Semiramis – Dedicato a Frazz

SEMIRAMIS

Dedicato a Frazz (1973)

Trident

Nell’anno di grazia (in tutti i sensi) 1973, tra i tanti gioielli musicali, l’Italia riceve in dono anche Dedicato a Frazz dei Semiramis. Gli artefici di tale meraviglia sono Maurizio Zarrillo (piano a coda, piano elettrico, organo Eminent, synth, sistro, cembalo), Marcello Reddavide (basso, campane), Paolo Faenza (batteria, vibrafono, percussioni), Giampiero Artegiani (chitarra classica e 12 corde, synth) e Michele Zarrillo (chitarra acustica ed elettrica, voce).

La formazione originale della band (erano tutti minorenni), nata alcuni anni prima, vedeva Memmo Pulvano alla batteria e Maurizio “Macos” Macioce in qualità di cantante e chitarrista. Quest’ultimo fu sostituito dal quindicenne Michele Zarrillo (si, quel Michele Zarrillo) nel 1972. A detta dello stesso Macioce, intervenuto sul blog John’s Classic Rock di John Nicolò Martin, non fu sua la decisione di abbandonare il gruppo, bensì fu una “furbata” di Michele Zarrillo, il quale, geloso della mia voce di gran lunga superiore alla sua (lui era più bravo alla chitarra), con un abile stratagemma e a pochi giorni dal ns. primo concerto a Villa Pamphili, convinse il fratello a portare via gli strumenti dalla mia sala prove, ponendomi come scusa una serata dei Piccoli Lord (band del giovane Zarrillo, n.d.r.) da tenersi con il fratello. Da quel giorno non li ho più rincontrati… […]. Secondo Pulvano, invece, Zarrillo semplicemente una volta venne mentre provavamo, prese la chitarra e cominciò a suonare con noi. Da quel giorno è rimasto nel gruppo (dall’intervista rilasciata ad Augusto Croce nel 2003). A mettere un nuovo tassello in questa storia, probabilmente quello definitivo, ci pensa Paolo Faenza: Quando Maurizio Zarrillo mandò la richiesta di partecipazione al MITICO Festival di Villa Pamphili e ricevette la risposta positiva ebbe un sussulto, perché si rese subito conto che il loro livello era sì buono, come intenzione e testi, ma non eccelso come livello musicale. Quindi riferì a suo fratello della possibilità di suonare insieme ai grandi del rock mondiale! La decisione fu inevitabile, anche perché quel Macos aveva fatto solo qualche prova con loro, e poi avere un talento come Michele, con il quale Maurizio Macioce non poteva assolutamente competere, avrebbe alzato notevolmente il livello della band! (leggi l’intervista).

Ed è ancora Faenza a “smontare” la storia che vede attribuire a Michele Zarrillo la scrittura musicale di tutti i brani dell’album: Noi entrammo in studio, alla Regson di Milano, il 17 settembre del ’73. Nel ’72 io e Giampiero lavorammo per circa un anno nella sala prove di Michele e Maurizio. Credo sia giusto sapere che nei tre concerti iniziali non c’era nessun pezzo di “Dedicato a Frazz”, che nacque interamente con questa formazione. Infatti, anche se il 70% della musica partì da spunti e riff di Michele, anche io e gli altri contribuimmo alla composizione dei brani del disco.

Dedicato a Frazz (Frazz è l’acronimo dei cognomi dei membri della band) è un’opera eclettica e ricca di sfumature, dove ogni tassello è ben studiato e realizzato, si passa da paesaggi puramente prog, richiamanti sia il panorama inglese sia quello nostrano (dai King Crimson ai Balletto di Bronzo), a momenti hard, da atmosfere più dolci e mediterranee ad altre più cupe. I virtuosismi di Michele Zarrillo (il quale padroneggia la chitarra in maniera eccellente) la fanno spesso da padrone, riesce senza alcuna difficoltà ad elargire una quantità incredibile di note sempre precise e cangianti, anche le ritmiche di Faenza e Reddavide, spesso e volentieri spumeggianti, sono di un livello molto alto, così come gli scorci acustici di Artegiani e le cavalcate ai “tasti neri e bianchi” di Maurizio Zarrillo.

Per molti la nota dolente dell’album è la voce, ma va ricordato che si tratta della voce di un ragazzo di sedici anni il quale comunque, a nostro modo di vedere, riesce a districarsi bene tra le variopinte atmosfere dell’album.

I testi molto interessanti e per niente banali del concept album sono stati scritti da Reddavide, questi raccontano la lotta tra la vita reale e la finzione che tormenta l’animo del protagonista della storia, un pagliaccio.

A conferire un livello qualitativo ancor maggiore all’album ci pensa l’incredibile e visionaria copertina surrealista apribile (vedi fotogallery) realizzata dall’artista inglese Gordon Faggetter, ex batterista di Patti Pravo e grafico della RCA.

