Intervista agli ifsounds

Diamo il benvenuto a Dario Lastella (D.L.), Claudio Lapenna (C.L.), Fabio De Libertis (F.D.L.), Runal (R.), Lino Mesina (L.M.) e Gianni Manariti (G.M.): ifsounds.

ifsounds: Grazie a te!

Partiamo da un dato di fatto: ormai sono oltre venti anni che il progetto If/ifsounds è “sulla piazza”. Vi va di fare un primo bilancio di quest’avventura?

C.L.: Già, sono passati più di vent’anni eppure mi sembra ieri quando abbiamo cominciato… Difficile fare un bilancio sintetico di questo progetto, che comunque trovo abbia conosciuto negli anni l’ingenuità prima, la maturazione dopo e vorrei dire anche diverse soddisfazioni.

D.L.: In effetti, per Claudio e per me, la storia della band si sovrappone quasi completamente alle nostre storie personali per una buona fetta delle nostre vite. Come ha già detto lui, è difficile liquidare il tutto in due parole. Posso dire, però, che siamo partiti che eravamo dei ragazzini che giocavano a suonare il rock e mano a mano ci siamo posti obiettivi artisticamente sempre più ambiziosi, che quasi sempre abbiamo raggiunto con fortuna e tenacia. Quindi non possiamo che esserne soddisfatti e orgogliosi, consapevoli, però, di avere ancora tanta strada da fare.

Il progetto If nasce, appunto, nel 1993 alternando, nella sua proposta, cover e brani propri. Come ricordate gli esordi? Quali sono i suoni che troviamo nei primi demo tape? E qual è il background musicale, sia di studi sia di ascolti, che vi ha formati?

C.L.: Il concertone natalizio nel nostro liceo, le partecipazioni alle più sgangherate manifestazioni e sagre di paese, dove in fumo non andavano soltanto le salsicce, ma anche l’acustica di service improponibili e le labili speranze di fare una figura decente. I nostri primi tape furono quelli con registratori a 4 o a 6 tracce su cassette Philips, assistiti da personaggi a volte pittoreschi e a volte anche un po’ antipatici. Personalmente il mio background musicale deriva in parte dagli studi accademici di Composizione presso il Conservatorio, e in parte dalla mia apertura all’ascolto e alla passione per il pop e il rock. I miei primi amori (a parte quelli accademici) furono i Beatles, i Queen, i Pink Floyd, i Police, Bob Marley, gli U2 (solo per citare alcuni degli artisti stranieri)…

D.L.: I primi suoni della nostra band erano terribili! Le buone idee non sono mai mancate, ma le soluzioni tecniche che trovammo erano troppo rudimentali e non c’era nessuno che ci potesse seriamente insegnare i trucchi del mestiere. Con gli anni le cose sono migliorate, grazie all’esperienza e soprattutto agli errori e alle critiche costruttive. E anche il gusto si è evoluto in altre direzioni, aggiungendo ai grandi artisti già citati da Claudio, influenze di band più strettamente prog come King Crimson, PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Yes, Camel…

Perché un nome così semplice: If?

D.L.: Avevamo scelto agli esordi un ossimoro in inglese, Icy Flames. Oggi mi sembra piuttosto ridicolo, ma a 16 anni ci sembrava una figata…

C.L.: Alle suddette sagre di paese il nome Icy Flames veniva storpiato vergognosamente, così ne abbiamo preso solo le iniziali, che inoltre omaggiavano un grande brano dei primi Pink Floyd.

Dopo una pausa, nel 2004 riparte il progetto e in pochi anni realizzate, con le vostre sole forze, quattro lavori (le demo “In the cave” (2004) e “If” (2005), e gli album “The Stairway” (2005) e “Morpho Nestira” (2008)). Quali sono state le differenze essenziali, rispetto agli esordi, nel vostro modo di fare musica? E in cosa differiscono tra loro questi dischi?

