Intervista a Il Paradiso degli Orchi

Un caro benvenuto ad Andrea Calzoni (A.Ca.), Andrea Corti (A.Co.), Marco DeGiacomi (M.D.), Sven Jørgensen (S.J.), Giacomo Piazza (G.P.) e Michele Sambrici (M.S.): Il Paradiso degli Orchi.

A.Ca.: Grazie del benvenuto, un saluto a tutti.

A.Co.: Ciao Donato e un saluto ai lettori.

M.D.: Ciao Donato, grazie mille per l’invito.

S.J.: Ciao a te e a tutti i lettori.

G.P.: Grazie!

M.S.: Ciao Donato, onoratissimi di questa intervista! Un saluto anche ai lettori!

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Il Paradiso degli Orchi e cosa c’è prima de Il Paradiso degli Orchi nelle vite di Andrea Ca., Andrea Co., Marco, Sven e Michele?

M.D.: Il gruppo nasce da un’idea di Michele (al quale, perciò, lascerò entrare nel dettaglio della genesi dello stesso). Siamo cugini, e ancor prima amici, e condividiamo la militanza nel gruppo di cover AVE, tuttora attivo, all’interno del quale mi cimento come cantante. Al tempo della nascita de Il PdO non avevo mai suonato la batteria, ma lo strumento mi aveva sempre entusiasmato tantissimo; nei momenti di pausa durante le prove degli AVE ero solito sedermi dietro le pelli e strimpellare un poco. Michele, che lo notò e, soprattutto (presumo), intuì qualcosa di buono nel mio picchiare a tempo perso, al momento della nascita de Il PdO mi propose di entrare a farne parte.

Basso (Andrea Corti), invece, lo conobbi in un altro paio di gruppi. Negli In Kase of Emergency prima, dove venni “assoldato” per prestare l’ugola a brani punk e, dopo qualche anno, negli Whiskynblu, dove entrai come batterista e coi quali ci divertivamo su pezzi rock e blues.

Fu per me automatico, all’uscita da Il PdO del primo bassista Jason Cancarini, proporre Basso come egregio sostituto. Il tempo mi ha dato ragione…

M.S.: Il PdO per me è nato come valvola di sfogo, sentivo la necessità di qualcosa di più personale. Non mi dispiaceva suonare cover, e in più collaboravo in studio per un bel progetto metal, ma sentivo dentro l’urgenza di suonare qualcosa che fosse molto più libero. Non doveva diventare per forza qualcosa di così duraturo e strutturato. Infatti, per quasi due annetti, rimase proprio un esperimento senza forma. Marco DeGiacomi non era un vero batterista, suonava le batterie altrui durante la pausa delle prove, ma aveva un tocco selvaggio e una irruenza che andavano d’accordo con la mia voglia di sperimentare, quindi gli proposi di trovarci per improvvisare un poco. Insieme a Iran Fertonani, nostro primo percussionista, ci chiudevamo pomeriggi e sere intere in sala prove improvvisando: era un bel laboratorio, avevamo moooolto tempo libero e suonavamo anche più di un’ora senza fermarci e a volte nemmeno guardarci.

A.Ca.: Io sono entrato nel gruppo in occasione delle registrazioni dell’album “Il Corponauta”. In precedenza, suonavo negli Psycho Praxis e una sera Marco, Michele e Basso (Andrea Corti), che ancora non conoscevo di persona, mi approcciarono con fare losco e malandrino, proponendomi di registrare delle parti ai fiati. Mi inviarono il materiale affinché potessi ascoltare i pezzi e da allora faccio parte del gruppo.

A.Co.: Prima de Il Paradiso degli Orchi, ho militato in un paio di gruppi cover dove ho avuto l’occasione di conoscere Marco, in veste sia di cantante che di batterista. Marco e Michele avevano già iniziato l’avventura Il PdO e inciso un demo. Poco dopo sono rimasti orfani del bassista e Marco mi ha chiesto se potessi essere interessato. Era il 2009 e da lì a poco avremmo iniziato i lavori per il primo disco.

S.J.: Io sono arrivato a completare la formazione nel 2015 ufficialmente, i ragazzi volevano qualcuno che si occupasse esclusivamente delle parti vocali. In realtà, col tempo mi sono rivelato anche un valido aiuto strumentale.

