Mesmerising – The clutters storyteller

MESMERISING

The clutters storyteller (2020)

Lizard Records

 

Dopo due album firmati con il proprio nome, Davide Moscato decide di assumere una nuova “fisionomia”: Mesmerising.

Il risultato di questa “metamorfosi” è The clutters storyteller, un album contraddistinto da una poetica non comune, da una forte carica emozionale, da un’eleganza davvero eccezionale, ma anche da elementi più drammatici e oscuri, un risultato che è stato ottimamente definito “progressive cantautoriale”.

I suoni, grazie alla “squadra” invidiabilissima che affianca Davide (voce, tastiere occasionali in Slave of your shell e Underground), formata da Fabio Zuffanti (basso), Martin Grice (flauto e sax), Giovanni Pastorino (pianoforte, organo Hammond, mellotron, Moog), Simone Amodeo (chitarre) e Paolo Tixi (batteria), sono policromi e cangianti e caratterizzano ottimamente i brani, i quali si muovono tra ballate, momenti dinamici e atmosfere chiaroscurali dove, appunto, il rock progressivo si fonde magistralmente con l’elemento cantautoriale (e la voce peculiare e duttile di Davide).

Fiore all’occhiello di The clutters storyteller sono i testi: sospesi tra sogno e (soprattutto) incubo, in alcuni casi surreali e macabri, sono tutti profondi e carichi di dolore, e la doppia dedica dell’album (vittime della strada e la cara mamma di Davide, scomparsa poco prima della realizzazione dei brani) aiutano a comprenderne, almeno in parte, il motivo. E tutto rivive nel grandioso artwork/collage realizzato da Massimo Pasca.

Feel… Il breve frammento d’apertura (in realtà, da leggere unitamente con il brano successivo) si apre con un dolce tocco di piano e un’eleganza a Le Orme, tutto affidato alle sapienti mani di Pastorino. The clutters storyteller può iniziare.

Un assolo di un’intensità gilmouriana ci accoglie in …My dream. È il canto dal caratteristico tocco etereo di Davide Moscato a guidarci successivamente, avvolto da morbidi giochi sonori (chitarre e piano in primis). Tanta poesia evocativa che ci riporta al punto di partenza, ad un nuovo soliloquio di chitarra, prima di riprendere il delicato percorso cantato. E poi ancora distorsioni, questa volta più massicce. Pochi attimi, poi il mondo d’incanto torna, con altra fisionomia, ma torna. In coda crescendo rock sinfonico e commiato suggestivo.

Un po’ Jean Michel Jarre la partenza labirintica di Ballad of a creepy night. Poi un cammino deciso (ma non troppo) mette il brano sulla propria via, col bel “battibecco” tra voce e sax (quest’ultimo di Martin Grice). Tutto si intensifica col trascorrere dei secondi, sfociando nel caldo canto del padrone di casa e nei numerosi tasselli di “contorno”, con, ancora una volta, piano e chitarra in primo piano. Affascinante il nuovo “scontro verbale” tra voce e flauto, con picchi di intensità e soluzioni vellutate sempre interessanti, sino alla fine. E nelle parole di Davide Moscato prende forma una vicenda grottesca: una donna sale su un treno trascinando dietro sé una borsa piuttosto pesante. Un uomo osserva i suoi movimenti, studiando il momento giusto per rubare l’oggetto. Una volta riuscito ed aperta la borsa depredata, ecco la sorpresa: una testa mozzata…

Essenza The Cure per Slave of your shell. Interessanti i continui cambi chitarristici, mai esagerati, con il canto di Davide che s’incunea bene ovunque e quel ritmo sempre alto. L’inciso è ben calibrato e cattura sin dal primo ascolto. […] I will die for living, because death is life itself / When I will see the end / I already seen the beginning […].

Morbida Underground nei primi momenti (e con un pizzico di Queen). Poi tutto cresce, deflagra tra le note di Simone Amodeo, il quale si “muove” tra May e Mussida. E si avanza compatti, con un gran lavoro delle ritmiche (Tixi/Zuffanti) e vocale. Il momento di quiete posto a metà percorso, con la pennellata di chitarra, è sublime e affida il tutto alle dolci note del flauto, in un’atmosfera molto celestiale davvero intrigante. Il piano, a seguire, getta piombo sulla scena e tutto si fa psichedelico, terminando tra spire crimsoniane e poi tulliane. Gran brano che narra la vicenda di una persona sepolta viva: I open my eyes and all I see / is the darkness around me / so I’m losing my last breath / now I try to move my arm / but I can not raise it up / so I realize I’m buried alive […].

E ancora più surreale il testo di The vortex, in cui un peschereccio alla deriva viene risucchiato da un vortice e trasportato in una terra sconosciuta in cui i marinai, circondati da ossa e resti umani, saranno costretti al cannibalismo. L’avvio del brano sembra (senza esserlo) un omaggio a “Maestro della voce” della PFM. Il prosieguo offre un bel carico di emozioni ed è ricco di cambi d’atmosfera, con un bel lavoro di basso alla Roger Waters, il solito canto centrato, trame notevoli (con il piano e le chitarre ben presenti) e interessanti interventi di flauto dal tocco andersoniano. E sul finire il sax di Grice lascia tutti senza fiato.

False reality. Una dolcezza incredibile quella offerta dal canto di Davide, avviluppato strettamente dal piano di Pastorino e dal flauto di Grice, pura poesia che sgorga dalle mani (e dalla voce) dei tre. Da pelle d’oca.

Due persone, ritrovarsi nello stesso momento nello stesso posto… ma in due dimensioni diverse… Sentire le proprie voci senza potersi vedere o toccare. Questo il tema della breve In a different dimension, che scorre via nella sua essenza sinfonico/cinematografica, con il rarefatto canto stratificato di Moscato ad intersecare il tutto. Particolarità del brano è l’uso sperimentale della voce fatta da Davide. Infatti, una delle due voci è inspirata, canta “al contrario”, seguendo l’esempio del grande Demetrio Stratos nel brano “Criptomelodie infantili”.

Con piglio frizzante si materializza The man who’s sleeping, per aprirsi poi ottimamente e “cadere” in un’atmosfera incantata in cui il fiato di Martin Grice si lascia pienamente apprezzare. Questi alti e bassi proseguono senza sosta, con le pelli di Tixi ben in tiro e il sax di Grice che, quando chiamato in causa, giganteggia. E i momenti sinfonici sono sempre ben azzeccati ed evocativi. L’apparizione violenta del synth, infine, mette ulteriore carne al fuoco, lasciandoci poi nelle mani del brano conclusivo.

The last time you called my name. Pastorino (al piano) e Moscato ci stringono le mani con guanti di velluto e ci accompagnano in un viaggio piacevole, soave, antitetico al testo (un uomo stanco delle brutture della vita che chiede a sua mamma di rientrare nel suo grembo e ricreare quel legame madre-figlio che può superare tutto). E anche quando le ritmiche entrano in campo, la sensazione non muta, grazie anche al perfetto lavoro del flauto. C’è anche spazio per il caldo assolo di Amodeo e, a seguire, il volo in picchiata di synth, con le pelli più “tese” a trascinare il tutto. In coda l’atmosfera si fa rarefatta. E la stretta di mano di scioglie tra onde cosmiche.

Un album contraddistinto da una natura magica. Da ascoltare e riascoltare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *