Intervista agli A Lifelong Journey

Un caro benvenuto a Brian Belloni (B.B.) e Mauro Mugiati (M.M.): A Lifelong Journey.

B.B.: Ciao Donato, è un piacere.

M.M.: Ciao Donato, è un vero piacere!

A Lifelong Journey è solo l’ultimo tassello di una carriera già densa. Partiamo, dunque, dagli inizi. Come e quando nasce la vostra passione per la musica? E quale strumento è stato il vostro primo amore?

B.B.: La prima chitarra mi è stata regalata a 7 anni, ero felicissimo, la prendo in mano, mi metto in posizione, pizzico le corde una volta, dico “che schifo” e lascio stare l’argomento per quattro anni. A 11 anni, quindi, inizio a studiare seriamente chitarra e la musica entra ufficialmente nella mia vita. La passione, comunque, mi è sempre stata trasmessa da mio padre, in primis col blues e poi col rock degli anni ’70. Il progressive rock è arrivato pochi anni dopo.

M.M.: Credo sia nato tutto attorno ai 5/6 anni forse. Ascoltavo ripetutamente i dischi di Joe Cocker, Aretha Franklin e Otis Redding, ma anche Zucchero e Pino Daniele. Adoravo mettermi lì a leggere i testi e ascoltare quella musica rigorosamente a 33 giri. Ci cantavo sopra per ore ed ore, o meglio, tentavo di cantare. La voce è stata sicuramente il mio primo strumento, a cui ho presto abbinato una vecchia tastiera di mio padre che iniziai a strimpellare per accompagnarmi.

Negli anni dell’adolescenza (ma anche in tutti quelli che precedono il professionismo), avete avuto esperienze in “formato band”? In caso affermativo, che genere musicale vi ha visti per la prima volta su di un palco (o in una sala prove)?

B.B.: A 12 anni mi viene regalata una batteria, inizio a suonarla da autodidatta mentre proseguo con le lezioni di chitarra insieme a mio fratello Nelson. Iniziamo quindi a suonicchiare insieme in casa, io alla batteria e lui alla chitarra: Deep Purple, AC/DC… rock ‘70 insomma, ma non ancora prog. Poco dopo, tramite la scuola dove studiamo musica, conosciamo un tastierista, Andrea Bassi, subito c’è intesa sul genere musicale e solo un anno dopo, durante i miei 13 anni, iniziamo a organizzare una Jethro Tull Tribute Band: I Rovers. Con Nelson, Andrea, Manuel Pili, Pierluigi Greco e alla voce… Mauro! Il mio primo gruppo riguarda esclusivamente il progressive rock dei Jethro Tull, visto dallo sgabello della batteria.

Nel 2005 mio padre apre un locale di musica, il Bluestage, che diventerà la nostra sala prove e luogo del primo concerto (2006). È stata la nostra seconda casa per un paio di anni.

M.M.: Ricordo bene la prima volta su un palco, avevo 14 anni ed era la fine delle scuole medie. Frequentando un indirizzo musicale, ogni anno ci esibivamo in un concerto in ensemble abbastanza noioso, suonando strumenti classici (io suonavo il pianoforte). Quell’anno decisi, però, assieme ad altri quattro compagni di classe, di formare una mini rock band “autonoma” nella quale tutti suonavamo uno strumento diverso da quello studiato. Ci esibimmo a fine serata e io cantavo imbracciando la chitarra elettrica, da vero frontman in un vero teatro. Ricordo ancora che suonammo quattro pezzi: “Everybody needs somebody to love” e “Sweet Home Chicago” dei Blues Brothers, “Samba pa ti” di Santana e “Knocking on Heaven’s doors” (versione Guns ‘n’ Roses). Fu un successo incredibile (soprattutto tra le compagne di classe) e l’emozione di quella prima volta fu indescrivibile. Successivamente, qualche band e, qualche anno dopo, incontrai Brian nei fatidici Rovers.

Quando e come sboccia l’amore per il “dietro le quinte” dello studio di registrazione?

B.B.: Durante l’era dei Rovers, entriamo in contatto con lo Studio Barzan. Da oltre dieci anni registriamo lì, per via delle prove pratiche dei loro allievi del corso di Tecnologia del Suono all’Accademia della Scala di Milano. Tra i vari gruppi con cui siamo andati nel corso degli anni, nel 2017 siamo andati a registrare le demo di “The Shadow” e “Reality” io e Mauro. Alcune registrazioni di quella sessione sono poi state usate nell’album.

In parallelo è arrivata l’era dell’Home Recording, quindi ho sempre registrato cover e brani originali anche a casa mia con strumentazione base. L’Home Recording è un passo avanti importantissimo per il mondo della musica, siamo tutti in grado a costo quasi zero, di avere un’idea completa di un brano e di poterla sentire e ritoccare ancora prima di andare in studio di registrazione.

M.M.: Sin da piccolo ho sempre coltivato l’aspirazione e la necessità di suonare più strumenti, e ho preso quasi subito la strada del “polistrumentista”. Le figure che mi hanno più affascinato e ispirato in questo senso sono state Leon Russell (pianista, chitarrista, cantante, ma anche bassista nel tour “”Mad Dogs & Englishmen” di Joe Cocker) e Mike Oldfield (che suona tutti gli strumenti nel suo celebre album “Tubular Bells”). Al tempo cercavo, coi mezzi che avevo a disposizione, di registrare più strumenti per ricreare i brani che ascoltavo. Avevo trovato il modo di incidere utilizzando due cassette, ma, ovviamente, alla quarta sovraincisione, il fruscio tipico del nastro sovrastava quasi tutto il resto. Poi arrivarono i primi software su PC e dopo qualche scheda audio bruciata (avevo 14 anni, tanta voglia ma poca conoscenza a riguardo), iniziai a capire come fare, acquisendo da solo quel know-how che mi porto dietro tutt’ora quando scrivo e registro a casa. Ormai l’Home Recording è diventato indispensabile nella scrittura dei brani, perché avere una demo ben dettagliata ti dà una visione d’insieme più chiara per proseguire. L’ultima fase di tutto il processo creativo dove, a mio avviso, avviene la vera magia (e l’idea musicale da nuda qual era, si presenta nel suo vestito definitivo) è lo studio di registrazione. Le diverse possibilità che può dare uno studio in merito ad acustica delle sale, attrezzature high end, strumenti di qualità, nonché la bravura del sound engineer (una via di mezzo tra mago, scienziato e stregone, che dosa i vari ingredienti) creano la formula che da quel “più” al prodotto finito. Un’eleganza nuova e a volte sorprendente. Arrivare in studio avendo le idee già chiare sulla direzione da prendere a livello di sound aiuta molto a decidere, ma c’è sempre quel margine di scelte fatte al momento che rendono il tutto più indefinito e aperto a possibilità nuove che fino ad allora non erano state considerate.

E poi arriva la chance dei Beggar’s Farm. Quando avviene l’incontro con il progetto tulliano di Franco Taulino? E com’è portare in scena le musiche di Ian Anderson e soci?

B.B.: I Beggar’s Farm hanno avuto la necessità di cambiare chitarrista nel 2013, Mauro suonava già con loro dall’anno prima, è stato quindi lui a proporre me nel ruolo e così sono entrato nei Beggar’s Farm. Per la prima volta ho avuto a che fare con i brani dei Jethro Tull in veste di chitarrista.

Portare in giro la musica dei Jethro Tull è una palestra importantissima per un amante del prog, obbligatoria direi, insieme ad altre band prog naturalmente. È molto importante per un chitarrista approfondire anche il ruolo della chitarra acustica di Ian Anderson oltre all’elettrica.

M.M.: Conobbi Franco prima da spettatore, quando, nel 2005, da quindicenne fan sfegatato della musica di Anderson & C., andai a uno dei concerti/raduni de “Itullian”, il fan club italiano dei Jethro Tull. Lì suonavano appunto i Beggar’s che riproposero per intero un disco che amo molto, “Minstrel in the gallery”. Dopo qualche anno, tramite un’amicizia musicale comune, Andrea Vercesi (anch’egli già membro dei Beggar’s), incontrai personalmente Franco, che mi chiese di entrare nel gruppo per suonare le parti di chitarra acustica e tastiere. Avevo già suonato tanto i brani dei Jethro coi Rovers e quindi mi sentivo “pronto per il lavoro”, ma portare in scena quella stessa musica coi Beggar’s è stata a dir poco una sfida. La cura del dettaglio e precisione dell’esecuzione in tutta la band e in Franco in primis erano altissimi. Fu una vera scuola di musica sul campo che mi plasmò e mi fece rendere conto di essere passato al livello successivo.

Martin Barre, Clive Bunker, Ian Paice, Don Airey, Vittorio e Gianni Nocenzi, Aldo Tagliapietra, Bernardo Lanzetti, Giorgio “Fico” Piazza: sono solo alcuni dei “nomi forti” con cui avete condiviso il palco negli anni. Ma com’è stare “spalla a spalla” con artisti di questo calibro e cos’hanno aggiunto queste esperienze al vostro bagaglio artistico e personale? Quali collaborazioni ricordate con più affetto?

B.B.: Condividere il palco con questi personaggi che hanno fatto la storia della musica ti aiuta a capire com’è il mondo “dietro le quinte” di un live dal punto di vista di ognuno di loro. Ian Paice ti dice “fate come volete, non so neanche come sia la versione del Made In Japan”, fa capire che i Deep Purple hanno l’improvvisazione alla base dei loro concerti. Martin Barre si preoccupa di riarrangiare i brani in base alla formazione, strumentisti a disposizione e tonalità per i/le cantanti, crea un concerto unico per l’occasione. Lo stesso discorso vale per i fratelli Nocenzi o De Scalzi. Tutti i nomi che hai citato hanno portato a ricordi belli, con alcuni siamo ancora in contatto. Forse Martin Barre porta i ricordi migliori, abbiamo fatto diversi concerti insieme, anche in trasferta, quindi diventa un’esperienza diversa, abbiamo passato molte ore con lui e il lato umano rimane comunque la cosa più importante, stiamo parlando di una persona che ti regala e autografa il suo ultimo cd e poi ti offre l’aperitivo nel bar dell’albergo.

