Metronhomme – 4

METRONHOMME

4 (2019)

Autoproduzione

 

Qual è il modo più naturale e diretto per indicare il quarto “sforzo compositivo” della propria carriera artistica? Un numero, semplicemente. Ed ecco allora 4, ultimo lavoro in casa Metronhomme.

4, ma si potrebbe quasi definirlo una sorta di “1” poiché, a tutti gli effetti, questo lavoro segna non un vero e proprio nuovo corso quanto, piuttosto, una nuova “esigenza” racchiusa sotto un’apparentemente semplice parola: libertà. E questa libertà guadagnata non è da intendersi come liberazione da un giogo oppressivo e limitante, tutt’altro. È soltanto un’emancipazione dal mondo del palco, dalle esigenze teatrali che avevano affiancato e “limitato” le prime tre opere dei Metronhomme. Anche perché, sia chiaro, pure in passato la band ha dimostrato di saperci fare, di avere il giusto piglio creativo, e quella “libertà”, in 4, è esplosa definitivamente (basta ascoltare comunque, per esempio, “L’Ultimo canto di Orfeo” per ritrovare molte delle caratteristiche riscontrate nel nuovo lavoro).

Con queste premesse, dunque, Mirco Galli (basso elettrico), Tommaso Lambertucci (pianoforte, sintetizzatori, programmazioni), Andrea Lazzaro Ghezzi (batteria) e Marco Poloni (chitarre elettrica ed acustica), con l’“apparizione furtiva” (così è definito il suo ruolo sulla pagina Facebook della band!) di Paolo Scapellato (tastiere, chitarra acustica) e la collaborazione di Manuele Marani (contrabbasso in “Chiuso per gatti”), hanno messo su un’opera strumentale pluristratificata che, poste le basi su di un prog che si muove tra le sonorità di casa nostra e un occhio alle idee d’oltremanica, spazia liberamente tra la sperimentazione, la psichedelia, un tocco di jazz e tanto altro. Semplicemente in libertà, appunto.

E tutto è accompagnato da un’affascinante quanto enigmatico artwork realizzato da Tommaso Gomez e “descritto a parole” da titoli senza apparente significato che riportano alla mente i nonsense dei feat. Esserelà (a tal proposito, questa la spiegazione riguardante i titoli dei brani data dalla band nell’intervista rilasciata al blog Le Petit Monde du Rock Progressif Italien: Il gioco che proponiamo a coloro che ascoltano la nostra musica è proprio quello di non dare loro punti di riferimento, di non vincolarli: i titoli possono più o meno stuzzicare la fantasia degli ascoltatori, ma tutto dipende dalla loro personale creatività. Ad ogni modo, i titoli delle tracce nascono da giochi di parole. Fanno riferimento a episodi successi nei tanti momenti vissuti in sala prove mentre nascevano i brani: qualcosa di strano che abbiamo visto, un episodio che ci ha fatto sorridere, o magari qualcosa di serio su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione…).

Fresca e briosa prende il via I Treni di Gabo, primo capitolo di 4, con tasti, corde e pelli corposi e smaglianti, e un pizzico di PFM che non guasta. A seguire è un’altalena sonora policroma, con le dita di Lambertucci ripetutamente protagoniste, le chitarre di Poloni che mutano volto, il lavoro preziosissimo di Galli in sottofondo e le continue variazioni ritmiche di Ghezzi.

Carica di tensione giunge L’uomo ombra. Colori scuri che si muovono tra le spire di Steven Wilson e le cupe elucubrazioni sonore dei Marlene Kuntz e che sgorgano soprattutto dalle mani di Poloni e Galli. Poi accelerate alla The Mahavishnu Orchestra, con un tarantolato Ghezzi sugli scudi e un egregio lavoro degli altri membri, e “cadute” tastieristiche ci conducono sino alla conclusione del notevole episodio.

Chiuso per gatti si palesa forte della sua carica romantica e della sua “leggerezza eterea”, col piano ipnotico di Lambertucci, un po’ alla Riccardo Scivales dei Quanah Parker, a reggere le redini, sorretto da ritmiche compassate, con le “carezze” al contrabbasso dell’ospite Manuele Marani, e, a tratti, una chitarra “ronzante”.

Blow up automatic chiodi. Crescendo cinematografico e teso per il quarto capitolo di 4. Si viaggia su un filo nero alla Ingranaggi della Valle che sembra prossimo a spezzarsi ma che, in realtà, si apre con giocosa vivacità. E sul finire un’atmosfera tenebrosa si fa largo facendo piombare tutto in territori Metamorfosi.

Molto colorata e dinamica la breve R.I.P. Brian DIY (get rid of the bishop) dove il grosso del lavoro è affidato alle tastiere di Lambertucci e Scapellato, dapprima con un andamento eighties alla Stadio e poi con l’organo acido alla Iron Butterfly, e alle scale infinite di Galli al basso. Anche se, relativamente, in secondo piano, anche gli altri due Metronhomme contribuiscono attivamente alla riuscita del brano.

Sognante appare Quattro pesci rossi, un flusso morbido che prende corpo dalle dita di Lambertucci al piano e Poloni alla chitarra e che si sviluppa attraverso una consistente componente drammatica, con le ritmiche che, nonostante il prezioso lavoro oscuro nelle retrovie, tutt’altro che tenue, non scalfiscono la sensazione di fondo.

Esplosione cromatica con Ortega. In prima linea troviamo batteria e basso che impongono i propri “stati d’animo” agli altri, volando o passeggiando a proprio piacimento. Coraggiosi ed abili chitarra e tastiere nel seguirne il passo, con soluzioni sempre creative, cangianti, solari: un bel prog di marca tutta italiana.

Il vivace avvio di Salt, con quel lieve sentore western nelle corde di Poloni, funge da apripista ad un crescendo magnetico e drammatico in cui piano e chitarra si fondono magicamente, con basso e batteria che realizzano il soffice manto che li avviluppa. E poi guizzi sfavillanti in cui i Metronhomme spendono tutte, o quasi, le proprie energie ci guidano all’alienante finale.

Con Hapax i Metronhomme sondando terreni più fluidi e teneri. La purezza del piano fa la voce grossa, con chitarra e ritmiche flessuosi ricamatori alle spalle. Tutto poi scorre tra i colpi compassati di Ghezzi e un mix antitetico di sensazioni.

Incalzante e vorticosa Uccideresti l’uomo grasso?. Le prime note, quasi un omaggio a “Il re del mondo” di Franco Battiato, non lasciano percepire quanto di lì a poco sta per accadere. Segue una “fase di rodaggio” e poi la deflagrazione, un intricatissimo abbraccio policromo che coinvolge totalmente tutti i musicisti, una fuga verso l’infinito guidata magistralmente dai due responsabili ritmici e ornata abilmente da tastiere e chitarre. Una delle più alte vette creative dell’album.

La parola fine a 4 è data dalla camaleontica Acrobazie. Tanti i volti messi sul piatto dai Metronhomme: dall’elettricità di chiave Led Zeppelin o Rinunci a Satana? alla “ambiguità” di marca Radiohead, dalle capatine nel free jazz alla tensione wilsoniana: tante pietanze deliziose che i nostri “impiattano” sapientemente chiudendo alla grande un album che è davvero una sorpresa.

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