Picchio dal Pozzo – Abbiamo tutti i suoi problemi

PICCHIO DAL POZZO

Abbiamo tutti i suoi problemi (1980)

L’orchestra

Nonostante il prog italiano “vero e puro”, secondo il pensiero comune, fosse già morto e sepolto da alcuni anni, i Picchio dal Pozzo hanno continuato imperterriti il loro cammino di ricerca sonora “fuori dai canoni”, iniziato nel 1973 e sfociato nel primo album, omonimo, del 1976.

Il nucleo originale della band, formato da Aldo De Scalzi, fratello di Vittorio (tastiere, percussioni, voce, poi anche sax e chitarra), Andrea Beccari (basso, percussioni, corno, voce, poi solo basso e flauto dolce) Paolo Griguolo (chitarre, percussioni, voce, poi solo chitarre e flauto dolce) e Giorgio Karaghiosoff (fiati, percussioni, voce), dopo quell’esperienza ha visto l’uscita di quest’ultimo e l’ingresso in squadra di Aldo Di Marco (batteria, vibrafono, organo) e Roberto Romani (sax, flauto traverso, clarinetto) per la realizzazione dell’album Abbiamo tutti i suoi problemi.

Sperimentalismo, a volte estremo (vedi finale di Strativari), brani privi di ritmiche (ad esempio I problemi di Ferdinando P.) o con ritmiche mutevoli, sortite nel jazz-rock d’avanguardia e nel R.I.O., vicinanza alla scena canterburiana (vedi Soft Machine di Wyatt, Henry Cow), anche se uno dei punti di riferimento, come ammesso dalla band stessa, erano gli Area, testi nonsense: sono questi alcuni degli ingredienti di quest’album. Sono soprattutto i brani brevi quelli più folli, mentre quelli lunghi sembrano, ad un primo ascolto, un po’ più “normali”. Il risultato è una perfetta prosecuzione di quanto iniziato nel primo album (brani come Napier e La floricultura di Tschincinnata, per esempio, si potrebbero trovare perfettamente nel secondo album).

Per la notevole complessità dei brani e l’ironia e stranezza dei testi, l’album è stato accostato, non a torto, alle opere di Frank Zappa. Come apprendiamo dal sito ufficiale della band pare che i ragazzi abbiano confessato ad un consultorio familiare di aver trascorso intere notti, in cinque in una macchina, ad ascoltare “The Black Page” o “Greggery Peccary”.

La copertina del disco è tratta da un quadro di Roberto Romani del 1979 intitolato “Mister Fagiolo”. Il titolo, invece, è la citazione di un frequente errore grammaticale, infatti la frase “abbiamo tutti i suoi problemi” viene spesso usata dai vecchi genovesi per dire che ciascuno di noi ha i propri problemi. Nello stesso filone degli equivoci, c’era in alternativa un altro disegno di Roberto Romani, raffigurante un incrocio con semaforo giallo. Il titolo del disco avrebbe dovuto essere: “Sono Momenti Che Si Passa Un Po’ Tutti” (dal sito ufficiale). Inoltre la confezione del vinile conteneva una copia omaggio del 45 giri Uccellin del bosco.

L’album si apre con La sgargianza parte I. Forma (o meglio, non-forma), musica (gli strumenti, soprattutto chitarra, piano e batteria, fanno quello che gli pare) e testo (C’é in giro una tale sgargianza / che rincuora / doppia le pareti del cervello / le tasta in pieno giorno / finché trova lo spiraglio / basta un vetro rotto / uno sportello marcito / nascosto sotto i capelli / e, un passo dopo, / la senti entrare / battuto così presto / per non aver comprato / quattro viti) di stampo decisamente futurista per questo brevissimo brano (dura 48 secondi).

I primi due minuti di I problemi di Ferdinando P. si sviluppano su un intreccio di sax (suonati da De Scalzi e Romani) e synth, prima del suono di una sveglia, in lontananza, che sembra ridestare dal sonno la batteria, ma è pura illusione. I protagonisti iniziali proseguono il loro percorso imperterriti fino alla fine del brano. Un po’ Henry Cow in Nirvana for mice, ma senza batteria e meno “spinto”.

La sgargianza parte II è concettualmente simile a La sgargianza parte I, ma musicalmente meno scostante. Anche qui il testo è fuori dalla norma: C’é in giro una tale nevralgia / che basta e avanza / fastidio occipitale / da strappare i bottoni / senza contarsi i piedi, se / ritarda luoghi, nomi e date / pesa ogni gesto e costa / non basta: / ritornano i motivi più celebri! / E noi prepariamo le bende / scaldiamo pezze di lana / spalmiamo l’estratto di tigre / sopra le povere giunture.