M.M.: Quando sei un amante del Prog da sempre e ti trovi a suonare sul palco con questi personaggi a 20 anni, è davvero incredibile. Ogni serata fatta insieme a loro è un dono e una fonte ineguagliabile di esperienza. Tutto il percorso che porta al concerto, dalle prove allo “stare insieme”, è un continuo scambio di energia, nel quale ti siedi e ascolti i suggerimenti tecnici, i consigli, gli aneddoti e i racconti di chi ha fatto la storia. Una “School of Prog” in piena regola!

Di tutti porto un gran ricordo dentro, che si rinnova ogniqualvolta ricapiti di suonare insieme. Non posso fare una distinzione, è stato bellissimo lavorare con ognuno di loro. Ma devo dire che conoscere Martin nell’immediato periodo post Jethro, e condividere, seppur in piccola parte, i primi passi della sua carriera solista è stato un privilegio. È stato istruttivo vedere un mostro sacro come lui reinventarsi e rimettersi in gioco a 70 anni, dopo 40 anni di carriera con entusiasmo e una vitalità contagiosa. Chapeau.

Allo stesso modo, ho provato una grande emozione a rivestire il ruolo del mitico Francesco Di Giacomo in occasione della reunion dei fratelli Nocenzi, nello spettacolo che facemmo nel 2016. Ricordo questi due pianoforti a coda uno di fronte all’altro in teatro, ed io in mezzo a cantare i brani del Banco, con cui ero cresciuto. Brividi.

Il 2019 è l’anno del vostro esordio discografico “A Lifelong Journey”. Quando e come nasce l’esigenza di “mettersi in proprio”?

B.B.: Entrambi abbiamo sempre composto separatamente materiale mai pubblicato, non solo in ambito Prog. Crescendo, il Prog ha vinto ed entrambi avevamo in mente di fare una sorta di “super gruppo Prog” con i migliori musicisti del genere che conoscessimo. Mauro è stato il primo ad avere l’idea di un album intero, in automatico ha parlato con me per le chitarre, era il 2017. Inizialmente volevamo coinvolgere altre persone, ma lavorando all’album in due, automaticamente abbiamo sempre composto pensando agli altri strumenti, di conseguenza gradualmente si è sviluppata l’idea di rimanere in due e di tenere poi solo dal vivo dei musicisti in più.

M.M.: Abbiamo suonato tante cover negli anni e abbiamo registrato musica per altri, ma l’idea di fare solo quello iniziava ad essere limitante. Avevo sì scritto qualche pezzo soul e qualche cosa pop che non è mai uscita da camera mia, ma a mano a mano che scrivevo mi accorgevo che il linguaggio che meglio supportava quello che volevo esprimere era il Prog, in particolare le note e i temi si concatenavano in un modo tale che pensai subito di prendere la direzione del concept album. Intorno al 2016/17 mostrai tutto il materiale a Brian e iniziammo a lavorarci seriamente.

Il concept albumA Lifelong Journeyracconta di un individuo che dalla nascita cerca di trovare il proprio posto nel mondo. Ma alla fine, dopo vari tentativi e numerose esperienze, non lo trova. Decide allora di farla finita. Come mai la scelta di un tema piuttosto duro? E qual è stato il processo che lo ha reso “musica e parole”?

M.M.: Un aspetto del processo di scrittura di questo concept che ritengo interessante, è il fatto di aver sviluppato tutti i temi musicali e i testi in ordine cronologico. Sono partito paradossalmente dall’overture che di solito (essendo un “riassunto” dei temi che verranno affrontati nel disco) viene assemblata alla fine del tutto, e in questo modo essa è diventata l’insieme dei temi che volevo sviluppare e che mi hanno dato l’input per scrivere i brani veri e propri. Alla stessa maniera anche i testi dei vari brani iniziavano a raccontare un percorso ma non avevano una direzione già stabilita. È stato un viaggio nel viaggio per così dire, nel quale io stesso scoprivo il tema musicale e il relativo testo successivo dopo aver completato il precedente. Nella mia testa vedevo solo che questo personaggio era partito con il suo fardello di sogni e via via la strada davanti a lui cambiava. Ed io ero partito insieme a lui.

Nella recensione dell’album affermo che musicalmente siamo al cospetto di un album che si presenta come un caleidoscopio di influenze, “citazioni”, emozioni, quasi una summa delle esperienze e delle passioni musicali del duo. Al suo ascolto si percepisce davvero che è un qualcosa che avevate dentro e che andava lasciato “esplodere”. Quanto, dunque, del vostro passato, del vostro lavoro, delle vostre vite e delle vostre passioni c’è in “A Lifelong Journey”?

