Food Brain – Bansan (Social Gathering)

FOOD BRAIN

Bansan (Social Gathering) (1970)

Polydor

 

Nel 1970 Ikuzo Orita, direttore della Polydor, decide di dare una svolta al nascente movimento progressive giapponese e crea, intorno all’estroso chitarrista Shinki Chen, un progetto destinato a dare un notevole impulso all’intero panorama prog del paese del Sol Levante: i Food Brain.

Ad affiancare Chen, in questo ambizioso progetto, ci sono altri tre musicisti di qualità come Hiro Tsunoda (batteria e percussioni), Hiro Yanagida (tastiera e organo) e Masayoshi Kabe (basso).

L’opera, che purtroppo non avrà un seguito, è un concentrato di energia e follia. Un disco strumentale dove si alternano cinque brani molto corposi, da cui emergono spesso e volentieri organo e basso, con quattro brevi intermezzi più “delicati”, privi di una vera struttura. Si resta davvero impressionati di fronte a tanta tecnica ed inventiva.

Si parte col botto grazie a That will do. Racchiusa da un boogie rockeggiante, che funge da alfa e omega del brano, troviamo tutta la forza di questo quartetto giapponese. Dopo alcuni secondi di puro divertimento “danzerino”, e un rallentamento utile all’organo di Hiro Yanagida per “prendere fiato”, ecco che quest’ultimo prende il volo. È una lunga sequenza impressionante di funambolismi degni del miglior Keith Emerson. In sottofondo da segnalare il superbo lavoro di basso svolto da Kabe. Poco dopo i cinque minuti avviene il cambio: tocca a Shinki Chen e la sua chitarra continuare con le evoluzioni. Intanto il basso è sempre lì.

Il primo dei brevi intermezzi è Naked mountain. Basso e chitarra si rilassano all’ombra in un canyon. È il meritato riposo del guerriero.

Con Waltz for M.P.B. Yanagida si riprende la scena con quello che sembra un omaggio al lungo soliloquio di Ray Manzarek in Light my fire. Ottimo il lavoro della sezione ritmica.

Dei suoni psichedelici, un po’ floydiani, aprono Live juice vending machine. Poi libero spazio alla fantasia. È un lungo susseguirsi di variazioni, dai richiami “sporchi” alle Orme ai fraseggi tra basso e batteria, dai frammenti prog-rock molto spinti alle atmosfere acide. Tecnica sopraffina.

The conflict of the hippo and the pig è il secondo intermezzo. Si tratta di una sorta di samba molte breve.

Clock riprende la lunga parte centrale di That will do, con la prima porzione dominata dalle “follie su tasti bianchi e neri” di Yanagida. Evoluzioni che farebbero invidia a qualsiasi mago delle tastiere britannico degli anni d’oro. La seconda parte è affidata a Chen, meno ispirato del brano d’apertura. Nelle battute finali, poi, torna in scena l’organo. A condire il tutto il solito “lavoraccio” di basso e un’ottima batteria.

One-sided love, il terzo intermezzo, è una soave melodia di clavicembalo. Un tocco “diverso” ad un album tutt’altro che dolce.

Come se non bastasse quanto fatto finora, con The hole in a sausage Food Brain si lanciano in quindici minuti di pura improvvisazione, fuori da qualsiasi schema. A dar man forte ai quattro “pazzi” arriva anche Michihiro Kimura al clarinetto che, in quanto a follia, non è secondo a nessuno. Non si riesce minimamente a seguire un filo logico. Sono sprazzi molto spesso privi di lucidità che si rincorrono tra loro, gli strumenti sono “violati nella propria intimità”. È come prendere il brano Facelift dei Soft Machine (gia ostico di suo), smontarlo e ricomporlo in modo casuale. Dopo gli otto minuti, però, il basso distorto ci delizia con un richiamo alla marcia funebre di Chopin (Sonata n. 2 op. 35). Poco più avanti, in un secondo momento di lucidità, sempre il basso richiama, a suo modo, Auld Lang Syne, una canzone tradizionale molto diffusa nei paesi di lingua inglese. Nei minuti finali c’è anche lo spazio per un assolo di batteria.

Dedicated to Bach. Un lungo lamento distorto riempie i pochi secondi dell’ultimo intermezzo.

Disco arduo, ma avvincente.

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