C.L.: Quei primi quattro lavori sono il frutto di idee musicali del nostro primo periodo creativo. Hanno visto la luce nella stesura definitiva, oggi disponibile sul nostro sito, dopo diversi passaggi di maturazione. Rispetto ai liceali che strimpellavano negli anni ’90, eravamo già più maturi artisticamente e siamo riusciti a dare una forma migliore alla nostra musica, sistemando gli arrangiamenti e le composizioni e producendo il tutto con più logica e criterio. Il demo “In The Cave” è forse il nostro lavoro più variegato, con idee a volte semplici e a volte con interessanti spunti di ricerca: da un lato potrebbe essere un segnale di una creatività forse ancora acerba, ma dall’altro trovo che la versatilità creativa aiuti a non rischiare di “ingabbiarsi”. “If”, invece, è un lavoro a parte: una raccolta di brani scritti che non facevano parte degli altri album che erano dei concept. Per quanto riguarda “The Stairway” e “Morpho Nestira”, trovo che siano entrambi abbastanza immediati rispetto ai nostri lavori più prog che arrivarono in seguito.

D.L.: C’è da sottolineare un aspetto importante: dopo gli anni del liceo, l’aspetto live ha gradualmente perso centralità nel progetto, fino ad annullarsi completamente nel 2004, quando mi trasferii all’estero. In questo contesto ci concentrammo esclusivamente sulle registrazioni, anche perché quello era l’unico modo di far sopravvivere la band in qualche modo. Il prezzo da pagare fu però molto alto, in quanto, inevitabilmente, gli altri musicisti coinvolti nel progetto e non legati strettamente a compiti di composizione e arrangiamento, finirono col comportarsi praticamente da session men. Questo, purtroppo, è stato un nostro limite enorme, almeno fino a oggi.

Con questi primi lavori la vostra musica diventa sempre più apprezzata dal pubblico, italiano ed estero, e dalla critica. Nonostante i favorevoli giudizi che provengono da ogni parte, però, siete stati “costretti” ad autoprodurvi tutti gli album. Non c’è mai stato un avvicinamento da parte delle etichette discografiche?

D.L.: Il nostro unico interesse è stato sempre trasmettere le nostre idee al pubblico e condividere con gli ascoltatori le nostre canzoni. Purtroppo il mercato discografico era già in crisi e non c’erano certo schiere di label che ci cercavano, ma del resto nemmeno noi le cercavamo…

C.L.: Mi ricordo solo una “bolla di sapone” italiana, che ci offrì un contratto a pagamento (nostro) nel 2006…

Il 2009 e il 2010 sono due anni molto importanti per il gruppo: cambiate il nome in ifsounds, ci sono alcuni avvicendamenti nella formazione e firmate per la casa discografica Melodic Revolution Records. Vi va di descrivere questi due anni? Perché l’aggiunta di “sounds” nel nome? E come nasce il rapporto con l’etichetta americana?

D.L.: Probabilmente il biennio 2009-10 è stato il migliore artisticamente, in quanto in quel periodo abbiamo raggiunto una buona maturità artistica e prodotto musica particolarmente ispirata. Il “sounds” lo dobbiamo al nostro sito web: non mi permettevano di registrare if.com e mi suggerivano come soluzione ifsounds.com. Suonava bene e, siccome di gruppi che si chiamavano “if” ce n’erano già troppi (il principale era un gruppo inglese jazz rock degli anni ’70), abbiamo deciso questa soluzione per essere maggiormente identificabili. Per quanto riguarda i frequenti cambi di line-up, credo che se un musicista si sente un session man e non un membro effettivo di un progetto, purtroppo ha un legame con esso piuttosto labile e finisce col perdere interesse. Ad ogni modo devo dire che tutti i musicisti coinvolti negli anni, che spesso sono anche e soprattutto amici, sono stati sempre molto professionali e ci hanno aiutato ad esprimere al meglio le nostre idee musicali.

C.L.: Il rapporto con la MRR nasce dall’infaticabile lavoro web di Dario che lo ha portato nel tempo ai canali giusti che ci hanno condotto a Nick Katona, l’uomo che finalmente ha creduto pienamente al nostro progetto e ci ha offerto il tipo di contratto che cercavamo.

Il primo album pubblicato con la MRR è l’articolato “Apeirophobia” (2010), disco molto apprezzato dal pubblico e che ha ricevuto una nomination come Best Italian Album ai ProgAwards. Il sostegno di un’etichetta ha modificato il vostro modo di creare musica?

D.L.: Assolutamente no. Nick Katona e la MRR ci hanno sempre dato la piena libertà artistica che cercavamo e ci hanno sempre sostenuto incondizionatamente. “Apeirophobia” è forse il nostro lavoro migliore, quello che ci ha dato più visibilità e che ha rappresentato il passo fondamentale verso il riconoscimento della nostra band da parte di pubblico e critica.

