Intervista a Roberto Vitelli – Ellesmere

Un caro benvenuto a Roberto Vitelli, compositore, polistrumentista, deus ex machina del progetto Ellesmere.

R.V.: Grazie per l’invito, piacere mio.

Iniziamo la nostra chiacchierata dalle origini. Quali sono i tuoi primissimi passi nel mondo della musica e i primi “amori”?

R.V.: Da semplice ascoltatore adolescente mi sono avvicinato alla musica dapprima tramite le colonne sonore e i 45 giri del pop allora in voga … al liceo, una volta iniziato a suonare, la passione sì è infiammata appresso al rock e a certa psichedelia, poi la scoperta del rock sinfonico e così via.

E come e quando nasce il progetto Ellesmere? Hai sentito sin da subito l’“esigenza” di esserne l’“unico custode” o l’idea iniziale era quella di creare una band? E cosa significa “Ellesmere”?

R.V.: Militavo nei Taproban, ma avevo un baule di idee e composizioni precedenti, già pronte e arrangiate, ed alle quali mi sarebbe piaciuto trovare adeguata sistemazione. Gli “Ellesmere” in buona sostanza sono antecedenti al mio ingresso nei Taproban e nascono originariamente come progetto polistrumentale, alla Mike Oldfield per intenderci. Subito dopo la pubblicazione dell’album “Strigma”, e prima della realizzazione di “Per Aspera ad Astra”, si sono verificate le condizioni ideali ed è stato il momento giusto per dare il via a questa idea il cui nome deriva dall’isola a Nord del Canada.

Il 2015 è l’anno di “Les Chateaux de la Loire”, il primo album targato Ellesmere, una lunga suite fatta di atmosfere acustiche e sognanti, in cui ogni movimento è dedicato ad uno degli antichi castelli francesi che risiedono lungo il fiume della Loira. Mi racconti la sua genesi?

R.V.: Con piacere. Avevo da poco effettuato un viaggio in quelle stupende lande e affascinato dai paesaggi francesi, dai castelli medioevali, dalla natura incontaminata e favolistica, una volta rientrato in Italia, e presa in mano la chitarra, l’ispirazione si è impossessata di me e come per magia ho iniziato a fischiettare una melodia, creare accordi, insomma in poco tempo avevo buttato giù l’intro, il tema e in meno di una settimana avevo completato circa 30 minuti di musica. Il resto è stato conseguenziale e facile.

Da archeologo medievista e appassionato di arte, architettura antica, fortificazioni e castelli, mi ha affascinato davvero molto la scelta del tema dell’album. Qual è, dunque, il tuo legame con tali argomenti e come mai la scelta è caduta su uno tanto specifico quali i castelli della Loira?

R.V.: Ti ho in parte risposto, ma voglio aggiungere che quel viaggio di cui ti accennavo fu un libero itinerario, assolutamente non inserito in alcun tour preprogrammato, una piacevole scoperta inaspettata, tanto è vero che, visitato un castello volevo vederne subito un altro, un altro ancora e così via. Ero cresciuto con l’immaginario che tali bellezze fossero tipicamente anglosassoni o nordiche, mentre invece i veri castelli romantici si trovano in Francia. E lo dico avendo visitato anche quelli Germanici, più austeri e freddi, e quelli Inglesi, misteriosi, diroccati ed oscuri.

E come va interpretato l’inserimento delle due bonus tracks “The Ancient Samovar” e “Wintry Afternoon” in coda all’album?

R.V.: Si tratta di due composizioni più vecchie, che ho sentito in tema con l’atmosfera dell’album. La prima addirittura risale agli anni delle scuole superiori ed è totalmente acustica (alla 12 corde), mentre la seconda è la mia prima composizione alle tastiere in assoluto che è stata ben interpretata e si pone quale giusta conclusione dell’intero CD, una vera e propria “outro” fungendo anche da link col successivo. Tra l’altro, Luciano Regoli, che ha cantato tutta la suite dei Castelli, è stata la scelta più indicata, direi obbligata, anche per “The Ancient Samovar”.

Il 2018 ti vede tornare con “Ellesmere II / From Sea and Beyond”, concept album che affronta il complesso rapporto tra uomo e mare, la curiosità e la paura per l’ignoto, l’interesse dell’uomo per l’avventura e il viaggio. Com’è nato e si è sviluppato questo secondo lavoro?

