Visionoir – The waving flame of oblivion

VISIONOIR

The waving flame of oblivion (2017)

Autoproduzione

Visionoir è il monicker dietro cui si cela, da vent’anni, il polistrumentista friulano Alessandro Sicur (chitarre, tastiere, sintetizzatori, basso, batteria). E sono proprio questi vent’anni (in realtà l’album racchiude materiale creato dal musicista tra il 2001 e il 2015) ad essere raccontati in The waving flame of oblivion, l’esordio discografico della one-man band.

L’opera contiene nel suo “caveau” nove quadri scuri, inquieti, caratterizzati da alcuni punti fermi come i riff possenti che “vestono” doom, l’elettronica dalle chiare tinte space, le tessiture gotiche e le virate prog metal, costanti che vengono mescolate, stravolte e arricchite da una sana sperimentazione. Non solo, Sicur impreziosisce il suo lavoro strumentale con l’inserimento di voci campionate del calibro di T.S. Eliot, Ezra Pound, Antonin Artaud e Dylan Thomas conferendo un elemento davvero suggestivo al tutto.

Non solo la musica ma anche le arti visive (fotografia in primis) fanno parte della vita di Alessandro Sicur (VisionArt) e un piccolo assaggio lo si trova nell’artwork “fiammeggiante” dell’album.

Distant KarmaVisionoir fa subito sul serio e fin dalle prime battute getta “fondamenta nere” cariche di tensione gobliniana, costruendovi sopra un edificio procedendo per livelli: solide ritmiche, distorsioni granitiche, elettronica kraftwerkiana. Un ordito che si fa intricatissimo con il trascorrere dei secondi sino a raggiungere un’atmosfera magnetica e scandinava, prima di riprendere quota.

Si prosegue con The Hollow Men. Il sample di T.S. Eliot che recita la poesia da cui il brano prende il titolo, avviluppato da possenti chitarre e lugubri tastiere, dà vita ad un clima inquietante che prende forza con i colpi netti della batteria attraccando in lidi prog metal. Una sorta di “nervosa quiete” sopraggiunge poco oltre metà percorso per poi aumentare nuovamente i giri lasciando ampio spazio alle asperità visionarie della triade chitarra/tastiera/ritmiche.

Una partenza quasi new wave, alla Litfiba degli esordi, e con un tocco orientalizzante ci accoglie in 7even. Poi le distorsioni “grattate” impongono una differente andatura chiamando a sé il “gruppo” che si fionda senza indugi in territori prog metal, mutando ancora forma nelle battute finali.

Come un’onda sinusoidale compare The discouraging doctrine of chances. Se i primi momenti appaiono piuttosto blandi (ma è solo apparenza, appunto), ecco manifestarsi una serie di scudisciate violente alla Tool guidate ottimamente dalle chitarre, con la costante presenza della voce di Ezra Pound che recita “Hugh Selwyn Mauberley (Part II)”. Si avanzerà così sino alla fine, con qualche “fuoripista” sporadico (vedi le tastiere “disturbate”).

Quasi riprendendo il tracciato concettuale del brano d’apertura, Shadowplay si sviluppa come un crescendo vorticoso, un arazzo nero i cui fili s’intrecciano col trascorrere dei secondi sino a deflagrare tra le note plumbee delle chitarre.

Molto fosco l’avvio di Electro-Choc, poi i graffi lenti e malinconici della chitarra di Sicur prendono il posto della voce campionata di Antonin Artaud, con la batteria che gradualmente intensifica i suoi battiti per poi decelerare. Tra alti e bassi ritmici l’elettronica e le distorsioni si muovono a proprio agio disegnando forme intricate ma monocromatiche (nere), con l’inserto vocale che compare e scompare recitando “Aliènation et magie noir”.

Un tocco fresco e romantico apre Coldwaves, prima che il vento elettronico spazzi via, almeno in parte, tale sensazione. Tutto si fa più denso e composito poco oltre, con gli “arzigogoli” di tastiera a guidare le mutevoli ritmiche e le non eccessive distorsioni, tutti partecipi nel creare un affresco dalle tinte post rock.

Malinconica ed evocativa la partenza di A few more steps, con le tastiere celestiali, le ritmiche contenute e l’assolo slow ad avvolgere cautamente la voce profonda di Dylan Thomas che recita “Lament”. Poi i suoni si fanno vacui, mentre in lontananza qualcosa affiora lentamente per poi appropriarsi della scena (per poco). La voce resterà in modo preponderante protagonista fondendosi ottimamente con la mestizia delle chitarre.

Si chiude con la lunga Godspeed Radio Galaxy (Bonus track). Le compatte distorsioni e i colpi netti (e variabili in fatto di velocità) di batteria sono il leit motiv doom dei primi minuti del brano, con un sottofondo arricchito da samples vocali e giochi elettronici. Più avanti tutto si addolcisce per poi svuotarsi e riprendere successivamente corpo con sprazzi teatrali avvolgenti e gotici che a tratti richiamano i teutonici Umbra et Imago.

Non è affatto semplice affrontare la sfida del “faccio tutto da solo” ma Sicur/Visionoir con The waving flame of oblivion dimostra di poter reggere il “colpo” senza patemi, con la consapevolezza di poter puntare ancora più in alto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *