Intervista agli Ozone Park

Un caro benvenuto a Giuseppe Chironi (G.Ch.), Gianluca Cossu (G.Co.) e Alessandro Masala (A.M.): Ozone Park.

G.Ch.: Grazie.

G.Co.: Grazie!

A.M.: È un piacere.

Iniziamo la nostra chiacchierata dalle origini: come nasce il progetto in quel di New York e cosa vi porta ed essere dall’altra parte dell’oceano Atlantico, nello stesso posto e nello stesso momento? E cosa c’è prima degli Ozone Park nelle vite di Giuseppe, Gianluca e Alessandro?

G.Ch.: È tutta colpa di un noioso seminario jazz al quale ho voluto iscrivermi per dar retta ad Alessandro, col quale mi lega una amicizia trentennale. Il seminario è stato molto noioso ma ho avuto l’opportunità di conoscere Gianluca e Davide (il sassofonista di “Fusion Rebirth”, il nostro primo disco) e di iniziare così questa nostra avventura musicale.

G.Co.: È stato veramente un caso fortunato esserci incontrati così lontano, sapevo che avrebbero partecipato altri italiani ma non mi aspettavo praticamente di ritrovare li altri “vicini di casa”. Il caso ha voluto che ritrovandoci proprio lontani da casa e conoscendoci siano venute fuori idee e progetti comuni che avevamo voglia di sviluppare!

A.M.: Sinceramente è stato merito delle mie insistenze se ci siamo incontrati tutti a New York. In fondo, se non avessi insistito perché Beppe partecipasse al seminario, non avremmo mai fondato gli Ozone Park.

Perché decidete di “dedicare” il nome della band all’omonimo parco newyorkese?

G.Ch.: Ozone Park è anche un distretto del Queens, quartiere di New York, dove abbiamo alloggiato e suonato. Ci è sembrato giusto dedicare il nome del gruppo al quartiere che ci ha fortemente ispirato e fatto conoscere.

G.Co.: Beh, non potevamo che dedicare il nome della band al luogo dove ci siamo conosciuti e incontrati.

A.M.: Il primo disco, “Fusion Rebirth”, è nato da composizioni che sono venute fuori in forma embrionale proprio a New York (si trova qualcosa anche su Youtube di quelle registrazioni originarie). Il nome ci è venuto spontaneo.

Nel 2017, ad un anno di distanza dalla nascita del progetto, siete già pronti per l’esordio discografico: “Fusion Rebirth”. Jazz, rock, improvvisazione, prog, bossa nova, musica nera e altro ancora: il termine “fusion” del titolo è da interpretare, quindi, letteralmente come “fusione/unione” di generi, idee, spunti. Mi raccontate, dunque, la genesi dell’album? Quali sono state le fonti d’ispirazione che vi hanno “aiutato” nella sua creazione?

G.Ch.: Ascoltiamo quasi ogni genere musicale senza pregiudizi e inevitabilmente qualcosa ci rimane di ogni composizione. In realtà, però, sono sempre stato un grande amante del funk e del jazz e probabilmente nelle tracce di basso di “Fusion Rebirth”, che sono nate da me, questa influenza si sente.

G.Co.: Suonando le percussioni nel primo disco non potevo che influenzare la band verso quel sapore latino che emerge soprattutto in certi brani, dove quel tipo di percussioni, appunto latine (congas, bongos, timbales), si esprime meglio. Ma eravamo comunque tutti influenzati dalla fusion e dal jazz rock anni ‘70 e penso si capisca bene. Hai detto bene perché il termine “fusion” lo abbiamo inteso proprio così, come unione e fusione di vari generi e influenze, non proprio come genere musicale.

A.M.: Personalmente non sono legato a un genere. Ascolto tutto, dalla musica da camera al thrash metal, quindi è difficile stabilire con esattezza quali siano le influenze che hanno ispirato il mio modo di suonare quel disco. Sicuramente l’aria newyorkese e l’eccitazione di essere lì hanno influenzato alcuni brani.