R.V.: Dopo “Les Chateaux de la Loire” avevo voglia di esplorare territori musicali differenti, anche se tutti mi avvertivano che sarebbe stato un po’ azzardato spingermi troppo oltre, soprattutto per evitare di correre il rischio di deludere o perdere i fans che avevano apprezzato il primo lavoro. Non ho dato molto retta a questi consigli – per fortuna – e, per nulla preoccupato di poter spiazzare coloro che avevano amato “Les Chateaux”, mi sono imbarcato in questa nuova impresa. Tutti i fiumi portano al mare e verso l’immenso ignoto e così è stato per me, passando da un’ispirazione ad un’altra.

Rispetto a “Les Chateaux de la Loire”, le atmosfere di “Ellesmere II” sono meno acustiche e sognanti ma più energiche ed articolate. A cos’è dovuto questo “cambio di passo”? E quali sono, in definitiva, e secondo il tuo punto di vista, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i due album? Il tuo modo di creare musica, negli anni, ha subito dei tangibili “cambi di rotta” o sei rimasto fedele alle origini?

R.V.: Amo molto le chitarre, ma sono e nasco bassista. Coi Taproban avevo molto spazio anche come solista e da sempre suono le 6 e 12 corde, questa volta, però, volevo ritornare al mio strumento base. Inoltre, sono un grande appassionato dei Rush e nelle precedenti incarnazioni embrionali degli Ellesmere, sempre un trio, suonavo anche le tastiere, cosa che ho voluto riprendere a fare in questo secondo album. La musica ne ha quindi automaticamente risentito. Il marchio di fabbrica però, ritengo, sia rimasto lo stesso, soprattutto la tensione melodica. Quando compongo canticchio sempre sulle sequenze degli accordi e poi costruisco i passaggi armonici. È sempre rock, a volte suonato con strumenti acustici, a volte più duro in stile power trio. Ti svelo, con un po’ di evidente orgoglio, che buona parte delle linee guida delle parti chitarristiche per questo secondo album le avevo suonate e registrate proprio io in versione demo, linee soliste che poi sono state magnificamente reinterpretate ed arrangiate dagli ospiti. Questa volta non ho voluto però occuparmi delle chitarre (salvo l’arpeggiato presente su “Runaway”), per meglio concentrarmi di proposito sulle tastiere, territorio un po’ al limite delle mie possibilità esecutive. Laddove il primo album, quindi, suona bucolico e romantico, il secondo è elettrico e sinfonico, simile ma più espressivo nei chiaroscuri e nella possanza sonora. Ma, come dicevo, il mio modo di comporre è rimasto più o meno invariato negli anni, anche se talvolta può risentire dallo strumento che imbraccio o che suono o utilizzo per comporre.

I due lavori hanno alcuni elementi in comune che mi piacerebbe “sviscerare” con te. In primis l’incredibile numero di ospiti illustri. John Hackett, Luciano Regoli, Anthony Phillips, Trey Gunn, David Jackson, Marco Bernard, Daniele Pomo e tanti altri: come nascono le singole collaborazioni e come si riesce, in pratica, a “convogliare” tutte le loro qualità e le loro energie nei tuoi album?

R.V.: In realtà è più facile di quello che possa apparire. Luciano Regoli, che apprezzavo già prima di conoscerlo personalmente, ebbi modo, ad esempio, di incontrarlo e di suonarci assieme tramite un’amicizia comune ed in quell’occasione provammo assieme il “Il Cambiamento”, dal suo album “Il Pittore Volante” della NRRR, ed altri classici degli Zeppelin e dei Free in uno splendido pomeriggio estivo. Parlando scoprimmo di avere molti punti in comune e qualche tempo dopo gli proposi di cantare sul mio album, che nel frattempo aveva ascoltato in fase embrionale, e ne fu subito lieto ed entusiasta. Essendo un fenomenale pittore fu quasi naturale chiedergli se volesse occuparsi anche graficamente della cover e così magnificamente fece.

John Hackett, che ammiravo da tempo, oltre che sui dischi soprattutto dal famoso Musikladen live 1978 assieme al fratello Steve, lo incontrai invece prima di una sua esibizione vicino Roma: fu un incontro gradevolissimo e in quella sede conobbi anche David Jackson.