B.B.: Le mie influenze sono in primis il Prog Rock degli anni ’70: Genesis, Yes, King Crimson, ELP, Jethro Tull e poi il Prog Rock Italiano, come PFM, Orme, Area e Banco del Mutuo Soccorso. Andando sul moderno, siamo entrambi grandi fan dei Dream Theater e di Steven Wilson. Le influenze arrivano da questi gruppi, tanto che, in fase di composizione, spesso parliamo di “sezione King Crimson” o “notine di chitarra alla Genesis”. Sono influenze storiche importanti per noi e quello che ascoltiamo in un dato momento influenza tantissimo il processo compositivo.

M.M.: Hai colto nel segno! “A Lifelong Journey” è davvero un caleidoscopio delle influenze musicali che hanno caratterizzato la nostra vita. Dai Jethro Tull ai Genesis, passando per Pink Floyd, Transatlantic, Orme, Steven Wilson, Dream Theater… puoi sentire come la nostra sensibilità musicale si sia formata grazie a questi ed altri gruppi.

Dal punto di vista della storia raccontata, invece, agganciandomi alla domanda precedente, essa è un sunto delle emozioni che ho vissuto e delle persone che ho incontrato nella fase precedente e concomitante alla scrittura del disco. È una storia che riguarda la mia esperienza personale certo, ma volutamente traslata su un livello più “universale” nel quale chiunque abbia vissuto le mie stesse emozioni possa riconoscervisi. Credo che, chi più o chi meno, abbiamo tutti avuto un periodo della nostra vita in cui non sapevamo dove andare, come proseguire il cammino. La paura e le incertezze della vita, l’illusione derivante da qualsiasi dipendenza (fisica o affettiva) provocano uno stallo che dobbiamo continuamente superare grazie fondamentalmente alla nostra forza di volontà, che ci riporta con disillusione alla realtà, per continuare a costruire un sentiero solido su cui proseguire. Il finale è volutamente tragico perché è quello che succederebbe se questo stallo permanesse a lungo, ed ho, allo stesso tempo, esorcizzato questo scenario “uccidendo” letteralmente il personaggio. Questa morte è più un processo catartico che una morte vera e propria, in cui il personaggio si libera di tutto quello che lo affligge per tornare ad una dimensione più spirituale, primordiale e priva di sovrastrutture.

I testi dell’album sono in inglese. Pensate sia più funzionale, per la vostra proposta, cantare in una lingua diversa dall’italiano?

B.B.: Mauro ha sempre ragionato in inglese sui testi fin da ragazzo e io sono sempre stato automaticamente d’accordo. Non c’è mai stato bisogno di valutare l’italiano come lingua. Amiamo il Prog Italiano ma ancora di più quello Inglese, è stata dunque sempre spontanea la scelta della lingua inglese. Sappiamo che là fuori ci sono persone che non vedono l’ora di ascoltare nuovo Prog Italiano e abbiamo scoperto strada facendo che in quanto italiani, nel mondo siamo comunque stati etichettati come “Italian Prog Rock”, nonostante la scelta dell’inglese come lingua. Per questo alcuni negozi hanno acquistato i nostri cd per metterli nello scaffale dedicato al “Prog Rock Italiano”, non ci aspettavamo questa cosa e paradossalmente è stato un vantaggio di mercato, grazie alle storiche band degli anni ’70 italiane, che invece avevano quasi sempre testi in italiano.

M.M.: Sicuramente sì, l’inglese ha un suono che si adatta maggiormente alla musica, questo, penso, in generale. Nel momento in cui scriviamo un brano, le prime “bozze vocali” che mi girano in testa sono già in inglese, quindi la lingua in sé diventa poi parte integrante del processo di scrittura. Non so se faremo mai qualcosa in italiano.

Quando “si mette la faccia” dopo aver collaborato con una schiera di artisti come quelli menzionati in precedenza, le aspettative sul primo album, immagino, si presentino davvero alte. Anche se secondo il mio modestissimo parere queste aspettative iniziali sono state ampiamente superate, avete davvero sentito sulle vostre spalle una sorta di pressione? E com’è stato accolto il lavoro da pubblico e critica?

B.B.: In realtà, personalmente, pressione no, anzi l’ho vista al contrario, abbiamo avuto la possibilità di essere ascoltati più facilmente in quanto “già nell’ambiente”. C’è ancora tantissima strada da fare ma qualcuno ha iniziato a sentire della nostra esistenza, e questo è il nostro primo traguardo.

Non so come fossero le aspettative ma non le ho realmente mai temute, non per ego o chissà cosa, solo non rientra nel mio carattere essere teso per delle aspettative altrui. Lavoriamo sempre su due fronti, da un lato spingiamo verso le nostre passioni, senza preoccuparci della “vendita”, dall’altra parte siamo influenzati inevitabilmente dal mercato e questo, purtroppo o per fortuna, influenza in parte la composizione.

L’album pare sia stato accolto abbastanza bene dalle recensioni. Alla fine, ci interessa esclusivamente che la nicchia del Prog sappia della nostra esistenza, ma dobbiamo ancora ingranare e spingere verso il futuro con altro materiale. Quando le recensioni ci sono, queste sono positive, ma ancora poca gente sa della nostra esistenza nel mondo del Prog.

M.M.: Essendo la prima volta che ci mettevamo in gioco in prima persona, c’era tutta la “pressione” delle prime volte, che è più trepidazione ed eccitamento, che vera pressione. Eravamo consci di avere del buon materiale e abbiamo cercato di lavorare al meglio e di ottenere quello che avevamo in mente senza lesinare sulla qualità della produzione. La risposta di critica e pubblico è stata, devo dire, al di là delle aspettative. Il disco è arrivato fisicamente addirittura in Giappone (paese cultore del Prog) e negli States, oltre che in Italia ed in Europa. Diciamo che con questa prima uscita abbiamo solo messo la testa fuori dall’acqua e abbiamo creato una discreta base su cui proseguire.

Una nota simpatica riguarda il nome del progetto, deciso solo dopo aver definito il titolo dell’album. Qual era, dunque, il nome originale? E come mai il cambio d’idea?

B.B.: In realtà non c’è stato un nome precedente. A Lifelong Journey è nato come conseguenza del titolo dell’album. Andremo fino in fondo in questo “Viaggio Lungo Una Vita”.

M.M.: Non avevamo ancora un nome per il progetto un po’ per scaramanzia, un po’ perché brancolavamo nel buio. Il titolo dell’album ci ha salvato, perché aveva senso con quello che siamo e suonava bene anche traslato sul nome del gruppo.

Nello stesso anno pubblicate anche il singolo “Chasing clouds”. Quanto si “discosta” dalla proposta di “A Lifelong Journey”? Va visto come una sorta di piccola anticipazione di un nuovo album?

B.B.: In realtà non è un’anticipazione del prossimo album, anzi, è il finale alternativo di “A Lifelong Journey”: alcuni temi, anche musicali, sono ripresi in questo “ultimo” brano della nostra fase 1. In un momento di ristampa dell’album, “Chasing Clouds” sarà sicuramente inserita come bonus track, il quattordicesimo brano.

M.M.: Come detto da Brian, “Chasing Clouds” è in realtà un “finale alternativo” della storia narrata da “A Lifelong Journey”. Musicalmente riprende e sviluppa in modo diverso alcuni temi del disco, mentre immagina che il nostro personaggio venga salvato da un’ipotetica figura angelicata, trasposizione dell’amore puro e incondizionato. La frase finale del brano riassume tutte le emozioni positive che il personaggio attraversa durante la sua vita, che gli danno una consapevolezza nuova, nonché una profonda coscienza di se stesso.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

B.B.: È tutto tremendamente cambiato, non saprei dire se in positivo o in negativo, ma il mercato si è spostato da un’altra parte ed è compito nostro saperci adattare. In generale, i CD non si vendono più, il guadagno arriva dai concerti e dal merchandising. Gli ascolti degli store digitali non sono neanche da tenere in considerazione come fonte di guadagno, sono solo posti in più dove essere presenti. Sappiamo che in maniera indipendente dobbiamo farci valere nei social e solo quando i “numeri” sono buoni un’etichetta ti prenderà in considerazione, non esiste più il rischio da parte loro. È facile essere alla portata di tutti ma allo stesso tempo la concorrenza è spietata, è dura ma bisogna insistere. Lo stiamo vivendo e non sappiamo ancora come si evolverà, cerchiamo di stare al passo. D’altro canto, la fortuna di occuparsi di Prog porta a un vantaggio: si vendono ancora i CD, il pubblico è legato all’oggetto fisico e questo porta ad avere pochi fan selezionati ma attivi.

M.M.: Ottima domanda. Da un lato credo che il web e i social abbiano permesso a tanti artisti emergenti (compresi noi) di farsi sentire ovunque e di raggiungere direttamente il proprio target di pubblico senza intermediari. La digitalizzazione della musica sulle varie piattaforme che sono nate in questi anni è stata fondamentale in questo processo di “democratizzazione”, ma dall’altro lato ha creato un’offerta vastissima e una maggior difficoltà a ottenere una posizione dominante in un mercato già quasi saturo. Nel nostro genere, per ora, ci salviamo ancora col “supporto fisico” perché il pubblico a cui puntiamo è ancora affezionato al CD, al vinile, alla “sacralità” di un ascolto accurato e a un prodotto che può toccare, guardare e sfogliare mentre ascolta la nostra musica. Il supporto fisico forse scomparirà, o forse ci sarà ancora un ricambio generazionale prima che succeda, sta di fatto che saremo pronti al cambiamento e punteremo su nuove forme di diffusione della nostra musica, oltre che in digitale.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino? Non avete mai pensato di tentare la “carta” etichetta discografica?