Passano soli tre anni e siete pronti per un nuovo lavoro: “Planetarium”. Tante sono le differenze dall’esordio. La prima: l’uscita di Davide Nicola Buzzo. Come mai questa defezione? E com’è stato “reinventarsi” in trio e senza fiati?

G.Ch.: In realtà la reinvenzione come trio è avvenuta subito dopo i primi concerti di presentazione del primo disco. Davide è rimasto un nostro caro amico, ma per motivi personali ha dovuto allontanarsi dal progetto. Abbiamo a quel punto completamente arrangiato i brani per l’esecuzione live a tre. E sono venuti in alcuni casi molto più curati e complessi che nel disco. Il live di “Fusion Rebirth” è un’esperienza d’ascolto che consiglio a tutti quelli che hanno acquistato il disco e presto ci sarà un concerto live “virtuale” che conterrà alcuni dei brani. “Planetarium” è, invece, un album molto più complesso e curato fin dal principio. C’è voluto un anno e un lockdown per registrarlo tutto.

G.Co.: Inizialmente, a partire da quando siamo rimasti in tre (tre somari e tre briganti, cit. [sorride]), abbiamo utilizzato il vibrafono nelle parti precedentemente dedicate ai fiati. Ma è suonando in trio che abbiamo notato come la nostra sonorità stava cambiando e andando sempre di più sul versante prog. Così abbiamo deciso di improntare il nuovo disco su questo genere che unisce le nostre sperimentazioni, sposa i sintetizzatori di Beppe e la batteria solida di Alessandro. Cosa mancava? Un basso elettrico per dare più dinamicità al tutto. Allora mi sono buttato e ho rispolverato un vecchio Aria degli anni ‘70. Ho scelto volutamente di registrare con quello, aveva il suono perfetto per quello che volevamo creare.

A.M.: Bisogna dare atto a Gianluca di aver saputo sopperire col vibrafono dal vivo ai vuoti solistici creati dalla mancanza di Davide. Nel nuovo disco, inoltre, Gianluca si è saputo sapientemente reinventare bassista. La nostra ecletticità musicale fa si che comunque i brani risultino sempre completi dal punto di vista ritmico e armonico, a prescindere dal ruolo che abbiamo in un determinato brano come musicisti. Siamo molto intercambiabili… Beppe in “Planetarium” canta, fa assoli di chitarra distorta (con un synth) e io suono la tromba nautica in “Pianeta 9”.

Se il primo disco della band sarda aveva l’obiettivo di avvicinare alla musica jazz e fusion anche un pubblico distante da questi generi, nel nuovo lavoro questo presupposto catalizza i nuovi ascoltatori verso qualcosa di più difficilmente classificabile, quindi tipicamente e più decisamente classificabile come ‘Progressive’. A cosa è dovuta questa “svolta”? E cosa c’è, dunque, di realmente differente (in ambito compositivo e non), tra “Planetarium” e “Fusion Rebirth”?

G.Ch.: In realtà non devi aspettarti punti di arrivo. Questo disco è stato solo una tappa del percorso. Non escludiamo, col prossimo, di spingerci in sperimentazioni ancora più stravaganti o particolari e totalmente diverse dai territori esplorati fin qui… Il fatto che questo album sembri più prog del precedente è solo casuale. Ricordati che io ho ascoltato tanta musica africana, Gianluca è un percussionista eccellente prima che un bassista e Alessandro ha un cuore metal. Cosa potrebbe venire fuori in futuro?

G.Co.: Come ho già espresso nella domanda precedente sono del parere che sia il genere che calza a pennello con la nostra idea. La musica progressiva negli anni ‘70 era chiamata così perché prevedeva una grande sperimentazione, e rompeva un po’ gli schemi della musica leggera. E in effetti è quello che vogliamo fare, sperimentare.

