Nora Prentiss – They made mistakes too

NORA PRENTISS

They made mistakes too (2017)

Lizard Records

Jazz. Noise. Movie soundtracks. Occasional clap alongs. Si presentano così i Nora Prentiss, progetto nato nel 2014 da un’idea di Pietro Guarracino (chitarre e basso profilo) e condiviso con Yuri Romboli (sax e BAM!), Alessandro Cianferoni (basso e quattro macchiatoni) ed Emanuele Bonechi (batteria e turnismo pop italiano ben pagato).

Preso in prestito il nome dal titolo di un film noir diretto da Vincent Sherman nel 1947, appunto “Nora Prentiss” (“Smarrimento” nella versione italiana), il quartetto ha edificato il suo castello sonoro dal titolo They made mistakes too partendo da solide fondamenta jazz. L’idea iniziatrice è stata poi stravolta e contaminata dai generi più vari, dallo stoner al post rock, dal prog al mathrock (e altro ancora), tutto condito da sfumature cinematografiche, elemento anch’esso fondante (in coabitazione col jazz) del progetto. Il prodotto di tale processo creativo è un album positivamente imprevedibile e visionario, in cui è presente una divisione quasi equa di brani originali (5) e cover rivisitate (4).

La proposta dei Nora Prentiss è arte a tutto tondo e, accanto agli elementi sonori e cinematografici, sembra quasi scontato trovare un apparato grafico di notevole qualità. L’artwork creato da Costanza Piccini accompagna ogni brano con immagini suggestive e singolari, in linea con l’album, mentre le foto di Agnese Banti donano il giusto tocco “noir” al tutto.

The List of Adrian Messenger. Il brano d’apertura di They made mistakes too, omaggio alla colonna sonora composta da Jerry Goldsmith per l’omonimo film, si presenta con un’indole piuttosto schizofrenica che rende quasi impossibile rintracciarne un filo conduttore (e non è affatto un elemento negativo, tutt’altro). Se nei primi minuti suoni vacui e un sax “frenato” si alternano a passaggi deliranti e mastodontici che si rifanno, in parte, ai King Crimson o ad arpeggi post rock, ciò che segue è follia pura che getta in faccia macigni ma che restituisce anche frangenti “lineari”.

L’anima jazz e delicata dei Nora Prentiss emerge con forza in Lee’s Summit. Protagonisti indiscussi la chitarra di Guarracino e il sax di Romboli. Il primo muta più volte (a tratti tocca lo strumento alla John Abercrombie) ma resta fedele ai suoni puliti e non concede punti di riferimento, il secondo ha il campo libero e lo riempie degnamente. Buon lavoro nelle retrovie anche della coppia ritmica.

Omaggio singolare al brano Idioteque dei Radiohead con sax che, dopo un avvio “interlocutorio” cui non prende parte, si accolla l’arduo compito di “cantare”. Esito piuttosto interessante grazie anche all’ottimo lavoro delle ritmiche di Cianferoni e Bonechi che, oltre, emergono alla grande insieme alle corde di Guarracino, prima di ridare voce a Tom Yorke e di chiudere vacuamente dopo un notevole crescendo ad altissimi ritmi.

Come una piuma arriva Bloodflood, rilettura noraprentissiana di un brano dell’alternative band britannica ∆ (alt-J), con il suo velo di malinconia che ammanta il tocco di Guarracino e poi il soffio di Romboli. Le (a tratti) bacchette vivaci di Bonechi e qualche guizzo collettivo non scalfiscono il clima rasserenante, prima che lo stesso chitarrista “sciolga le briglie” nei minuti centrali, contribuendo nel lanciare il vispo e vorticoso segmento finale.

E tra capo e collo giungono le “sassate” di Hat and beard, rivisitazione pazzoide del brano del jazzista Eric Dolphy, un concentrato di energia che si muove tra Hibagon ed Ottone Pesante, con la coppia Cianferoni/Bonechi, trascinatrice indiscussa, che avanza pesantemente e senza ostacoli mentre il sax nero di Romboli e la chitarra lacerante di Guarracino cercano di tenere il passo, imponendo, a loro volta, il proprio “punto di vista”.

Torna in parte la quiete con The Swan. La chitarra carezzata e malinconica di Guarracino e l’andatura lenta di questa prima parte del brano sembrano uscire da un lavoro di Umberto Maria Giardini (arricchito dal sax e da lampi jazzati). A metà percorso, Cianferoni, memore di quanto realizzato nell’episodio precedente, si desta e “scombina” l’ambiente che lo asseconda senza patemi.

Con un attacco quasi hendrixiano (vedi Hey Joe) prende il via Room n. 4. Poi il brano passa nelle mani dello “spensierato” sax di Romboli, mentre in sottofondo le ritmiche e la chitarra si muovono sciolte. Lo stesso chitarrista, un po’ alla Mark Knopfler, ben assistito da basso e batteria, dà poi il cambio in superficie all’ottone. A seguire sarà un continuo ed equo scambio tra i due protagonisti principali in un percorso contraddistinto di sovente dalla “bandiera” jazz.

Green is that time of the year. E quando ormai si è certi di essere di fronte ad un album strumentale, ecco il brano cantato: breve scheggia corale priva di musica.

Molto articolato Green was the light in your eyes, episodio che chiude l’album. Avvio quasi in sordina, poi è un crescendo con momenti cinematografici interessanti, in cui ritmiche e fiati si amalgamano perfettamente, e una freschezza alla Blue Morning. Negli oltre otto minuti del brano si incorre anche in brevi pause, rapide ascese, “riprese”, assoli distorti e taglienti e nel “secondo tempo” del coro comparso nel brano precedente.

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