Il Paradiso degli Orchi: il nome della band immagino si ispiri al romanzo di Daniel Pennac. Come mai questa scelta?

M.S.: La risposta è abbastanza semplice: qualche giorno prima del nostro concerto di debutto non avevamo ancora deciso quale sarebbe stato il nostro nome. Al tempo io stavo lavorando con un amico ad un reading teatrale su Pennac, e quando gli organizzatori del concerto mi chiamarono per avere il nome da mettere in locandina avevo appunto in mano il libro intitolato “Il Paradiso degli Orchi”.

Può sembrare romanzato, ma è andata esattamente così. Addirittura si pensava di usarlo solamente per quella esibizione ma Claudio Gaffurini, il nostro primo cantante, improvvisò un bellissimo ed efficace recitato durante il brano strumentale di apertura e che terminava urlando il titolo del libro. Da lì in poi fu impossibile staccarsi da quel nome che poteva avere una miriade di significati (tanto che il recitato finì anche nei demo e in apertura al nostro disco di debutto).

M.D.: La scelta del nome tra l’altro mi fece conoscere, oltre che l’omonimo libro, Pennac stesso. Divorai il ciclo dei Malaussène in un niente.

A.Co.: Come per Marco, anche per me è stata l’occasione per conoscere il romanzo e l’opera di Pennac. Michele mi aveva avvertito che, letto “Il Paradiso degli Orchi”, poi sarebbe stato impossibile non completare la saga d’un fiato e, in effetti, così è stato.

Prop(k): chi di voi vuole entrare nel merito del genere musicale che proponete?

M.D.: Posso dire che è un non-genere?

In primis perché la definizione dello stesso, Prop(K), è stata coniata da noi – che io sappia – e vuole appunto evidenziare la commistione di più stili all’interno della medesima proposta.

Essendo divoratori onnivori di qualsiasi tipo di genere musicale, il doverci “impigliare” dentro i rigidi schemi di una sola corrente sarebbe stato decisamente riduttivo. Perciò abbiamo fortemente voluto mantenere sì elementi caratteristici del Pop e del Rock, ma rendendoli più intriganti con cambi di tempo, influenze etniche, psichedelia, minutaggi importanti, lunghe parti strumentali. Insomma, intendere i brani secondo un pensiero progressivo di musica appunto, che la portasse a mutare, a crescere. Da qui il Prog.

Questo ci ha concesso e ci permette tuttora, di continuare ad evolvere ed imbastardire le nostre composizioni senza risultare incoerenti.

Va poi detto che, una grossa fortuna, è quella di aver “allargato la famiglia” trovando musicisti curiosi e pronti a spendersi per l’arricchimento del gruppo. Questo si sente soprattutto in “Samir”, album nel quale la composizione ha toccato tutti. Il che è stato un bene sia per non correre il rischio di cadere nel ripetitivo, sia perché ha generato discussioni e confronti.

Il 2011 è l’anno del vostro esordio discografico “Il Paradiso degli Orchi”. Mi raccontate la genesi dell’album?

A.Co.: Dopo due demo, sentivamo la necessità di registrare il materiale prodotto nei primi anni del gruppo in un formato di più alta qualità, anche solo come testimonianza del lavoro fatto fino a quel momento.

M.D.: Continuo ad apprezzare moltissimo il nostro primo album.

Certo, ci sono diverse ingenuità e sicuramente potrebbe essere arrangiato e suonato meglio, ma continuo a considerarlo un bel disco.

Per prima cosa, mi riporta indietro a momenti importanti ed intensi che ricordo con estremo piacere. Inoltre, penso che ogni singolo pezzo sia piuttosto riuscito, magari non sempre espresso al meglio, ma potenzialmente valido.

“Where is the Light?”, “Sofa” e “Ugly Man” su tutte. Mi spiace davvero averle messe da parte.

Rimasi impressionato dalla capacità di scrittura di Michele, che arrivava con canzoni pressoché finite. Poi magari ci mettevamo lo zampino anche io e Basso, ma la prolificità del Sambrich era entusiasmante e contagiosa.