A.M.: Il nostro obiettivo è quello di avvicinare alla musica progressive tutti coloro che hanno sempre scansato questo genere considerandolo “difficile” od “ostico” da ascoltare. Come l’altro disco voleva avvicinare al jazz da una prospettiva semplice ed orecchiabile, questo vuol fare lo stesso con il prog. Magari col prossimo, vorremo avvicinare il pubblico ad altri generi non convenzionali o cantare coll’autotune!

Altra novità in “Planetarium” è la presenza del cantato in due brani. Quando e come nasce l’“esigenza” di inserire una voce? Mi parlate dei due testi un po’ surreali di “Bingo Vegas” e “Pianeta 9”?

G.Ch.: La voce è mia solo perché gli altri due Ozones non hanno avuto il coraggio di raccontare le idiozie che io mi sono fatto carico di cantare. In realtà, la scelta è casuale e nasce da un pomeriggio nel quale cercavamo di canticchiare un tema strumentale per “Bingo Vegas” (ma solo per ridere tra noi). Ho iniziato col dare letteralmente i numeri. Da lì l’idea di raccontare una tombola aliena. Ci è piaciuto, lo abbiamo rifatto in “Pianeta 9”, ripetendo una scena realmente accaduta e spostando solo la location da una strada provinciale allo spazio.

G.Co.: Beh, “Bingo Vegas” viene da un’idea bizzarra e scherzosa di Beppe che un giorno ha iniziato a giocare con il vocoder in sala durante un pezzo in fase embrionale. Fatto sta che questo ci è piaciuto molto! E da lì è nata “Bingo Vegas”. “Pianeta 9”, invece, è una storia in parte realmente accaduta, ve la racconteranno meglio Alessandro e Beppe [risata]. In realtà si poteva chiamare “SP 9” (strada provinciale), ma nello spazio è ovviamente “Pianeta 9”.

A.M.: In effetti, dopo un concerto degli Ozone, lontani da casa, io ero alla guida e Beppe e Gianluca i passeggeri. Ad un certo punto Beppe ha manifestato l’esigenza di accedere a un bagno in piena campagna e in piena notte per un bisogno urgente. Il resto della storia lo ascolterete nella traccia n. 8 del CD.

Entrambi gli album sono accompagnati dagli artwork decisamente interessanti e particolari realizzati da Carmela Pinna. Come prende il via la collaborazione con l’artista e quanto di vostro c’è nelle sue opere?

G.Ch.: Mi lega con Carmela un rapporto molto profondo che dura da quando sono nato, visto che è mia madre! Ma senza volerne tessere le lodi in modo stucchevole, mi limiterò a dire che è oggettivamente una pittrice originale e di grande talento ed esperienza. Ha esposto più volte le sue opere e io amo molto il suo stile sempre piuttosto bizzarro, come la musica suonata dal figlio. È sempre stata entusiasta dei nostri lavori e ha voluto partecipare graficamente agli stessi. Spero che le copertine piacciano a tutti. Nel primo disco abbiamo “rubato” opere già create. E lo abbiamo fatto anche nel secondo, eccezion fatta per la copertina aliena che è stata creata su commissione!

G.Co.: Personalmente sono sempre stato attratto da quel genere di quadri e penso che sia azzeccatissimo per rappresentare la nostra musica!

A.M.: L’idea è nata facendo le nostre riunioni musicali post-prove in un ufficio tappezzato di quadri dell’artista che ha realizzato le nostre copertine. Dopo la prima azzeccatissima esperienza con la copertina di “Fusion Rebirth”, abbiamo deciso di commissionare anche la seconda.

Nei vostri lavori si percepisce nitidamente una totale libertà espressiva e una buona dose di divertimento. Ma come nasce un brano degli Ozone Park?