B.B.: La promozione oggi è la gestione dei social. In molti ambiti musicali la raccolta fondi è vista di buon occhio, così come l’autoproduzione (vedi il concetto di Indie) ma questo non lo trovo molto compatibile nel panorama del Progressive Rock. In ogni caso non ci è mai piaciuta l’idea di avere quell’immagine da raccolta fondi, nulla di sbagliato, solo non è il nostro.

Le spese di un album le deve sostenere l’artista in assenza di etichetta, ma allo stesso tempo tutti hanno dei mezzi di Home Recording, per cui si può risparmiare qualcosa in alcune fasi della produzione lavorando autonomamente. Per esempio, dopo aver registrato l’album all’Elfo Studio di Piacenza, la fase di editing l’abbiamo gestita “in casa” risparmiando su quel fronte, per poi ripassare la palla allo studio per la fase di mixing e mastering. Questo presuppone delle conoscenze tecniche per quanto riguarda le DAW da parte di un musicista.

La carta dell’etichetta discografica l’abbiamo valutata e tentata, almeno per quanto riguarda le etichette grosse. Bisogna valutare con attenzione cosa ti viene offerto: le etichette grosse hanno i mezzi per un contratto valido mentre le piccole purtroppo hanno dei limiti, difficile che ti paghino le spese di registrazione, forse risparmi qualche soldo per la stampa dei CD in cambio di essere inserito nel catalogo di qualche sito internet rinunciando a buona parte del guadagno di quelle eventuali vendite. Più che dal risparmio, tutto dipende dal potere di questi canali online dell’etichetta, insomma se porta a una visibilità maggiore o comunque sufficientemente importante rispetto a quella che otterresti da autonomo.

M.M.: Il mercato del Progressive Rock è abbastanza di nicchia rispetto al pubblico generalista del Pop o del Rock, il che permette di individuare e circoscrivere più facilmente il nostro raggio d’azione, ma allo stesso tempo è pieno di band che vogliono emergere e poche (forse solo un paio) case discografiche rilevanti in tal senso. L’ostacolo principale che abbiamo trovato e ci siamo un po’ autoimposti, è stato il fatto di non voler firmare accordi con etichette minori, che ci avrebbero agevolato solo relativamente a livello economico, e quasi nulla a livello di promozione. Abbiamo provato a puntare ad una “major” del Prog (che non citiamo ma che tutti conoscono) ma, come immaginavamo, queste etichette scritturano solo gruppi già avviati, con all’attivo uno o più album. Da lì la decisione di metterci in proprio, autoproducendo e autopromuovendo il nostro lavoro almeno in questa prima fase di vita, faticando ma ottenendo i primi risultati “da soli”. Sicuramente, in prospettiva, c’è la volontà di proporci di nuovo in una prossima fase della nostra carriera.

Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?

B.B.: Ho un caro amico scrittore, abbiamo discusso spesso di questa differenza tra musica e scrittura e ne condivido il pensiero: in ambito editoriale l’immagine è quasi negativa senza una casa editrice appunto, ma in musica non vale lo stesso discorso. L’autoproduzione in musica non porta nulla di negativo, anzi va di moda, molti musicisti oggi “esplodono” grazie esclusivamente ai social e l’Home Recording.

La raccolta fondi può essere una mossa di promozione anticipata dell’album stesso, esistono diverse piattaforme come MusicRaiser, per molti è stato il mezzo per iniziare e mi sento di consigliare sia l’autoproduzione sia l’eventuale raccolta fondi. Quest’ultima presuppone, però, un minimo di “fan base” a priori, fan su fiducia se è il primo lavoro inedito. In tutto questo discorso, comunque, la possibilità di essere in tutti gli store a costo zero gioca una carta importante.

M.M.: Credo che il self-publishing in ambito musicale, se fatto bene spendendo tempo e risorse, può essere un buon biglietto da visita e col dovuto “cappotto”, sia qualitativo che di immagine, può raggiungere un livello simile a quello che può dare una casa discografica alle spalle, almeno in ambito musicale e nel nostro genere in particolare. La differenza rilevante di avere un’etichetta nel nostro caso credo risieda nell’aver maggior visibilità e nella possibilità di poter suonare live in qualche festival dedicato assieme a band più blasonate, ma la qualità del prodotto in sé o la percezione di esso non cambia molto a mio avviso. Certamente l’autoproduzione è la via migliore per chi vuole affacciarsi al mondo della musica, almeno a inizio carriera.