S.J.: È il disco con cui li ho conosciuti, ricordo ancora benissimo come “Margherita” mi catturò al primo ascolto (era la componente pop che usciva con prepotenza).

M.S.: Il disco uscì a fine 2011, ben quattro anni dopo la nascita della band, quindi volevamo condensare dentro tutto quello che era stato fino ad allora Il PdO. Doveva essere una sorta di “punto e a capo” per poter ripartire con un nuovo capitolo: finirono dentro tutte le canzoni che avevamo in scaletta, anche se erano comparse già in qualche demo/EP; dodici canzoni per 74 minuti di musica. Decidemmo di registrare autoproducendo i brani, in perfetto stile “indie” (al tempo era quello il nostro mondo), ma, con il senno di poi, l’aiuto di un produttore avrebbe dato sicuramente ai brani la maturità e la caratura che meritano.

Ovviamente al tempo ci sembrava il disco più bello del mondo. Tuttora amo molto quei brani e mi ritrovo spesso a strimpellare quei riff. Spero al più presto di poter ri-arrangiare e riproporre alcuni di quei brani con l’attuale formazione.

Per fortuna la grande professionalità di Giorgio Reboldi, tecnico dello studio Altrefrequenze, fu un argine fondamentale alla nostra inesperienza (Infatti, tornammo da lui anche per incidere “Il Corponauta”!).

Una delle caratteristiche più evidenti dell’album è la presenza (quasi) costante di una certa “ruvidità” nei suoni, oltre ad una gran dose di imprevedibilità. È il sound che cercavate per la vostra proposta Prop(K)? E quali artisti hanno “influenzato” le vostre note?

M.S.: Il disco fu suonato in presa diretta, senza click, aggiungendo successivamente le seconde tracce di chitarra e voce. L’obiettivo era quello di essere fedeli a come suonavamo dal vivo, per questo il sound è così ruvido e senza fronzoli. Al tempo mi ricordo che le band che avevamo in mente erano Perturbazione, Primus, Flaming Lips, Hot Head Show, Wilco e Guillemots. Ovviamente, essendo immersi nella scena indipendente, prendevamo ispirazione anche da band nostrane come Il Teatro degli Orrori, Mariposa, Afterhours, Giardini di Mirò, Edda, ecc…  Mi ricordo un concerto ruvidissimo e selvaggio dei Bud Spencer Blues Explosion che fu stimolante all’inverosimile!

E nel 2016 tornate con un nuovo album: “Il Corponauta”, disco ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore bresciano Flavio Emer. Vi va di presentare Flavio e la sua storia personale? Cosa vi ha coinvolto così tanto da trasportare in musica il suo testo? Ed è stato difficile questo processo “trasformativo”?

M.S.: Conoscevo bene Flavio perché siamo entrambi dello stesso paese; avevo letto altri suoi libri e collaborato con lui in tante occasioni ma non avevo mai letto “Il Corponauta”. Lo lessi durante un viaggio nel 2011 e, durante la lettura, continuava a ispirarmi musiche ed atmosfere; appena tornai dissi a Flavio che volevo fare un disco ispirato dalla sua opera: era contentissimo.

Flavio era affetto sin da piccolo da distrofia muscolare e quindi costretto da sempre sulla sedia a rotelle; inizialmente scriveva per mezzo di un dispositivo ottico collegato al PC. Da questa sua condizione elaborò la storia di un pensiero astratto, impersonificato, che voleva fare il cronista vivendo qualche tempo nel corpo di un completo disabile, muto e incapace di comunicare: le immagini che Flavio ha saputo creare per creare questa storia sono qualcosa di veramente unico e altamente poetico, mi lasciarono sin da subito senza fiato. Non so davvero come descriverlo, posso solo invitarvi a leggere questo capolavoro.

La difficoltà maggiore non è stata creare la musica, quella veniva davvero in modo naturale, ma più lo scrivere dei testi che rendessero giustizia al progetto. Flavio ci suggerì di staccarci dalla storia, ma parlare delle sensazioni e delle immagini che il libro ci ispirava, senza legarci alla storia. Da lì in poi i testi vennero quasi in automatico!

Ne “Il Corponauta” c’è anche lo “zampino” di Fabio Zuffanti in qualità di direttore artistico. Com’è stato lavorare con lui? E qual è stato il suo effettivo apporto alla riuscita dell’album?