G.Ch.: Io e Alessandro siamo più anzianotti e quindi ci sentiamo veramente liberi di esprimerci senza minimamente preoccuparci delle reazioni degli ascoltatori o degli spettatori (le nostre performance live sono piuttosto colorite). I brani di “Fusion Rebirth” nascono da un tema di basso, in “Planetarium” da un’idea armonica nata improvvisamente in studio… Alla base poi associamo una struttura più complessa e un tema… e così formiamo una prima parte del pezzo. Se la volta successiva il nostro umore è cambiato, la seconda parte sarà totalmente diversa e cercherà di spiegare come si è passati da uno stato ad un altro (a volte in modo netto). Normalmente un brano contiene 4 o 5 stati d’animo diversi. Questo si avverte chiaramente nelle composizioni finite.

G.Co.: Dice bene Beppe, in ogni brano ci sono diversi stati d’animo e di immaginazione. Alla fine, questi vengono confinati in una struttura solitamente intervallata da ponti musicali che permettono alle varie parti (stati d’animo, come li abbiamo chiamati) di dialogare tra loro. Cerchiamo di inserire elementi per far sì che l’ascoltatore si ritrovi spesso sorpreso, in modo che l’ascolto sia ben fruibile.

A.M.: Di solito, chi osa maggiormente, specie in campo estetico nei concerti, sono proprio io. Sono stato esploratore e soldato spaziale, attraversando tutta la platea nel concerto di presentazione di “Planetarium”. Ero armato di pistole spaziali. In altri concerti ho cantato la canzone “Senza luce” dei Dik Dik come introduzione al nostro pezzo “Rockambolaction”, facendo credere ai presenti che il concerto fosse dei Procol Harum e non degli Ozone, ho esibito un abito tigrato giallo e nero in occasione del Festival Jazz di Seui dove abbiamo presentato “Fusion Rebirth”. Il mio sogno è un concerto con gli Ozones in kilt. E prima o poi lo faremo.

Come sono stati accolti i due lavori da critica e pubblico?

G.Ch.: “Fusion Rebirth” ha venduto tutte le copie fisiche disponibili. Ci sono arrivati solo complimenti. Il disco è stato registrato con un po’ di fretta (la precedente produzione ci ha concesso solo due giorni per le riprese) e noi sappiamo quanto avremmo potuto registrarlo meglio con un po’ più di tempo. Chi lo ha, invece, sentito dal vivo dopo mesi di arrangiamenti è rimasto entusiasta. Speriamo di poterlo far sentire presto ancora a tanti altri. “Planetarium” ha ricevuto moltissime lodi e la distribuzione curata da Loris Furlan sta andando alla grande in tutto il mondo. Essendo uscito da appena due mesi, è presto per fare bilanci. Devi considerare che ancora non abbiamo neppure potuto suonarlo dal vivo, ad eccezione del concerto di presentazione al Festival In Progress… One 2020 ad agosto.

G.Co.: “Fusion Rebirth” è stato ampiamente apprezzato anche se avremmo preferito suonarlo molte più volte dal vivo. Per “Planetarium”, che è appena uscito, già stiamo ricevendo diverse attenzioni, e il pubblico sembra molto entusiasta. Il concerto di presentazione al Festival Prog di Sestu è stato un gran successo, e abbiamo venduto tutte le copie che avevamo con noi quella sera.

A.M.: Avendo la possibilità di vendere in forma diretta le copie fisiche di “Fusion Rebirth”, sono stato quello che ne ha ricevute di più (alcune centinaia). Dopo pochi giorni non me ne era rimasta neanche una. Va ricordato il grande lavoro di distribuzione fatto in seconda battuta da Loris Furlan di Lizard Records (che sta distribuendo anche “Planetarium”, il nostro secondo disco) che ha portato entrambi i lavori in tutta Europa e in gran parte del resto del mondo. Oggi i nostri dischi sono acquistabili in formato fisico in Giappone, negli Usa, in quasi tutti i paesi europei, in Sudamerica.