E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

B.B.: Conosco poco i moderni italiani, però c’è qualcosa di decisamente interessante. Chi canta in inglese tende purtroppo ad avere quella tipica pronuncia italiana, ed è un peccato perché la musica è valida. Mauro ha un’ottima pronuncia, ma perché ha studiato e si è posto seriamente il problema, non è un dono, bisogna studiare bene anche quello e consultare qualche madrelingua. Spazi per proporsi sono davvero pochi, tanto che i concerti dei Lifelong fatti finora sono stati autorganizzati, abbiamo gestito a spese nostre dei teatri nella nostra zona al fine di promuovere la nostra musica e magari ad andare in pari con le spese. Non è facile all’inizio, però ci piacerebbe organizzare questo tipo di format da teatro con qualche altra band del panorama italiano, abbiamo già qualche idea, ma è ancora presto per parlarne.

M.M.: Ci sono tante realtà simili alle nostre, la qualità è generalmente molto alta e le occasioni direi poche ma tutto sommato proporzionate al pubblico attuale del Progressive. Sicuramente sarebbe interessante partecipare a qualche festival dedicato ma, nel frattempo, abbiamo scelto la strada dell’autoproduzione anche dal vivo. Ci “costruiamo” questi spazi. Creiamo l’evento, affittiamo le location (piccoli teatri principalmente) e promuoviamo la serata. Finora ha funzionato. Sarebbe, però, curioso inventare serate ad hoc itineranti con due/tre band giovani provenienti da città diverse, che suonino ognuno a turno nella città dell’altro. Una formula del tipo “io ospito te e tu ospiti me”, per intenderci.

Esulando per un attimo dal mondo A Lifelong Journey e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

B.B.: Sono molto appassionato di cinema, sto pian piano approfondendo l’argomento autonomamente, non posso dire di “svolgere” questa attività ma mi piace studiarla e mi piacerebbe metterla in pratica in ambito musicale per i videoclip dei futuri singoli. I due nomi più importanti nel mondo dei registi sono David Lynch e Jan Švankmajer per me.

M.M.: Se la cucina può essere considerata arte, mi piace molto creare e sperimentare (e ovviamente mangiare!) nuovi piatti, appena ho tempo di farlo. Prediligo i primi ai secondi, specialmente i risotti!

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

B.B.: Difficile rispondere… Potrei azzardare “In the Court of the Crimson King”, “Selling England by the Pound”, “Fragile” e “Thick as a Brick”.

M.M.: È difficile pensare solo ad un podio, ma posso provare a delineare i tre o quattro artisti più influenti fino ad ora nella mia vita. Sicuramente Joe Cocker per la sua voce e l’emozione che trasmetteva con ogni singola nota nell’interpretare qualsiasi brano. I Jethro Tull che mi hanno fatto scoprire e amare il Progressive per capolavori come “A Passion Play” o “Thick as a Brick”, che sono tuttora i miei dischi preferiti. A pari merito metto gli esponenti Prog Metal per eccellenza, che hanno riportato in auge il genere nella sua accezione più estrema e cerebrale, i Dream Theater di “Scenes from a Memory” e “Octavarium”. Sul gradino più “alto” o, perlomeno, sul gradino più recente in ordine cronologico, metto un “gruppo” particolare e un disco in particolare: i Daft Punk con “Random Access Memories”. Quando uscì nel 2013 mi catapultò in un mondo da me ancora inesplorato, quello della dance e dell’elettronica. Rimasi affascinato e mi colpì soprattutto il perfezionismo e la cura di ogni dettaglio con la quale il duo francese realizzò questo capolavoro, ormai divenuto un classico.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

B.B.: Vorrei portare l’attenzione verso Luca Viti, caro amico scrittore, autore di “Amarene”. Una persona che si pone costantemente domande sul cosa sia l’arte e sull’eterna guerra tra arte a sé e arte nel mercato.

M.M.: Non sono un gran lettore, ma ogni tanto c’è qualche libro che mi attira e mi prende particolarmente. Ti segnalo sicuramente Mario Majoni col suo ultimo romanzo “Riviera Noir”, un thriller intenso e dal ritmo particolarmente incalzante, da leggere tutto d’un fiato.

Tra lo studio di registrazione, il palco e la vostra musica, qual è l’habitat preferito di Brian e Mauro?

B.B.: Ammetto di non essere mai stato un super appassionato del palco. L’interesse principale è la mia musica nella fase di composizione e di registrazione.

M.M.: Sicuramente la nostra musica è la costante, che sia live o in fase di creazione/produzione in studio. È un bell’habitat in cui immergersi quotidianamente per essere liberi di creare, prima, e di sfogarsi e scambiare energia sul palco, poi.

Siete entrambi degli straordinari polistrumentisti, ma qual è lo strumento che più vi rappresenta o con cui siete più a vostro agio?

B.B.: La chitarra è assolutamente il mio strumento principale, sempre studiato in maniera approfondita, anche laureato in conservatorio in Chitarra Jazz, mi sono sempre visto come un chitarrista. Al secondo posto c’è sicuramente la batteria e al terzo il pianoforte, strumenti che, invece, ho studiato quasi solo da autodidatta.

