra e sorrette ottimamente dal duo ritmico che ci conducono verso la conclusione di un lavoro interessante e ben orchestrato.

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