Già nelle prime battute de La bottega del rigattiere sul piatto vengono messe tutte le potenzialità fantasiose e tecniche della band. Dopo alcuni secondi di vibrafono e tastiere, la chitarra classica di Artegiani inizia un loop, insieme a batteria e tastiere, ipnotico e avvolgente, a cui si adatta la voce di Michele Zarrillo. Lo stesso Zarrillo, poi, con un bel riff, spezza l’incantesimo e, a seguire, un intreccio di chitarre più voce vivacizza il brano.  Ancora un cambio si ha più avanti quando uno stacco di synth improvviso si appropria della scena raddolcendo il clima. Solo la voce squillante cerca di rompere la situazione. Nel finale torna prepotente la chitarra di Zarrillo. Già dal primo brano si nota la particolarità dei testi di Reddavide: Quattro fili da un sostegno che ti regge a malapena / l’odissea peccaminosa trova sfogo nelle mani di un fantastico Arlecchino. / Dal racconto degli attori si ricordano dettagli / i bambolotti in coma da acquistare in un negozio / la vetrina con due facce compra e vende la città. / Vecchio mercante dal cuore di ghiaccio solo le favole tu hai cancellato / nella bottega con scritto il tuo nome trovo soltanto speranze perdute. / Non un giardino ma fonte fatata / o dei viali di un parco di fiaba / quanti altri oggetti che non esistono più. / Il mio aquilone si perde nel cielo / ballando quel valzer di un musicista fallito / rimpianto e ormai morto.

Partenza fulminea per Luna Park, chitarra distorta, piano e batteria si lanciano in un intreccio rapido e ben costruito. Notevoli anche i cambi tra le chitarre prima dell’ingresso in scena della voce e le mutevoli atmosfere tastieristiche e ritmiche. E, dopo un altro eccellente assolo di Michele Zarrillo, c’è anche spazio per un frammento sognante, con il delizioso vibrafono in primo piano, prima del finale corale e frenetico.

Brano dalle varie anime è Uno zoo di vetro. L’avvio con chitarra acustica e voce riporta alla mente le opere delle Orme, poi un synth/organo dà una svolta netta incupendo il tutto. La chitarra zigzagante e i giochi sintetici seguenti impreziosiscono e incattiviscono il brano (i riff “pesanti” richiamano i Black Sabbath). Dopo i tre minuti, poi, torna l’atmosfera spensierata iniziale. L’ultima parte è affidata al vibrafono di Faenza libere di creare paesaggi spirituali un po’ alla Lino Capra Vaccina di Antico adagio.

Altra prova bella e complessa è Per una strada affollata. La prima parte è affidata soprattutto al cembalo e alle evoluzioni sintetiche di Maurizio Zarrillo, inizialmente scimmiottanti, poi “serie” (un po’ Premoli, un po’ Fariselli). Poi la chitarra acustica s’impadronisce della scena offrendo i suoi tocchi malinconici e mediterranei. A seguire scendono tutti in pista con un frammento corale e sinfonico, a tratti marziale. E quando, con gli ultimi giochi di synth, chitarre e cembalo nei secondi finali, sembra tutto finito, ecco arrivare la voce schizzata di Zarrillo che canta: I manichini con gli occhi affondati nel vuoto, vuoto! / Che guarda la gente che passa davanti / e che vuole degli occhi di vetro sognanti. / Nel centro di un mondo lontano dal mondo in cui crede, crede! / È la paura che scorre nel sangue ma cade davanti palazzi / chiudendo la strada e battendo la porta di casa, casa!.

Momento romantico all’avvio di Dietro una porta di carta con tastiere leggere e vocalismi alla New Trolls (sembra di sentire Di Palo/De Scalzi). Poi il synth che subentra al fianco della voce fa intendere che le cose, di lì a breve, cambieranno. Un altro indizio lo dà il breve solo di Michele Zarrillo e, infatti, ai due minuti e mezzo, inizia un nuovo brano, caratterizzato da stacchi repentini ed evoluzioni ingegnose che richiamano inizialmente la PFM per giungere poi a soluzioni d’oltremanica. Grandiose le prove dei due Zarrillo e Faenza, non da meno quelle di Artegiani e Reddavide.

Altro episodio mutevole e straordinario è Frazz. La prima parte è molto evocativa, con cambi d’umore rapidi (dal ritmo battente iniziale ai tappeti leggeri di synth) i quali portano all’ingresso della calma voce di Zarrillo che canta: Tempo fa pensavo / a un cavallo alato / che ti portava sulla luna intorno al cielo / in un sole congelato tra le nuvole dorate. Ai due minuti il brano deflagra. L’organo di Maurizio Zarrillo chiama tutti a raccolta e i Semiramis si lanciano in picchiata in un vortice sonoro imprendibile, con ritmiche incalzanti e chitarre e piano penetranti. A seguire un altro bell’esempio di lavoro di squadra porta alla creazione di un’atmosfera più drammatica. L’ultimo segmento si riapre, col synth alla Pagliuca e la voce che riportano luce e spensieratezza al brano. Zarrillo ci lascia con un interrogativo finale: In fondo a cosa serve cercar la verità?.

Doppia anima presenta anche la finale Clown. La prima  parte è un concentrato di irrequietezza e delirio, si va dall’intreccio di chitarra acustica e vibrafono iniziale, passando attraverso un breve intervento vocale “demoniaco”, sino agli interventi schizzati di chitarra e synth trascinati da un tarantolato Faenza (la mente richiama i Balletto di Bronzo). Anche la voce di Zarrillo dà manforte. La seconda parte è nettamente opposta alla prima. Le chitarre acustiche creano un tappeto molto dolce (più avanti arricchito da tastiera, vibrafono e batteria) su cui si adagia l’intensa e squillante voce di Zarrillo. Il drammatico testo è il commiato del pagliaccio: La mia commedia muore / con la testa piegata dolcemente / sulla spalla, sulla spalla. / È finito il terzo atto / È finita la commedia… / Vieni fuori! Vieni fuori! / Vieni fuori! Vieni fuori! / Sull’amore di un signore con la barba / che cammina lentamente / col bastone che risuona / sulla strada buia e vuota. / Le promesse a quel signore / che disprezza un nano stanco / che truccato nel suo circo / piange e cala giù il sipario. / Ultima luce su un pagliaccio / solo al centro di sé stesso.

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