Divje Jezero – Mestni Vrvež

DIVJE JEZERO

Mestni Vrvež (2015)

Celinka

Secondo lavoro in studio per gli sloveni Divje Jezero (“Lago selvaggio” in italiano), il primo con la formazione a cinque composta Alen Bogataj (basso), Aleš Golja (chitarra), Luka Čibej (batteria, percussioni), David Križaj (tastiere, fisarmonica) e Tomi Peljhan (sax).

Nell’album strumentale Mestni Vrvež (Città frenetica), i cinque incanalano tutte le loro capacità tecniche e creative confezionando un lavoro ricco di contaminazioni che si muove agilmente tra solide basi jazz rock/fusion e nitide venature progressive rock. Si scorgono così, nelle note degli articolati brani, lampi di Soft Machine, Il Baricentro, Dedalus (del primo album), Beia Come Aba, ma anche un po’ di Accordo dei Contrari e Arti & Mestieri e tanto altro ancora, in un prodotto che risulta, nonostante gli “accostamenti”, piacevole e originale.

L’eclettica proposta è accompagnata dalla cover realizzata da Danilo Jereb, un dipinto ad olio che rende in immagine la città frenetica del titolo dell’album. Inoltre, in qualità di ospite, nel brano Skrivnost, troviamo Ana Bogataj al flauto.

Si parte subito con forte dinamismo grazie a Policijska Patrulja (Pattuglia della polizia). Tra articolate soluzioni di chitarra, tastiera e ritmiche e continue variazioni “umorali”, il brano scorre gradevolmente tra momenti canterburyani (vedi Soft Machine e Van Der Graaf Generator) e un pizzico di Accordo dei Contrari. Da segnalare il gran lavoro di basso di Bogataj e il “dialogo univoco” tra Peljhan e Golja.

Decisamente più morbida e “spensierata” Skrivnost (Segreto). I suoni delicati di chitarra e piano, cui s’aggiunge il soave soffio del flauto dell’ospite Ana Bogataj, sono il filo conduttore di un brano dalle forti tinte jazz. Quest’atmosfera quasi “bucolica” è “intaccata” solo dai timbri molto marcati di basso e batteria.

Si torna a correre con Mestni Vrvež (Città frenetica). È Čibej a guidare il brano con la sua “furente” batteria, cui s’accodano ottimamente gli altri membri. Ecco allora scorrere brevi momenti in cui il piano di Križaj rende quasi ballabile il brano e lunghe divagazioni che a tratti richiamano anche la PFM. Episodio davvero interessante.

Altro notevole e mutevole capitolo di Mestni Vrvež è Zlobne Gobe (Funghi malvagi). Se nel primo segmento del brano si passa con disinvoltura da brevi momenti spigolosi a quiete andature chitarristiche, transitando poi attraverso frangenti orientalizzanti e delicatezze di sax, tutto sempre ben guidato dalle “irregolarità”di basso e batteria, nel frangente successivo si accelera con “cattiveria” e Golja e Križaj sono liberi di prendere il volo. L’ultima parte fa propria alcuni dei momenti precedenti virando, a tratti, anche verso territori british.

Aumenta ancora il livello di complessità con Uvertura XIX (Ouverture XIX). Scorrono così, in circa nove minuti, “massicce” ondate alla scandinava, frammenti di puro e soffice jazz, un fugace piano dal tocco classico, riprese hard con accelerazioni fulminee e asperità distorte, momenti di calma apparente, un assolo di chitarra perfetto. Forse il brano-manifesto dei Divje Jezero.

Dopo aver speso una quantità enorme di energia con il brano precedente, il gruppo rallenta un po’, ma non troppo, con Kapljica (Gocciolina): un flusso piuttosto lieve di atmosfere distese e momenti da Club Jazz, con alcune spinte chitarristiche.

Po Dežju (Dopo la pioggia).  Dopo un brevissimo avvio che, concettualmente, può ricordare l’attacco di “Gravità 9,81” degli Arti & Mestieri, i Divje Jezero viaggiano su onde che attingono pienamente dal jazz (molto free), guidate dall’estro del sax di Peljhan e del duo ritmico Čibej/Bogataj. Ottimi anche gli interventi al piano di Križaj.

I primi minuti di Nomad (Nomade) sono spesi “normalmente” dal quintetto, con continui intrecci e cambi ritmici. Poi il brano passa nelle mani del sax di Peljhan e della fisarmonica di Križaj (ma un gran lavoro lo svolge anche la coppia ritmica), piombando in pieno clima balcanico, arricchito da lampi di Area, prima del mite finale.

Con l’avvio di Šnita Kruha (Fette di pane) sembra quasi di proseguire, atmosfericamente, la chiusura del brano precedente. Poi il risveglio: ecco guizzare allegramente il quartetto (il sax di Peljhan non prende parte alla festa) con alcuni frangenti che risultano quasi ballabili. A seguire largo spazio alla “ruvidezza” di Golja.

Burkina Faso si apre con le dilatazioni chitarristiche di Golja e i tocchi tribali di Čibej, conditi da una lieve pioggerellina. Poi iniziano le danze dalle forti suggestioni reggae con un gran lavoro di sax ben assecondato dal gruppo. Si chiude così un lavoro ben orchestrato che regala una bella sorpresa proveniente dalla Slovenia.

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