Alla base del concept album “Apeirophobia” vi è la “paura dell’infinito”. Come nasce la scelta del tema e come si sviluppa nei testi?

D.L.: Dal punto di vista concettuale si tratta di un lavoro molto filosofico, che cerca di esaminare il rapporto dell’Uomo con l’infinito e con la morte. La parte iniziale della suite è autobiografica: avevo solo 9 anni e in un pomeriggio di giugno stavo facendo una passeggiata con i miei genitori, quando percepii all’improvviso i concetti di “finito” (la morte che conclude il ciclo vitale) e di “infinito” (la vita eterna, ma in quali termini?), come se si fosse sbloccato un pensiero nascosto nella mia mente. Fu una sensazione orribile: mi sentivo annegare nell’immensità di pensieri e concetti troppo difficili da maneggiare per un essere umano, soprattutto considerando che ero solo un bambino di 9 anni! Quel ricordo lontano mi ispirò i testi presenti nel disco. Per quanto riguarda la musica, le composizioni di Claudio e mie si sposarono perfettamente con i testi e furono suonate in maniera eccellente da un gruppo di musicisti di talento.

La vostra verve compositiva non è mai “doma” e tra 2011 e 2012 pubblicate anche l’EP “Unusual Root” e l’album “Red Apple”. Quest’ultimo disco, in particolare, è tratto dal romanzo “Mela Rossa” scritto da Dario. Come ci si approccia ad un lavoro del genere e quali sono le difficoltà, se ci sono, che si riscontrano nel “musicare” un testo scritto?

C.L.: Anche in questo caso direi che non ci siamo trovati troppo “ingabbiati”, dal momento che nel disco ci sono diversi momenti strumentali e la mia “After”, che esprime concetti non presenti in “Mela Rossa”, nel disco riesce a inserirsi in maniera perfetta, sia musicalmente sia concettualmente.

D.L.: “Red Apple” è stata concepita come la colonna sonora di un film immaginario (magari un giorno qualche regista trarrà un film da “Mela Rossa”… la colonna sonora c’è già!). Credo che sia un buon lavoro, peccato che sia il libro sia il disco non abbiano avuto la necessaria promozione a causa dei miei problemi personali di quel periodo…

Il 2013 è un anno “spartiacque”: il ritorno di Dario in Italia, la possibilità di riprendere l’attività live, l’abbandono del progetto da parte di Franco Bussoli, Enzo Bellocchio e Federica Berchicci, e l’inizio della ricerca dei nuovi componenti per proseguire il cammino ifsounds. Quanto è stato duro uscire da questa fase che ha preceduto la pubblicazione dell’album “Reset” per Claudio e Dario?

C.L.: Claudio ha trovato un ottimo “piatto pronto” preparato da un ottimo “cuoco” Dario che ha lavorato molto sodo e a lungo… e a lui va il mio grazie.

D.L.: Il 2013 per me è stato un anno tremendo sia dal punto di vista personale sia artistico. Pensavo che il mio rientro in Italia sarebbe coinciso con un immediato ritorno all’attività anche live della band. Purtroppo mi sbagliavo di grosso e, paradossalmente, proprio il mio ritorno e la conseguente e inaspettata “fuga” di gran parte dei musicisti ha messo in discussione l’esistenza stessa degli ifsounds. Io stesso sono stato sul punto di mollare tutto. Fortunatamente l’incontro con Runal ha riacceso il fuoco sacro e ci ha permesso di ricominciare. Non è stato facile, abbiamo avuto altre delusioni e difficoltà legate al comportamento di alcuni musicisti, che in un primo momento sembravano aver sposato il progetto, ma poi si sono tirati indietro. Fortunatamente grazie alla tenacia e allo spirito naturalmente ottimista e positivo di Runal, all’appoggio dell’amico fraterno Gianni Manariti e alla successiva incorporazione dell’ottimo Fabio De Libertis, siamo riusciti a far partire i nuovi ifsounds, fino a comporre e realizzare “Reset”.

Il 2015 è l’anno di “Reset”. Quali sono, a vostro modo di vedere, le differenze sostanziali (compositive, musicali, ecc.) dei nuovi ifsounds rispetto al passato?