Con Marco Bernard dei finnici The Samurai of Prog ero entrato in contatto ai tempi nei quali militavo nei Taproban e, oltre a suonare con questi in un suo progetto chiamato “Decameron pt. III”, ebbi l’occasione di includere nel contempo anche un brano Ellesmere nello stesso album, assieme sempre a Luciano Regoli e Pericle Sponzilli della Reale Accademia di Musica col quale instaurai una bella collaborazione. In questo frangente conobbi anche il caro Fabio Liberatori, già Stadio (ora anche lui R.A.M.). E potrei andare avanti così. Il riuscire a “convogliare le loro qualità” come mi domandi, in realtà, è altrettanto facile e naturale: il primo album acustico e bucolico necessitava di uno strumento lead che eseguisse le melodie composte e da subito pensai al flauto. Il pensiero andò subito a John. Il secondo album, più energetico e rock, aveva la necessità di musicisti più orientati in questa direzione, seppur romantici e melodici nello stesso tempo, e così Keith More degli Arena, o Alan Benjamin degli americani Advent furono una scelta quasi obbligata. Con Brett Kull degli Echolyn poi avevo già incrociato i percorsi musicali sul Brano “Tigers” dell’album “On We Sail” dei The Samurai of Prog. E ho avuto anche il piacere di ricambiare la cortesia col caro Marco Bernard che ha suonato sul brano “Ridge Fanfare”.

Nel frattempo avevo suonato il basso su “The Rome Pro(g)ject III” dell’amico Vincenzo Ricca, incrociandomi questa volta con Steve Hackett, David Cross, David Jackson, ed ancora con John Hackett.

Una parola in più fammela spendere per il grande Davy O’ List (The Nice, Roxy Music, Bryan Ferry, The Attack, ecc.), col quale è nata una eccezionale collaborazione che mi ha portato a entrare a far parte della sua band (unico italiano), incidere sul suo nuovo album, ed esibirmi nel 2018 in Galles nel prestigioso HRH Prog Fest. Perdonami lo scatto d’orgoglio, ma suonare con un grande del genere per me è stata un’esperienza eccezionale, vivere fianco a fianco a chi era amico di Hendrix, a chi ha addirittura sostituito Syd Barrett nel famoso tour del 1967. Ti potrei raccontare svariati retroscena di quegli anni ruggenti di cui sono venuto a conoscenza e delle memorabilia che ho visto, ma ovviamente non è adesso possibile.

Altro elemento di spicco in comune è la parte grafica dei due album, creata rispettivamente da Luciano Regoli e Colin Elgie. Ti va di raccontare qualcosa sulle due strepitose immagini che troviamo sulle copertine?

R.V.: Luciano è un mostro di bravura tecnica e creativa, quando gli chiesi se potesse realizzarmi la cover gli diedi pochissime indicazioni lasciandogli così ampia libertà artistica e, neppure a farlo apposta, realizzò quella splendida opera proprio come avrei voluto io, scegliendo il più bel castello in assoluto che avevo visitato (Chambord) quasi leggendomi telepaticamente nella mente. Non solo: devi sapere che mi ero perduto dentro una foresta di alberi dal fusto altissimo, era l’imbrunire, non avevo il navigatore con me, ero stanco morto dal guidare e all’improvviso la vegetazione si aprì e da una radura mi apparve il castello. Ma come diavolo ha fatto Luciano a rappresentare questa scena se la conoscevo soltanto io e non gliela avevo riferita? Un genio paranormale sul serio.

Colin, dal suo canto, è un artista altrettanto fantastico, con caratteristiche evolutesi nel corso degli anni, utilizzando tecniche all’avanguardia ma mantenendo immutati il gusto e l’abilità dei suoi lavori con i Genesis (“Trick of the Tail”, “Wind and Wuthering”), Brand X (“Product”), Pink Floyd (“Nice Pair”), Black Sabbath (“Tecnical Ecstasy”), ecc. Questa volta, con qualche indicazione da parte nostra, ha realizzato una fantastica cover rappresentando e riassumendo alla perfezione tutti i temi e i titoli delle songs contenute nel disco.

Entrambi i lavori sono usciti per AMS Records. Come nasce il rapporto con l’etichetta?

R.V.: Ho sempre apprezzato le edizioni e stampe della BTF e quando mi hanno consigliato di optare, tra le altre, per essa non ho avuto la minima esitazione, anzi lo continuo a ritenere un vero onore. Massima libertà artistica, ottimo supporto, che come vedi tutt’ora persiste, e qui colgo proprio l’occasione per ringraziare pubblicamente il boss Matthias Scheller.