Emme Records, HC Group e Lizard Distribution: come sono (o sono stati) i rapporti con le tre “forme di supporto esterne” e quanto, effettivamente, sono state e sono d’aiuto per la promozione della vostra musica?

G.Ch.: Ad Emme Records dobbiamo la fiducia iniziale. Ad HC la voglia di investire su un disco non propriamente di musica leggera. Lizard è sempre grandiosa nella distribuzione. E devo dire che a Loris piacciono molto i nostri dischi.

G.Co.: Possiamo dire che grazie a Lizard abbiamo trovato l’utenza giusta per la distribuzione del nostro lavoro.

A.M.: Abbiamo fatto il vero salto in termini di diffusione della nostra musica grazie a Lizard che è stata ed è sempre super capillare nel diffonderla.

Spostandoci, invece, sul fronte live, come sono gli Ozone Park sul palco? Cosa c’è da aspettarsi da un vostro concerto? Mi intriga parecchio, per esempio, il vostro abbigliamento space

G.Ch.: L’abbigliamento space è l’ultimo della serie. Siamo stati Super Mario Bros (ma a colori invertiti), abbiamo indossato abiti con svariate livree, abbiamo indossato abiti femminili. “Planetarium” è più caratterizzato, quindi un po’ lo space comanda, ma per “Fusion Rebirth” ci siamo scatenati.

G.Co.: Sul palco curiamo l’immagine della band e il nostro abbigliamento, perché pensiamo sia parte dello spettacolo. Penso che qualcuno sia venuto a sentire qualche concerto anche solo per vedere come ci saremmo vestiti.

A.M.: Come ho spiegato anche prima, io sono sempre il più trasgressivo e devo convincere gli altri a osare sempre di più. Se abbiamo indossato tutta quella roba lo dobbiamo al mio coraggio che ci ha fatto sentire tutti più liberi e sereni.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

G.Ch.: È capitato che chi fosse molto bravo coi social e con l’uso di programmini vari (autotune e programmi con basi pronte) facesse successo in questi contesti, utilizzati molto dai giovani, senza reale sacrificio o capacità e talento. Personalmente ritengo che la musica sia tutta bella, ma quella più bella non la trovi appena apri un social e certamente quasi mai la musica commerciale rimane nel cuore per più di qualche mese. Ti viene presentata quella per prima, quella più interessante devi saperla scovare e, con gli anni, se sei un esploratore, cerchi sempre qualcosa di nuovo.

G.Co.: Io non penso che la musica sia tutta bella, cioè, penso che sia bella se ha un reale motivo di chiamarsi musica, e venire identificata come forma d’arte.

A.M.: Anche io penso che la musica sia tutta bella, ma quella più bella la suoniamo noi.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?

G.Ch.: Il discorso è collegato a quello fatto nella risposta alla domanda che mi hai rivolto poco fa. Si tende a voler investire su generi commerciali che danno risultati economici immediati con costi contenuti. Anche il mangime per i polli in batteria costa poco e li ingrassa in fretta. Ma i polli allevati liberi e con alimentazione naturale sono più buoni e più sani. La globalizzazione della produzione musicale, l’industrializzazione del processo, sono utili ma estremamente pericolose.

G.Co.: Beh, oggi, come in tutti i settori, anche la musica è strettamente commerciale. Il prodotto deve vendere, vendere il più possibile e deve accontentare le masse. E di contro abbiamo che le masse ascoltano solo quello che gli si propone più facilmente, spesso e volentieri spazzatura. Sono del parere che bisognerebbe rieducare, invece, il pubblico all’ascolto. Abituare l’orecchio ad essere più fine.

A.M.: Non esistono più produttori che vogliano scommettere su generi più elaborati e ricchi. E di conseguenza non esistono radio che mandino musica di qualità. Personalmente preferisco cercare attivamente la musica da ascoltare piuttosto che subire quella che la radio vorrebbe che ascoltassi.