C.L.: La svolta verso sound più incisivi, più duri, più rock, insomma, pur senza abbandonare le atmosfere calde (come “Laura”, ma come in fondo anche “Svanisco nel blu”) in cui personalmente mi trovo più a mio agio.

D.L.: Volevo che Runal, Fabio e Gianni non si sentissero in nessun modo i “sostituti di qualcuno”, ma che fossimo tutti insieme una band nuova e diversa dai vecchi ifsounds. Per questo motivo ho insistito affinché mettessero molto del loro bagaglio musicale nel disco, estremizzando e a tratti forzando una rottura, a volte violenta, con il sound degli album precedenti. Probabilmente in futuro torneremo a soluzioni più prog e più in linea con la nostra storia, ma su “Reset” era necessario fare tabula rasa del passato e ricominciare con una nuova energia.

Dario, come hai già avuto modo di approfondire in altre sedi, dietro al titolo “Reset” non c’è solo il concetto di “riformulazione della band”, ma vi troviamo qualcosa di molto più profondo e personale. Come sei riuscito a far convergere questi aspetti in un’unica “traiettoria” e qual è, invece, la “scintilla prima” che ha dato il via al tutto?

D.L.: La scintilla alla base di un nuovo progetto è quasi sempre legata a esperienze personali. In questo caso si è trattato della fine di una fase della mia vita e l’inizio di una nuova, con tutte le difficoltà legate agli inevitabili strascichi che vengono da dietro e alle ombre e le incertezze che si vedono davanti. Di questo si parla in particolar modo nei due pezzi che aprono e chiudono il concept. Poi le vicende artistiche mi hanno dato il segnale definitivo e inequivocabile, che fosse necessario azzerare il passato e ricominciare una vita nuova, sia artistica sia personale. “Reset” cerca di tradurre in suoni e parole questi sentimenti e queste consapevolezze.

I nuovi “acquisti” in casa ifsounds si chiamano Fabio De Libertis, Runal e Gianni Manariti. Com’è stato il vostro impatto in questo progetto già “avviato”? E cosa c’è nel vostro passato, artisticamente parlando, prima degli ifsounds?

F.D.L.: Prima degli ifsounds ho suonato in varie band hard rock e classic rock, quindi le sonorità prog anni ’70 non mi erano nuove. La sfida lanciata da Dario è stata molto stimolante, in quanto “Reset” è un concept in cui immagini e suoni dovevano amalgamarsi in un prodotto finale efficace. Non è stato semplice, ma con gli arrangiamenti spesso più diretti e immediati rispetto ai vecchi dischi degli ifsounds, credo che abbiamo ottenuto un buon risultato.

R.: Non ero tanto sicuro di essere adatto a questo progetto dato che nei precedenti due album le voci erano femminili, ma Dario ha sempre dato spazio alle interpretazioni personali (sacrificando anche un po’ il carattere musicale degli ifsounds che ora è più “diretto”) quindi mi sono trovato subito a mio agio. Nel mio passato c’è un’adolescenza rock nei Tributo Negativo, in cui abbiamo sfiorato anche l’idea prog nell’ultima fase (cuccioli che graffiavano J). Poi tanti Doors con i Blue Bus (tribute band) e qualche collaborazione con Thomas Hand Chaste (ex Death SS, Paul Chain Violet Theatre, ecc): un pizzico di Doom-Stoner con i Witchfield. Oggi oltre agli ifsounds canto in una band rock-blues: i Blue’s’pirit.

G.M.: Per me una bella esperienza, in fin dei conti io e Dario siamo come fratelli e nel momento in cui ho conosciuto gli altri membri è stato facile oltre che suonare incontrarsi fuori dalla sala prove a far serata. Per quanto riguarda il mio passato musicale, ho avuto diverse band ed esperienze nella “discografia indipendente”. Attualmente sono tecnico del suono e produttore di una label stoner italiana, suono la batteria con Le Scimmie, e canto nella band Ottovolante.

Gli inizi del 2016 hanno portato ad un nuovo avvicendamento in casa ifsounds: Gianni Manariti ha lasciato il suo posto di batterista a Lino Mesina. Come mai questa “presenza lampo” di Manariti? Lino, conoscevi già la band? Quali sono le tue prime impressioni?