So che è in arrivo il nuovo album. Ti va di anticipare qualcosa? Il “trittico” concept album/ospiti illustri/artwork artistico sarà rispettato ancora una volta?

R.V.: Devo ammettere che anche tu sei dotato di ottime P.E.S., complimenti… scherzi a parte, sì anche questa volta rispettiamo la regola. La cover è opera del grandissimo illustratore degli album degli Eloy, dei Magnum, degli Asia, ecc. Avrai capito ovviamente di chi si tratta, senza che te ne faccia il nome. Il concept prosegue il viaggio che, dopo aver seguito il percorso del fiume Loira, essere giunti alla distesa marina e da qui aver proseguito oltre, va verso l’infinito immaginario ai confini del tempo. Il tutto vagamente ispirato dalle iper-avventure di un character fantasy (altro non posso anticipare, perdonami) rappresentato in copertina e che tu sicuramente riconoscerai.

Facciamo un passo indietro. Nel 2011 entri a far parte dei Taproban. Come prende corpo la collaborazione con il progetto di Gianluca De Rossi?

R.V.: Conosciutici casualmente a fine 2010, nasce subito una profonda intesa musicale tra noi. In quegli anni Gianluca collaborava con Carlo Bordini (Rustichelli & Bordini, Cherry Five) e cercava un bassista. Dopo alcune prove assieme, pensò contestualmente di ridare vita al progetto Taproban che all’epoca era in stand by. Il resto è storia come si suol dire.

Nel 2013 esce “Strigma”, lavoro che chiude la quadrilogia degli Elementi ispirandosi all’elemento del Fuoco, mentre, nel 2017, è la volta di “Per Aspera ad Astra”, album che ripropone, con una nuova “lettura”, brani già presenti nel secondo e nel terzo album dei Taproban, arricchito da alcuni inediti. Mi parli dei due album e di quanto Roberto Vitelli c’è in essi?

R.V.: Non essendo più in formazione mi limiterò sinteticamente all’essenziale. La prima canzone di “Strigma”, “Nesia al Notturno Congresso delle Streghe”, fino al minuto 7.10 circa è farina del mio sacco, arrangiata ovviamente da tutti, e così infatti è registrata alla S.I.A.E.; idem l’assolo di chitarra a 11.30 su “La Porta nel Buio” e il solo di basso fretless; altre cosine sparse qua e là e idee ritmiche su tutto il resto dell’album, pensate e realizzate assieme al batterista Francesco Pandico.

Su “Per Aspera ad Astra” ho arrangiato poi il tema della suite di Gianluca fischiettandolo e ne è uscita fuori “Fragments of Life”. Gli arpeggi di “Nexus” e “Diana” (nonché lo slap bass su quest’ultima) e l’assolo di chitarra su “Agata Lost in the Mirror Whale” sono ancora miei apporti personali. Tutte le composizioni di questo secondo album, tengo però a precisare, sono di De Rossi.

Due album, diversi concerti, la partecipazione alla raccolta “Decameron – Ten Days in 100 Novellas – Part III” con il brano “Il Sogno, la Bestia, la Ritrosa”: la tua attività con i Taproban è piuttosto densa. Come mai, però, nel 2017 decidi di lasciare il progetto per dedicarti esclusivamente ad Ellesmere?

R.V.: Le cose mutano, si evolvono in altre direzioni e talvolta possono anche finire col divergere. E lo dico senza voler essere a tutti i costi diplomatico: i Taproban sono e rimangono sempre, in ogni loro formazione succedutasi nel tempo, un grande gruppo della scena progressiva romana.

“Exegi Monvmentvm Aere Perennivs” di The Rome Pro(g)ject, “On We Sail” e “Toki No Kaze” di The Samurai Of Prog e “Echoes from the undertow” di B-Rain vedono la tua presenza in qualità di ospite in alcuni brani. Ti va di spendere due parole su queste tue partecipazioni? C’è dell’altro nella tua vita artistica che è sfuggito alla mia attenzione e non ho menzionato?