A.Co.: Sicuramente parleremmo di un disco diverso senza l’apporto di Fabio e continuiamo a fare tesoro dei suoi insegnamenti, quindi, in un certo senso, il suo zampino c’è anche nei nostri lavori successivi.
Da sottolineare anche la pazienza, quando l’abbiamo approcciato per proporgli di seguirci nella realizzazione de “Il Corponauta”, di ascoltarsi le idee (molto) grezze che poi avrebbero formato l’album. Non credo di sbagliarmi se dico che il materiale superava abbondantemente le due ore al tempo, comprese lunghe improvvisazioni psichedeliche.

M.D.: Fabio è un artista a tuttotondo, con un’invidiabile preparazione che trascende la sola musica e un approccio molto positivo ed amichevole.

È importante premettere questo per poter capire il perché ci si sia fidati di uno “sconosciuto” nella realizzazione di quel lavoro imponente che è “Il Corponauta”.

Chi più chi meno conoscevamo Fabio per alcuni dei suoi lavori e perciò le aspettative erano alte fin da principio.

Ovvio, tra il collaborare con un artista del suo calibro ed accettare ciecamente le intuizioni di una testa esterna al gruppo che vuole (anzi, deve) dire la sua, si palesano una miriade di pro e contro; dopotutto non ci era mai capitato di adottare questo modus operandi.

Tirare in ballo il senno del poi è addirittura superfluo. Le intuizioni di Fabio si rivelavano positive già dopo un paio di ascolti; quello che un attimo prima ci pareva inderogabile ed irrinunciabile, una volta ritoccato suonava immediatamente più sensato. Con maggior appeal e carattere.

Sapessi la frustrazione che provavo inizialmente ogni volta che rimuoveva in toto alcune sezioni di batteria…

M.S.: Lavorare con Fabio è stato davvero formativo. In fase di scrittura e arrangiamento lavorammo esclusivamente a distanza e, inizialmente, il suo apporto era legato più a dare definizione al nostro sound.  Fu lui a consigliare di aggiungere più arrangiamenti di synth e di integrare la band con un flautista, in modo da colorare di più il nostro suono e levigare la ruvidezza. Niente di più azzeccato perché i brani de “Il Corponauta” lo meritavano, come meritavano una voce più matura della mia e quando dissi a Fabio che volevamo un cantante differente disse subito “Credo sia un’ottima idea” (lo so, non ci faccio una bella figura!). Il top è stato quando in studio, in fase di ascolto, dopo aver fatto tutto il primo mixaggio del quale eravamo stra-mega-super entusiasti disse: “Mmm… non mi convincono proprio le dinamiche” e via di tagli ad intere sezioni di batteria, tagli agli arrangiamenti delle chitarre, via intere sezioni di accompagnamento, ecc… Noi non capivamo cosa stesse succedendo ma alla fine ci rendemmo conto di quanto fossero efficaci i suoi interventi.

Infine quando tutto sembrava OK, un discone fighissimo e cazzutissimo: “Mmm… ora mixiamolo da capo”.   Ottenne da noi (quasi) carta bianca perché fino ad allora aveva sempre avuto ragione, e anche il nuovo mix gli diede ragione!

Com’è stato accolto il lavoro da pubblico e critica?

A.Co.: È stato il nostro primo lavoro dichiaratamente in ambito Progressive. Ci ha fatto scoprire un pubblico molto attento che segue questo genere, in Italia e non solo.
La prima presentazione dell’album in pubblico è avvenuta allo Z-Fest 2016 con un set acustico, quindi una situazione diversa (e per certi versi piuttosto lontana) da quella dove ci muoviamo solitamente. Siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla reazione positiva e coinvolta del pubblico, per una band come la nostra che si affacciava per la prima volta a quel mondo. Da lì sono stati diversi gli attestati di stima da parte del pubblico e in diverse recensioni. Ci siamo resi conto che veniva apprezzato il nostro muoversi nel solco Prog cercando di inserire elementi personali e, a volte, innovativi.

