Soft Machine – Fourth

SOFT MACHINE

Fourth (1971)

CBS

 

Il cammino evolutivo di una delle band simbolo del Canterbury sound, che tra il ’68 e il ’70 ha inciso tre album sempre più complessi, porta ad un nuovo stadio nel 1971 con l’album Fourth.

La formazione vede confermato il quartetto base che ha realizzato quel capolavoro dal nome “Third”: Robert Wyatt (batteria), Elton Dean (sax alto, saxello), Mike Ratledge (organo, piano) e Hugh Hopper (basso). Sarà l’ultima volta di Wyatt con i Soft Machine, prima di creare i Matching Mole (già l’anno prima Wyatt dava segni d’abbandono con la pubblicazione di “The end of an Ear” suo primo album solista).

Alla registrazione dell’album partecipano anche i musicisti Roy Babbington (contrabbasso), Mark Charig (corno), Nick Evans (trombone), Jimmy Hastingsd (flauto alto, clarinetto basso) e Alan Skidmore (sax tenore), tutti strumentisti molto attivi in quegli anni.

Non sono poche le differenze con gli album precedenti. Innanzitutto Fourth è un album strumentale (Wyatt si limita ad usare esclusivamente mani e piedi), gli elementi jazz rock e la sperimentazione la fanno da padrona, nessun accenno psichedelico, le tastiere di Ratledge sono un po’ frenate mentre largo spazio è lasciato ai fiati (Dean fa “il bello e il cattivo tempo”), troviamo anche diversi passaggi scuri (come in alcuni movimenti della suite finale) che fanno virare di netto l’opera.

Teeth. Le evoluzioni ricche e interminabili di Elton Dean al sax sono le protagoniste del lungo brano d’apertura (di certo in Italia qualcuno sarà debitore di Dean, come, solo per citarne alcuni, Maurizio Giammarco dei Blue Morning o Massimo Balla dei Kaleidon, molto probabilmente qualcosa la deve anche James Senese…). Ottimo il lavoro molto free nelle retrovie di batteria e basso, così come gli interventi di piano e organo (eccellente il soliloquio visionario presente nella seconda parte del brano) e gli intrecci dei vari fiati che partecipano alla festa sonora.

Brano leggermente più spoglio rispetto al precedente è Kings and Queens, col sax di Dean che “fatica” ad ingranare, dilatando i propri suoni all’eccesso, mentre la batteria di Wyatt, ben assistita da Hopper al basso, si lancia in evoluzioni che sanno di tribale. Sporadici sprazzi vitali s’incontrano nei minuti finali, dove Dean si ridesta.

Molto caratteristico è il brano Fletcher’s Blemish, un autentico contenitore di sperimentazioni sonore. Inizialmente troviamo Wyatt che si diverte a “ticchettare” con la sua batteria, mentre i fiati s’incrociano tra loro creando un ordito singolare. Poi è un crescendo. Dean “dà in escandescenze” con il suo strumento che si tramuta in una voce sguaiata e spacca cervello, non sono da meno Wyatt & Co.: un turbinio incredibile di suoni privo di una linea guida (sembra anticipare di due anni “Mammoth R. C.” degli Aktuala, brano presente sull’omonimo album).

Il lato B dell’album è interamente occupato dai quattro movimenti della lunga suite Virtually. I primi minuti di Virtually part 1 sono piuttosto cupi e diluiti e sembrano ricreare un’atmosfera teutonica reinterpretata in chiave canterburyana grazie agli ottoni, al piano e alla batteria jazzata. Solo nel finale il movimento si ravviva leggermente.

Decisamente più vivaci i primi minuti di Virtually part 2 con gli intrecci tra ottoni e organo, mentre batteria e basso partecipano con soluzioni estemporanee. E dopo alcune impennate il brano prende una sua andatura precisa grazie alla “normalizzazione” delle ritmiche su cui il sax di Dean continua le sue stravaganti e infinite evoluzioni.

Movimento particolare è Virtually part 3, con alcune soluzioni dei fiati che sembrano quasi anticipare e “scurire” la world music degli Aktuala, mentre il basso distorto che subentra a metà brano va ad accentuare l’atmosfera cupa dilatandola sensibilmente.

Il viaggio “tenebroso” continua anche nei primi secondi di Virtually part 4. Poi Ratledge ed Hopper cercano di portare un po’ di luce, prima che Dean si prenda gradualmente, ma senza dominarla completamente, la scena, con Wyatt che partecipa solo nel finale.

Forse non siamo al cospetto di un album delle dimensioni di “Third”, ma è comunque un’importante testimonianza dell’evoluzione sonora di una delle band che ha inciso profondamente sulla storia della musica di quegli anni (e non solo).

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