R.V.: Partiamo da “Echoes from the Undertow” di Davide Guidoni, già batterista anch’egli dei Taproban assieme a Guglielmo Mariotti, che tra l’altro ha realizzato il mio doppio manico basso-12 corde. Davide è un grande batterista e col suo primo album solista si è cimentato, per la prima volta, alle tastiere e devo dire che quando mi ha chiesto di registrare un assolo e degli arpeggi di chitarre 12 corde su due brani sono rimasto innanzitutto affascinato dalla bellezza delle composizioni e pertanto, oltre che un onore, è stato un vero piacere registrare quanto richiesto.

Di Marco Bernard ti ho già accennato qualcosa, pertanto aver suonato il Taurus Moog bass pedal su questi brani è stato, anche in questo caso, un proseguire e coltivare una collaborazione altrettanto valida e gratificante.

Vincenzo Ricca poi è un grande artista il cui progetto mi ha subito affascinato e nel tempo ha dato origine ad una profonda amicizia e stima musicale reciproca. Vincenzo collabora con fantastici artisti e suonare per lui mi ha permesso, su tutti, di affiancare il mitico Steve Hackett. Ho suonato il basso e la chitarra 12 corde anche sul prossimo TRP IV in uscita a fine anno, ma non posso darti altre anticipazioni trattandosi del nuovo lavoro di Vincenzo.

Di Davy O’ List e del suo nuovo album ti ho già detto prima.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il tuo punto di vista per chi fa musica?

R.V.: Non sono ossessionato e non demonizzo, né tantomeno santifico, tutti questi cambiamenti; sarà che penso che il futuro non può essere in alcun modo arrestato e che dobbiamo sempre trarre il meglio da ciò che ci si propone davanti. Per essere più chiaro, chi ascolta continuerà a comperare vinili, cd o ascoltare musica liquida secondo le sue esigenze e percezioni o gusti musicali, nessuno potrà arrestare questo, l’importante è comporre musica valida e bella. Tante volte anche io ascolto on line un cd prima di acquistarlo, ma così analogamente si faceva in passato quando un amico ti prestava un disco e lo registravi su cassetta invece di comperarlo. Poi ti conquistava e non ti era più sufficiente quel supporto, volevi il disco punto e basta, anche spendendo per averlo.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online?

R.V.: Io sono fortunato perché devo ammettere di aver sempre avuto un’etichetta alle spalle, sia con i Taproban che con Ellesmere, e così nei progetti ai quali ho partecipato. Comprendo la frustrazione di chi per la prima volta si affaccia alla ribalta, ma alla fine si raccolgono sempre i frutti di quello che si è seminato. In passato dovevi aver fatto innumerevoli live, esserti fatto un nome “in giro”, aver attirato l’interesse degli addetti al settore, oggi magari si realizza un cd fatto col computer di casa, si gira un video anche ben fatto, si apre una pagina FB, ma questo – come ben sappiamo – non significa automaticamente riuscire a farsi conoscere; avere tanti like sui social non è sinonimo di riuscire. Ripeto, chiunque oggi può realizzare un cd, il difficile è avere la pazienza di farsi apprezzare per quello che di buono si è realizzato. Siamo in tempi fluidi e tutta questa sovrabbondanza di produzione musicale, soprattutto se non di buona qualità e fattura, rischia di andare perduta nella vastità del web, trascinando assieme anche le buone proposte pur esistenti.

E qual è la tua opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

R.V.: Stimo molti artisti nostrani e con diversi di essi collaboro e mi tengo in contatto, oltre che esserne amico. Ad esempio, apprezzo moltissimo (in ordine sparso per non fare torto a nessuno), e andando anche un po’ al di fuori del concetto di “progressive” in senso stretto, gli Ingranaggi della Valle, i Laviàntica, i Daal, La Bocca della Verità, gli stessi Taproban ovviamente, TRP, Le RanestRane, La Batteria e La Fonderia, i Möbius Strip, i NIR, Tiziana Radis, il Nodo Gordiano, ecc. Con alcuni di loro c’è anche un ottimo rapporto e ci scambiamo pareri ed opinioni reciproche. Sugli spazi per proporre ed esibirsi live era ed è un problema assai complesso aggravato ancor di più dalla pandemia in atto. Chi di noi si reca ad ascoltare nuova musica inedita live anziché restarsene a casa ad ascoltare i remasters o i box da collezionisti degli artisti che si ascoltavano da ragazzi? Pigrizia, nostalgia e comfort zone sono brutte abitudini dure da sconfiggere.

Rimanendo in ambito concerti, come sono gli Ellesmere sul palco e chi ti accompagna di solito?