M.D.: Le opinioni mi sono parse tutte più che positive. Ricordo però con “simpatia” una stroncatura impietosa nella quale il critico introdusse l’articolo preannunciando il suo totale disgusto per la musica Progressiva. Cioè, paragoni impropri a parte, è come se un critico cinematografico che detesta il genere Western volesse dire la propria su un film di Sergio Leone. Spalando fango sulla pellicola ovviamente e pretendendo di essere attendibile oltretutto.

Per il resto è stato davvero emozionante vedere che un tuo lavoro possa fare breccia nell’interesse di sconosciuti appassionati e conoscitori. Ed è sempre interessante capire come, a seconda dell’ascoltatore, un dato dettaglio possa risultare fondamentale o trascurabile.

Una delle novità che accompagna “Il Corponauta”, oltre al cambio linguistico inglese/italiano nei testi (immagino dovuto, ovviamente, al testo di Emer) è il passaggio dall’Orquestra Records, etichetta che ha pubblicato “Il Paradiso degli Orchi”, all’AMS Records (che metterà il “timbro” anche sul lavoro successivo). Come e quando avviene il “salto” tra le due case discografiche?

A.Co.: Orquestra Records è stata una bellissima realtà fondata da alcuni ragazzi in provincia di Pavia, di cui l’etichetta era una delle tante attività da loro promosse.
I pezzi scritti successivamente al primo album cominciavano ad avere un’impronta maggiormente Progressive e per noi è stato naturale cominciare a seguire quelle etichette che proponevano questo genere. L’ingresso con AMS è avvenuto in un certo senso indirettamente, ancora una volta per merito di Fabio Zuffanti. Grazie al rapporto di fiducia costruito con l’etichetta, ogni lavoro approvato da Fabio viene valutato da AMS per la pubblicazione, e quindi anche “Il Corponauta”. Virtualmente, quindi, siamo entrati nell’orbita AMS nel momento in cui abbiamo iniziato a concretizzare il lavoro con Fabio, nel 2014.

Il 4 maggio del 2017 partecipate al Festival Terra Incognita a Quebec City, in Canada. Mi raccontate l’esperienza? Che idea vi siete fatti dell’attuale cultura musicale estera, del modo in cui il pubblico ne fruisce, dello spazio che si dedica alla musica dal vivo e quali sono le differenze con il nostro Paese?

A.Ca.: L’esperienza in Canada è stata eccezionale. Abbiamo fatto andata e ritorno Milano-Parigi-Montréal in soli quattro giorni e ne è valsa totalmente la pena. Di prima impressione sarei portato a dire che all’estero c’è maggior cultura musicale, che si respira un’altra aria e banalità di questo tipo. Tuttavia credo che questo giudizio, che spesso mi capita di sentire, sia inficiato dal fatto che solitamente quando un artista o un gruppo va a suonare all’estero lo fa nell’ambito di un evento specifico e particolare, i cui avventori sono solitamente appassionati del genere proposto. Non vai all’estero per suonare al Bar Nonna Papera o alla festa della birra del paese, in cui le persone sono più interessate al rosmarino sulle patate che alla musica dal vivo. Per cui la percezione del musicista può essere ingannata da questo. In passato mi è capitato di partecipare ad altri festival simili come il Crescendo in Francia o il 2Days Prog + 1 di Veruno in Italia e l’aria che si respira è più o meno la stessa. Poi c’è da dire che la gentilezza dei canadesi è qualcosa di sconcertante e sicuramente anche questa loro caratteristica contribuisce a far sentire il gruppo straniero (noi) particolarmente a proprio agio. Ma questo va al di là della cultura musicale. Certo è che vendere tutti gli album e firmare dediche a destra e a manca è qualcosa di particolarmente soddisfacente.

M.D.: L’esperienza è stata fantastica, sia per la soddisfazione “professionale” sia per il rapporto umano che ne è conseguito internamente al gruppo.

Circa la prima, già il semplice fatto di essere invitati Oltreoceano per partecipare ad un Festival è, di per sé, motivo di estremo orgoglio. Ma il vedersi trattati come VIP, con la fila di persone pronte a comprare merchandising, chiedere autografi e farsi fotografare in tua compagnia… quello è quasi surrealisticamente inebriante. Senza dimenticare l’ospitalità totale offertaci dai nostri squisiti amici Maryse e Larry. Appassionati di Prog oltre ogni immaginazione e semplicemente magnifici nel farci sentire a nostro completo agio.