Voi siete sardi. Qual è il rapporto artistico che intercorre tra voi e l’isola e quanto può essere “limitante” (se lo è) l’evidente distanza fisica dalla penisola (penso a concerti, contatti umani/artistici, ecc.)?

G.Ch.: Il vantaggio del web qui è indubbio. Ci ha permesso e ci permette di eliminare molte barriere. Noi ci spostiamo comunque con facilità e stiamo programmando un tour italiano post Covid. È già in programma un concerto a New York. Ci vogliono fortemente come ospiti e conoscono bene la nostra storia.

G.Co.: Beh, certo che qualche limitazione in più c’è essendo in Sardegna. Ricordo poi una citazione “nessuno è profeta in patria”. Ma il concerto newyorkese penso sarà una grande occasione per noi.

A.M.: Il traguardo newyorkese per me è già una grande soddisfazione. Non tutti i gruppi contemporanei, specie quelli non commerciali, possono vantare una esperienza come questa.

E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

G.Ch.: I musicisti sono falsi [sorride]. Tutti si fanno i complimenti a vicenda ma poi sono molto invidiosi. Personalmente noi amiamo tutti e vogliamo suonare con tutti. Sono tutti bravissimi!

G.Co.: Ahahahah! Sto ridendo per la risposta di Beppe e non riesco a rispondere. Riguardo alle collaborazioni si avverte che ognuno sia un po’ geloso del proprio progetto, si dovrebbe essere più uniti e sostenere soprattutto i progetti originali. Andarsi a sentire a vicenda, sostenersi anche tra musicisti. Ma questo spesso non avviene. Gli spazi per poter esprimere progetti simili sono pochi, per questo preferiamo selezionare i concerti e fare solo roba qualitativamente interessante!

A.M.: Se facessimo trap o con noi ci fosse Baby K sicuramente suoneremmo quantitativamente di più e faremmo un sacco di soldi. Siamo felici di fare un numero più limitato di concerti ma oggettivamente apprezzati anche dagli ascoltatori della musica pop. Le possibilità di collaborazione in Sardegna sono poche perché in questo ambito musicale in terra sarda siamo piuttosto originali.

Esulando per un attimo dal mondo Ozone Park e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

G.Ch.: Sono un ottimo falegname amatoriale, idraulico, muratore ed elettricista. Ma nessuno di questi è il mio lavoro, quindi come attività artistiche dovrebbero valere!

G.Co.: Sono un musicista di professione, per la precisione un percussionista classico, batterista e insegnante di musica. Siccome non mi basta mai, nel tempo libero suono il basso con gli Ozone Park [risata].

A.M.: Nessun altre oltre la musica. Se poi fare cappuccini è un’arte, vi aspetto nel mio bar per insegnarvi tutto.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

G.Ch.: Ho avuto molti amori folgoranti e altri duraturi, ma poi sono sempre finiti.  Sono stato sicuramente influenzato da Paolo Conte, dai Goblin, dai Genesis, dagli Area, dai Gentle Giant, da Frank Zappa, ma anche da Michel Camilo, Petrucciani e più recentemente dagli Snarky Puppy. In Italia ho amato molto il primo Pino Daniele e i Napoli Centrale, alcune cose di Lucio Dalla e Battiato. Mi piacciono alcuni brani di Gazzè e Caparezza! Recentemente mi sono ri-innamorato di Orme, PFM, Alberto Radius, The Police, Matt Bianco, Toto, Donald Fagen, Talking Heads. Lo so, avevi chiesto un podio… ma sappi che mi sono limitato.