M.M.: Innanzitutto ti ringrazio per il complimento. Credo che i due strumenti con cui mi sento più a mio agio siano, a pari merito, la voce e le tastiere. È la combinazione di strumenti con cui ho cominciato a suonare e rimane ad oggi il mio modo preferito di esprimermi.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

B.B.: È difficile fare un’analisi del presente, indipendentemente dal presente in questione. Entrerò nel merito solo del Prog. Noi siamo appassionati di Progressive Rock, quindi legati tantissimo al mondo degli anni ’70, ma quanto riusciamo ad essere obiettivi? Voglio dire, si tende ad ascoltare per tutta la vita quello che si scopre nell’adolescenza o poco dopo, esagerando potrei anche dire tra i 15 e i 30 anni, poi la musica si evolve e questa si fatica ad apprezzarla, si rimane legati a quello che si ascoltava prima. Un infinito “la musica era meglio prima”. Non sono d’accordo, sono il primo ad essere legato agli anni della nascita del Prog ma si è evoluto, e bene. Di Progressive Rock non ne esiste moltissimo oggi, si è evoluto e diffuso soprattutto nella direzione del Progressive Metal, prima con i Dream Theater o gli Opeth e ora con gli Haken, Leprous o BTBAM. Da chitarrista, mi sento in dovere di nominare anche gli Animals As Leaders e i Polyphia, entrambi super moderni dal punto di vista chitarristico. La buona musica continua a innovarsi, le contaminazioni sono sempre di più, alle porte c’è il Rap e sono sicuro che pure lui entrerà nel Prog prima o poi, saremo pronti? Qualcosina già c’è là fuori.

M.M.: La mia speranza (che è quasi una certezza essendo un inguaribile ottimista) è che torni tutto alla normalità se non nel 2021, almeno verso la fine dell’anno o inizio 2022. Torneremo a suonare come facevamo prima e torneremo a sentire i concerti come facevamo prima, con una consapevolezza in più, di quanto siamo realmente fortunati a godere di quello che abbiamo. Le pandemie sono cicliche nella storia, purtroppo questa è capitata ora, è toccata a noi. Speriamo di averla scampata per i prossimi 100/150 anni!

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività artistica/lavorativa?

B.B.: Quando suonavo nei Beggar’s da tre/quattro anni e avevamo già fatto diversi concerti coi vari ospiti del mondo del Prog, ho chiamato Taulino e gli ho detto “voglio mollare”. Mi chiese perché e gli risposi “non è per i Beggar’s in realtà, solo non mi va più di suonare dal vivo”. Avevo 23/24 anni, ridicolo, ovviamente non sono mai uscito dal gruppo e non ho mai nemmeno smesso di fare live. Come accennato prima, non sono un super appassionato di live, ma smettere è fuori questione.

M.M.: C’è un aneddoto divertente che mi va di citare tra i tanti. Durante le prove per lo spettacolo coi fratelli Nocenzi, proviamo come primo pezzo “R.I.P.”. Io, ovviamente, sono emozionatissimo. Era la prima volta che li vedevo, non avevamo ancora scambiato neanche due parole. Ai miei occhi erano due leggende viventi che avevo conosciuto solo tramite i dischi o dal vivo, dalla parte dello spettatore. Arriviamo a metà pezzo (prima della parte lenta) e Gianni Nocenzi ferma tutto e viene verso di me. Io penso: “adesso mi dice che faccio schifo”. Lui si avvicina serissimo e fa: “guarda, mi spiace interromperti ma c’è un errore, in questo punto il testo è sbagliato, al posto de ‘La tua guerra è finita, vecchio soldato’, dovresti dire ‘La tua guerra è finita, vecchio scarpone’”. Siamo scoppiati tutti a ridere e la tensione che avevo era sparita in un colpo. Durante il concerto, se vai a cercare il video su Youtube, puoi vedere come in quel punto io mi giro, sorridendo, verso Gianni, appena prima di cantare la frase corretta.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro degli A Lifelong Journey che vi è possibile anticipare?

B.B.: Nei prossimi mesi uscirà… una cover! Non vogliamo svelare di cosa si tratti ma possiamo dire che è un brano importantissimo del panorama Prog, forse inaspettato da parte nostra.

Stiamo lavorando al secondo album da mesi, è ancora lungo il lavoro, siamo nella fase compositiva. Abbiamo ragionato in ambito di Progressive Rock per il primo lavoro, questa volta vogliamo essere un pochino più aggressivi, senza esagerare, vorremmo mantenere l’etichetta “Rock” senza sforare nel “Metal”, ma sicuramente sarà un album più aggressivo e moderno, puntiamo a rinnovare il genere.

M.M.: Approfittando del momento di stasi forzata per i concerti, ci siamo buttati sulla scrittura del prossimo disco. Nel mentre, come anticipato da Brian, abbiamo registrato e rivisitato un brano di uno dei gruppi storici del Prog. Non ti sveliamo nulla ma è un trio molto famoso!

Grazie mille ragazzi!     

B.B.: Grazie a te Donato, alla prossima!

M.M.: Grazie a te. Al prossimo viaggio!

(Dicembre, 2020)

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