Cervello – Melos

CERVELLO

Melos (1973)

Ricordi

Come noto, Napoli da sempre è fucina di grandi talenti in ambito musicale e, per il progressive in particolare, sono numerosi gli artisti che hanno portato alta la bandiera della napoletanità (solo per citarne alcuni: Osanna, Balletto di Bronzo e Napoli Centrale). Tra i protagonisti di questa scena musicale, anche se, purtroppo, per poco tempo, troviamo i Cervello. La formazione vede Gianluigi Di Franco (voce, flauto, percussioni), Corrado Rustici, fratello di Danilo degli Osanna (chitarra, flauto, vibrafono, voce), Giulio D’Ambrosio (sax, flauto, voce), Antonio Spagnolo (basso, chitarra acustica, flauto, voce) e Remigio Esposito (batteria, vibrafono).

L’unico album della band, Melos, viene registrato nell’estate del 1973. Il titolo non è casuale, infatti, in greco significa melodia, canto, poesia lirica, elementi che ricorrono puntualmente in quest’opera che ci riporta indietro di 2500 anni, nell’antica Grecia fatta di cortei dionisiaci, muse e aedi. Testi poetici ed evocativi e soluzioni compositive molto suggestive creano un mix di atmosfere che definirle coinvolgenti è quasi limitativo. Ogni brano è un percorso iniziatico, il novizio è accolto sempre da atmosfere oniriche (che indicano l’avvio della “trasformazione”) e, superando vari passaggi, arriva al culmine del rituale (le formidabili esplosioni di Rustici & Co.).

L’assenza delle tastiere (quasi un sacrilegio per il genere) è forse la marcia in più perché permette alla band di creare paesaggi sonori avvolgenti utilizzando quattro flauti (si, proprio quattro!), vibrafoni, chitarre acustiche, voci e pedali di basso per organo suonati attraverso il Binson Echorec (a detta di Rustici producono un suono simile ad una sezione di violoncelli distorti). Ma non è tutto perché i Cervello riescono ad amalgamare questi momenti più “leggeri” con altri di pura energia, dove Rustici diventa una via di mezzo tra Robert Fripp e John McLaughlin (uno dei punti di riferimento dello stessa band), mentre Esposito e D’Ambrosio divengono imprendibili. Su tutti c’è sempre l’affascinante voce di Di Franco, un sacro sacerdote la cui timbrica ricorda un po’ Gianni Leone, un po’ Gianfranco Gaza dei Procession.

Ogni brano è curato nei minimi dettagli e la qualità audio dell’album è davvero eccellente (non sono rari i casi in cui la scarsa qualità audio ha limitato le potenzialità di artisti molto validi).

Citazione d’obbligo per la copertina dell’album, una delle più singolari dell’epoca. L’immagine rappresenta una scatola di pelati “apribile”, nel senso che l’etichetta si può sollevare scoprendo una foto della band, quasi a raffigurare una scatola cranica che, una volta aperta, permette la visione del Cervello (vedi fotogallery).

L’avere quattro elementi capaci di suonare abilmente il flauto permette ai Cervello la creazione di atmosfere incantate come quella che troviamo in apertura di Canto del Capro. Incanto che si rompe in un attimo grazie all’improvviso ingresso in scena di satiri e menadi in trance che intonano una sorta di canto dionisiaco (Magica danza ci porterà il seme / Vivido intruglio disseta la mente / Magica danza ci porterà il seme), ricreando però anche un clima sabbatico di bartoccettiana memoria. Seguono dei cori ipnotici che hanno il compito far evolvere il rituale pagano portando l’ascoltatore allo stato mentale delle figure mitologiche precedenti. E quando ormai si è pronti per raggiungere un nuovo stadio psichico, il dilatato canto di Di Franco porta il brano verso nuovi percorsi. Un arpeggio “bucolico” ci introduce al segmento più ruvido del brano, la deflagrazione vocale e strumentale (eccellente il lavoro alle ritmiche e della chitarra di Rustici). I suoni “zigzaganti” ed estranianti nel finale (soluzione tra la psichedelia e lo sperimentalismo) inseriscono un ulteriore tassello qualitativo e creativo al brano d’apertura, così come il testo, il quale s’incastra alla perfezione tra le pieghe dei paesaggi dell’antica Grecia (Satiri, menadi: luci di un corteo. / Musica solenne, danza, il vino muterà / l’ansia dei fedeli nella mistica eruzione. / Pelli, corna, bestie cacciano la preda / Sangue scorre a lungo dalla carne di chi è / simbolo divino per la umana sazietà. / Culto, deità di arcana verità. / Un mito che non va, impulsi che non ha / Lui, l’uomo nuovo ormai. / Veli di pietà ricadono su chi / non ha la forza di lottare ancora. / Larve, castità: la fine di un’età; / la fede scoppierà / la fede scoppierà, / grida, forse tornerà).