R.V.: Abbiamo un’anima ed un approccio profondamente rock, anche quando rappresentiamo i brani del primo album, e con Daniele Pomo alla batteria, Giacomo Anselmi alle chitarre, Giorgio Pizzala alla voce e Fabio Bonuglia che mi segue ed accompagna da tempo immemore, credo di avere tra le mani veramente un’ottima formazione.

Esulando per un attimo dal mondo Ellesmere e “addentrandoci” nella tua vita, ci sono altre attività artistiche che svolgi nella vita quotidiana?

R.V.: Altre attività artistiche direi proprio di no. La musica assorbe grandissima parte del mio tempo.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), ti va di confessare il tuo “podio” di preferenze personali?

R.V.: Non è certo un segreto, comunque Rush, UK, E.L.P. sul podio, poi a stretto giro Yes,  Kansas, Genesis, Gentle Giant, Dixie Dregs e ancora, ma questa volta in ordine sparso, Änglagård, Saga, Mike Oldfield, Magellan, Cairo, Pallas, The Enid, The Flower Kings, certe cose alla Shadow Gallery, Symphony X e così dicasi per gli italiani PFM, Le Orme, Goblin, ecc. ed anche molta altra musica differente (fusion, metal, certa new wave).

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di te, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che ami e che consiglieresti di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

R.V.: Tutti classici temo, purtroppo. Libro direi “La Metamorfosi” di F. Kafka; scrittore J. Joyce; Laurie Anderson, invece, come artista musicale antesignana della multimedialità visiva.

So che sei un gran collezionista di fumetti e vinili. Come nascono queste due passioni? Qual è il fumetto cui sei più affezionato? E qual è il “pezzo pregiato” della tua collezione di dischi di cui non potresti fare a meno?

R.V.: Sì è vero, confermo. Nascono in gioventù e poi ci accompagnano sempre. Fumetto: Capitan America ed. Corno n. 92 “Nomad!”; disco: “The Pentateuch of the Cosmogony” di Dave Greenslade e “Hybris” degli Änglagård.

Chitarre, basso, un’infinità di tastiere: ma qual è lo strumento che ami di più e che più ti rappresenta?

R.V.: Il basso. Nasco e resto in primis un bassista. Rickenbacker 4003 Jetglow Bass e Fender “Geddy Lee” Jazz Bass sono i miei animaletti preferiti, oltre al Taurus Moog bass pedals di cui possiedo i mark I & III.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immagini il futuro della musica nel nostro paese?

R.V.: Un po’ dura, ma la musica è sia fase creativa-compositiva che registrazione, infine performance live, e quindi di sicuro non ci si annoia mai. La pandemia ha ristretto le esibizioni dal vivo ma non di certo le altre attività che, anzi, sono state ciò che ci ha mantenuti vivi durante questi tristi mesi.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che ti va di condividere sui tuoi anni di carriera artistica?

R.V.: Al festival HRH Prog 2018 in Galles con la Davy O’ List band/The Attack. Lì ho conosciuto il nostro fonico personale, o meglio quello di Davy per essere precisi, tal Alan O’Duffy, un irlandese con un curriculum di tutto rispetto (puoi verificare sul web): già engineer di Deep Purple, Paul McCartney, Rod Stewart, The Nice, Eric Clapton, Rolling Stones, Rory Gallagher, ecc. e talmente alla mano da raccontarmi addirittura come registrò la voce a Steve Winwood dei Traffic!! Chiacchierando e parlando della mia passione per i Rush, mi riferì addirittura di essere amico di Terry Brown, il mitico producer/sound master dietro gli album storici dei Rush, poiché vive in California e nel giro, ovviamente, si conoscono e talvolta collaborano insieme. Pendevo letteralmente dalle sue labbra, ma soprattutto che orecchio e capacità professionale e artistica, mamma mia!!

E per chiudere: c’è qualche altra novità sul prossimo futuro di Roberto Vitelli che ti è possibile anticipare?

R.V.: Entro la fine dell’anno, come dicevo, uscirà il terzo album Ellesmere, così anche TRP IV di Vincenzo Ricca, nel 2021 il nuovo album di Davy O’ List dovrebbe vedere la luce. Andremo live spero il più presto possibile e inizierò a porre le basi per nuova musica.

Grazie mille Roberto! 

R.V.: Grazie a te e in bocca al lupo anche a te per tutto.

(Settembre, 2020)

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