G.M.: La mia presenza lampo è dipesa dal semplice fatto che non riesco a suonare per troppo tempo nello stesso progetto e ho sempre la necessità di reinventarmi. Di una cosa però sono particolarmente contento, la mia dipartita ha portato negli ifsounds un nuovo batterista in grado di portare la band verso una crescita in fase di arranging.

L.M.: Non conoscevo la band prima di farne parte e le mie prime impressioni sono positivissime, persone serie con la grande ambizione di crescere, migliorarsi e, perché no, di farsi conoscere sempre di più per potersi avvicinare al successo… Sono contento di far parte di questo nuovo progetto musicalmente interessante.

Torniamo un po’ indietro. Il progetto ifsounds è nato in Molise, un territorio che, un occhio esterno, potrebbe immaginare poco “dinamico” sul fronte musicale rispetto a ben altre consistenti realtà. Cos’ha, dunque, offerto a voi (dagli inizi sino ad oggi) e cosa offre attualmente alle giovani band la vostra terra?

C.L.: Per noi l’offerta di opportunità di proporci non è stata larghissima e anche reperire facilmente i dischi nuovi o andare a concerti di qualità non era una cosa sempre semplice. Oggi, invece, per le nuove generazioni è tutto estremamente più facile: tra web e social l’accesso alle fonti e alla conoscenza musicale non ha più molti ostacoli, anche nella nostra terra.

D.L.: Faccio una battuta, dal 2013 ci siamo allargati anche al Basso Abruzzo, visto che oggi 3/5 degli ifsounds non sono molisani! A parte gli scherzi, credo che oggi la provenienza geografica abbia un’importanza relativa, visto che chiunque può fare ascoltare la propria musica ovunque. Il problema forse era più sentito 20 anni fa. Ad ogni modo, anche nei piccoli centri ci sono belle realtà musicali, a volte anche più interessanti di quelle che si sviluppano nelle grandi città. Forse il problema maggiore deriva dalla scarsa presenza di spazi di qualità dove potersi esibire, ma temo che questo non sia un problema molisano o abruzzese, ma nazionale e riguardi la maniera che abbiamo in Italia di vedere e vivere la musica e l’arte e il mestiere di artista, che semplicemente non viene considerato un lavoro “vero” come è in realtà.

Come detto in precedenza, la vostra musica è da sempre molto apprezzata anche all’estero. Che idea vi siete fatti della cultura musicale europea in questi anni, del modo in cui il pubblico ne fruisce, dello spazio che si dedica alla musica dal vivo, e quali sono le differenze con il nostro paese?

C.L.: L’Italia resta sempre un paese dalle pochissime opportunità musicali per band come la nostra, e a mio avviso è vittima di un pessimo retaggio culturale legato sempre a prodotti confezionati esclusivamente per un grande pubblico: di per sé non disprezzo un brano solo perché è commerciale, ma se sei al di fuori di certi circuiti, in Italia non vai molto lontano. In altri Paesi, invece, anche band “di nicchia” possono vivere dei loro album e dei loro concerti.

D.L.: Nei Paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti, fare il musicista è considerato un lavoro serio ed è possibile viverci. Qui è molto difficile e i pochi che ci riescono sono costretti a “marchette” indegne, che troppo spesso minano anche la loro dignità e la loro integrità artistica. Ma non li giudico e in fondo li capisco. Certo è triste pensare a tanti colleghi di grande livello, costretti ad avere un “day-job”, o peggio ad elemosinare ingaggi in sagre improbabili e ridursi a fare tour in cover band.

Cosa dobbiamo attenderci dagli ifsounds per il prossimo futuro?

C.L.: Speriamo almeno altre belle recensioni come la vostra.

R.: Io spero di “sfogarmi” presto dal vivo con questi ragazzacci!

F.D.L.: L’obiettivo immediato è sicuramente fare qualche live, ma a medio termine certamente vorremo lavorare su molte nuove idee che stanno emergendo in sala prove.

D.L.: In effetti, dopo aver fatto qualche bel live, cosa a cui tengo molto, visto che è da troppi anni che la band non suona dal vivo, ci piacerebbe dare un seguito a “Reset” con questa formazione, che sta acquisendo un’intesa musicale ogni giorno maggiore.

Grazie infinite per la bella chiacchierata!

D.L.: Keep on the great work!

(Gennaio 2016)

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