G.Co.: Ho avuto sin da piccolo strumenti musicali in casa, mio padre amatore della musica e musicista per passatempo mi ha fatto conoscere tanta musica buona. Ho iniziato a 6 anni a “studiare” batteria e percussioni nei corsi della banda musicale del mio paese, a 8 suonavo la gran cassa in banda alle processioni e a 13 anni ero appassionatissimo di rock anni ‘70. Avevo i capelli lunghi e sognavo di suonare ad un concerto al Madison Square Garden come i Led zeppelin o di fare un assolo di batteria a petto nudo come Ian Paice. Per quanto riguarda le percussioni latine mi ha ispirato molto la musica di Santana inizialmente. Poi c’è stato il conservatorio, la musica classica e la musica contemporanea. Sono sempre stato grande estimatore di PFM, Banco, Orme, Area e di molti gruppi che hanno fatto la storia del prog italiano. Ascolto anche jazz e musica sperimentale contemporanea.

A.M.: Morricone, Dream Theater, Iron Maiden.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

G.Ch.: Non credo sia facile dare un consiglio di questo tipo. Andrei sui classici. Personalmente consiglio a tutti le letture di Milan Kundera.

G.Co.: Iannis Xenakis, uno dei compositori più formidabili ed innovativi del ‘900.

A.M.: Maurits Cornelis Escher, e dico tutto.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

G.Ch.: Personalmente spero che questa emergenza, che costringe al virtuale, passi e si ritorni a suonare dal vivo, possibilmente da vivi.

G.Co.: Sono tempi duri per la musica, e soprattutto per chi con la musica ci lavora. E proprio in questo periodo, purtroppo, è venuta fuori la scarsa tutela che i musicisti hanno, o come la cultura venga definita un aspetto non essenziale. Si spera che finisca tutto al più presto e di poter riprendere meglio di prima!

A.M.: Spero, vista l’emergenza, che le persone che stanno a casa finiscano per stancarsi di ascoltare in radio sempre le stesse cose e trovino il coraggio di cambiare, di evolversi, di crescere.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?

G.Ch.: Se ti riferisci alle prime esperienze musicali (ormai lontani ricordi), mi viene sempre in mente una fotografia che ritrae me, Alessandro e un nostro vecchio amico, ex chitarrista, in un festival d’oratorio. Io avevo i capelloni folti e ricci, neri. Alessandro aveva i capelli ma già allora (eravamo minorenni) iniziava a perderli. Però eravamo molto felici. Se invece ti riferisci ai primi anni di attività degli Ozone… posso dirti che sono felice di aver interrotto la mia lunga e non sempre appagante “carriera” di pianista swing per dedicarmi a suonare quel che più mi piace.

G.Co.: Ricordo quando al primo live (all’interno di un festival jazz) siamo usciti fuori uno con abito tigrato, uno con l’abito con le costruzioni lego, uno con l’abito a fiori. Era bellissimo vedere le facce della gente che non ci conosceva e non si aspettava questo.

A.M.: Ricordo il primo live degli Ozone Park dove portammo sul palco un manichino con l’abito recante alcune foglie di marjuana… il manichino interpretava un bassista inesistente. Ha persino perso una gamba durante il percorso fatto tra i camerini e il palco a causa della quantità enorme di persone presenti.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro degli Ozone Park che vi è possibile anticipare? So, per esempio, che il vostro legame con l’Ozone Park newyorkese non è affatto venuto meno e qualcosa bolle in pentola…

G.Ch.: Come spiegavo prima, siamo stati invitati a New York per un concerto. Tutto ciò ovviamente avverrà dopo l’emergenza Covid. Oltre al tour italiano, abbiamo in programma a breve un concerto “virtual”, per adeguarci alle tendenze del momento. Andrà su Facebook e su ProgSky. Lo annunceremo appena definiti i dettagli.

G.Co.: Bravo Giuseppe.

A.M.: Giuseppe come sempre mi ruba le risposte.

Grazie mille ragazzi! 

G.Ch.: È stato un piacere Donato!

G.Co.: Grazie a te Donato.

A.M.: Grazie mille a te.

(Novembre, 2020)

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