Esclusi i primissimi secondi, l’avvio di Trittico regala giochi acustici sognanti, con la voce luminosa di Di Franco in primo piano. Molto dolce il flauto che s’intreccia dapprima con la chitarra acustica e poi con il vibrafono. Il tutto riporta alla mente le atmosfere eteree di Principe di un giorno dei Celeste. Poi il canto di un satiro ci introduce nella seconda parte del “trittico” dove Di Franco, con un vocalizzo “estremo” alla Alan Sorrenti di “Aria“, lancia in orbita la band. Una sventagliata alla King Crimson ci coglie in pieno, con Rustici che si diverte a “fare il Fripp” e i contrattempi di Esposito che sono una delizia per le orecchie. Superbo anche il lavoro di D’Ambrosio al sax. Quando poi subentra nuovamente Di Franco allora sembra di ascoltare i Balletto di Bronzo di YS. L’ultima parte del brano si addolcisce, con la voce che resta la protagonista e il flauto che ricama intricate trame con i continui arzigogoli acustici di Rustici. Ad ornare ancor di più il brano ci pensa il testo: Are perdute nel tempo ricordano riti di gioia e dolore. / Pallidi volti, sorrisi di dolci creature,  Vestali di Fuoco. / Ambrosie pure, che oramai son solo fumo. / Gravidi corpi percossi dal tempo rincorrono ancora la vita. / Satiri vanagloriosi si gonfiano, viscidi, fino a scoppiare. / Rincorse vane, che troveranno solo buio […].

Euterpe, il brano dedicato alla Musa della musica e della poesia lirica, spesso raffigurata con un aulos tra le mani (uno strumento a fiato che ricorda il flauto), parte proprio con un carezzevole ordito di fiati e chitarra acustica. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo anche il canto di Di Franco. E mentre la voce intona nuovi versi poetici (Un ruscello scorre, gratta visceralità / Manna per la specie dei coturni, / Vita mi dà Euterpe. / Quella Musa di latta pia svanirà mai. / Canta poi dipinge / Forse ancora rivivrò), il brano cresce d’intensità, trascinato dalla chitarra acustica e dalla batteria sino a giungere all’esplosione del sax di D’Ambrosio il quale, a sua volta, funge da apripista per la fuga dell’invasato Rustici. Molto robusta anche l’ultima parte del brano con la ripresa del cantato.

L’avvio di Scinsione (T.R.M.) ha tonalità quasi psichedeliche, con intrecci di suoni fluttuanti ed onirici. Il tutto si stabilizza quando fiati, chitarra acustica e batteria intraprendono una brevissima strada tendente al jazz, prima di concedere spazio alla voce di Di Franco. Come accaduto in precedenza, lungo il cammino siamo colti da un break esplosivo dove l’incalzante Esposito trascina dietro sé gli indemoniati Rustici e D’Ambrosio (eccezionale la prova di quest’ultimo al sax). Non è tutto. Mentre si è tentati di pensare che il ritmo spinto ci conduca sino alla fine del brano, ecco che questo cala in un “profondo sonno”, molto cupo, quasi krauto, con il sax che si diverte a farsi beffe dell’ascoltatore con suoni lugubri. Torna tutto nella norma nel finale, con un nuovo eccellente solo di Rustici.

Melos è una dolce ballata avvolgente velata di malinconia. Soprattutto la prima parte, con il lavoro di vibrafono (poi coadiuvato anche dai fiati), rende appieno questa sensazione. Emozionante il canto di Di Franco che declama nuovi versi suggestivi: Sguardi di azzurro dona il cielo che sa / Caldo crepuscolo sfiora la mente / che già ricomincia a vagare per me / Antri di un sogno che va. / Maschere d’osso si baciano / Muta, torna la Luna a dipingere l’aria / poi Veneri bianche, che annegano; / su voci dal Cosmo mi offrono. / Calici di buia felicità / Plaghe di luce remota mi toccano / Viva la santa infinita città / Folle deliquio di Sem. Poi il brano si vivacizza raggiungendo livelli di pathos indescrivibili, prima grazie ai cori, poi con il canto che sovrasta un sax tagliente. Non manca il soliloquio in grande stile di Rustici.

Anche con Galassia i Cervello riescono ad avviluppare chi ascolta creando un’atmosfera dalle sfumature malinconiche, grazie all’ottimo uso di flauti e chitarra acustica. Poi, come già accaduto, anche in questo caso Di Franco ci mette del suo per alzare ancor di più il livello del brano (soprattutto nella prima parte dove ricorda molto Gianni Leone). E mentre si è cullati da dolci note, giunge una prima avvisaglia, una chitarra “cantilenante”, la quale fa presagire che qualcosa sta per accadere. E poi arriva: una nuova esplosione, più “devastante” delle precedenti, che fa correre brividi infiniti lungo la schiena. Un incrocio tra Larks´ tongues in aspic (part 1) e un brano dei The Mars Volta con Esposito e Rustici che viaggiano a mille all’ora. Superlativi.

Affresco. Il brano finale è un breve sussurro, un leggero commiato dopo sei brani di pura poesia progressiva. Un frammento di poco più di un minuto dove l’evocativa voce di Di Franco si destreggia tra eterei cori, soavi flauti e arpeggi trasognati.

Il 1973 è l’Anno (notare l’A maiuscola) del progressive italiano anche grazie ai Cervello e a questa perla di rara bellezza.

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