Moderno ballabile. Come in I problemi di Ferdinando, anche qui in evidenza ci sono i fiati, ma la batteria finalmente s’è svegliata ed entra in scena. Con loro, in questa esecuzione un po’ particolare, anche la chitarra. Variazioni sul tema si hanno poco avanti, ma i protagonisti non cambiano. Intorno ai sette minuti subentra anche la voce recitata. Il testo si mantiene sui livelli degli altri: Erba / un filo dove / comincia laggiù il deserto / lo vedo solo tenace / dove andavo a pescare / presto di mattina / ridevamo presto / occhio lesto / rideva e ride ancora / preme presto / gioia presto / cibo fresco e buono / e buon letto caldo / e lotta dura / sempre più luce / dove conduce / strade autostrade / grilli e grill / lì è sempre festa / triste festa / quasi mai per noi / che siamo / solo di passaggio / assaggio ora / questa rumba.

La sgargianza parte III e IV. Come nelle prime due parti anche qui il testo è l’elemento che più emerge nel brano, sembra quasi una poesia di Palazzeschi (Mola, tolta, stura, lede, / milla, nito, cale, sfa: / c’è in giro una tale prestanza / che ristora / dove abbonda e sfratta a caso / senza un motivo apparente / sapesse almeno scegliere, / invece: mola, tolta, stura, lede / evitando i cattivi odori / offensivi / o ridendoci sopra / senza un motivo decente, / milla, nito, cale, sfa.) il testo della IV parte si limita a Domani t’invito alla prudenza. Musicalmente invece il brano è molto minimalista.

Così i Picchio dal Pozzo descrivono il brano Strativari sul proprio sito: Prendere un astuccio portamatite. Inserirvi 12 bigliettini con le note musicali, due frecce (ottava alta e ottava bassa), e le principali figure ritmiche. Mescolare con cura, estrarre ad occhi chiusi e distribuire ai musicisti. Ecco come è stato scritto “Strativari”. In effetti, si nota l’assenza di una vera e propria struttura. È, in pratica, un vero e proprio brano sperimentale dove si sente appieno il divertimento provato dai musicisti nel realizzarlo.

Mettiamo il caso che. Avvio quasi normale per questo lungo brano (dura oltre quindici minuti), con la voce di De Scalzi in evidenza sulla chitarra, quasi un’atmosfera da PFM, con testo, però, lunghissimo e come sempre particolare (questa, per esempio, è parte della seconda strofa, se così possiamo definirla: Nove verticale: il re del blues / in cinquant’anni non l’ha masticato mai / salgono soprammobili / spighe pipe matte cristi / Sorseggiamo il litorale bilocale / solleggiato affittiamo rinnovato cascinale / occasione verde mare / la persiana sa tacere / prima delle sei c’è luce utile / per mandare biglietti al diavolo / se non piove facciamo un ettaro / teh!). Dopo i due minuti piano e sax, poi sostituito dal vibrafono, tengono sotto controllo la situazione. Poco avanti batteria e solo di chitarra danno un minimo di movimento in più al brano, ma restiamo sempre lontani dalla follia del brano precedente. Almeno per i primi sei minuti, poi sax, basso, vibrafono e batteria iniziano a giocare tra loro, prima del ritorno sulla scena della voce che canta in maniera quasi beffeggiatoria (ricorda il modo di cantare che sarà proprio degli Elio e Le storie tese qualche anno dopo). Negli ultimi minuti ascoltiamo dell’ottima musica, con alcuni cambi di ritmo, in cui emergono un po’ tutti (soprattutto chitarra e batteria).

Come detto sopra, il disco includeva un 45 giri flessibile contenente il brano Uccellin del bosco. Su di esso vi sono riportati come autori del testo Di Marco, De Scalzi e The SIDERALS (pseudonimo utilizzato per suonare ai party), mentre in realtà l’autore è Roberto Romani. Il brano si apre con un crescendo di sax che sembra quasi una lunga serie di pernacchie. Poi voce, basso, sax e batteria si coagulano creando un effetto molto particolare (anche questa tipologia di costrutti sarà utilizzata dagli Elio e Le storie tese), spezzato da un intermezzo un po’ blues (che ritroviamo anche nel finale). Ultimi secondi di liscio. Nel brano è presente anche il cinguettio dell’uccellino del titolo. Il brano fu inserito nella compilation RIO Samples di Chris Cutler degli Henry Cow.

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