In merito al secondo aspetto legato al Quebec, fino ad allora non avevamo avuto modo di passare molto tempo insieme, se non in sala prove, e spesso non tutti eravamo presenti. Quella manciata di giorni in terra canadese ci ha offerto l’occasione di conoscerci meglio, entrare in confidenza. È stato il miglior modo per creare un affiatamento altrimenti difficilmente replicabile secondo me.

E restando sul fronte live, come è Il Paradiso degli Orchi sul palco? Cosa c’è da aspettarsi da un vostro concerto?

M.D.: Direi che, sebbene rientriamo nel filone Progressivo, l’approccio è piuttosto “punk”; non siamo il genere di gruppo di virtuosi che deve a tutti i costi fare mostra delle proprie abilità (vuoi perché non fa parte della nostra attitudine, oppure perché semplicemente non abbiamo i numeri per farlo). Fin dagli esordi la predilezione è stata più per l’aspetto emozionale e sanguigno che non per la mera tecnica. Sia chiaro, assolutamente nulla in contrario verso chi, anche sul palco, riesce a mantenere quella concentrazione impeccabile che lascia attonito l’appassionato fruitore, ma un po’ per la nostra proposta musicale, un po’ per come ci piace vivere la dimensione live (on stage o “passivamente” dalla platea), direi che siamo più grezzi di quanto ci si aspetti da un gruppo Prog.

In tal senso, probabilmente con l’album “Samir” abbiamo assecondato questa propensione.

S.J.: Ci si diverte molto sul palco, siamo degli “smanettoni”, ci piace esagerare e ci riempiamo di diavolerie tecnologiche sul palco. Questo è il bello di essere svincolati dai generi e di avere un pubblico che apprezza l’eterodossia musicale.

Nel 2020 avete reso disponibile su Bandcamp il brano “OOO”, una delle poche canzoni d’amore senza che nel testo compaiano le parole: amore, occhi, baci, volare, cuore…. Composto durante le sessioni de “Il Corponauta”, non è stato inserito nel disco, insieme ad altri brani, per motivi di spazio. Come sono stati decisi i “tagli” e perché avete deciso di pubblicare proprio questo brano? Ci sarà modo di ascoltare anche gli altri “scarti” in futuro?

M.D.: Anche in questo caso la composizione è opera del Sambrich.

Io posso esprimermi solamente in merito agli “scarti”. Arrivati alla fine delle registrazioni per “Il Corponauta” ci siamo resi conto che la carne al fuoco era decisamente tanta. Troppa. Questo lo sapevamo già in partenza, ma non ci siamo voluti precludere niente a priori.

Perciò, una volta valutato quanto c’era di disponibile, abbiamo mantenuto ciò che di meglio ne era uscito e che avesse una certa coerenza col resto del lavoro (sia dal punto di vista concept sia come sonorità ed intenzione).

Se consideri poi che, a tagli fatti, abbiamo comunque dovuto smussare qua e là perché gli ottanta minuti del compact disc potessero contenere tutto il materiale scelto…

E nello stesso anno pubblicate il vostro terzo album: “Samir”. Una novità riguarda la vostra formazione con l’ingresso di Giacomo Piazza. Giacomo, come nasce la tua collaborazione con la band? E cosa c’è nella tua vita artistica prima de Il Paradiso degli Orchi?

G.P.: Conoscevo il Paradiso degli Orchi da anni, avevo persino partecipato a un loro videoclip come comparsa. Dopo la decisione di Stefano di lasciare la band per dedicarsi al suo lavoro, mi chiesero di subentrare alle percussioni e io accettai di buon grado.

C’era da portare in giro “Il Corponauta”, ma già lì la mia natura mi impediva di eseguire le parti percussive come erano state registrare nel disco e l’impulso compositivo fu in breve contagioso, tant’è che presto iniziammo tutti ad avere idee su un disco nuovo. “Samir”.

Non sono veramente un percussionista, mi occupo di musica in generale, suono qualche strumento e ho curato la produzione e il mixaggio dell’album.

Ho sempre ascoltato Progressive ma il Paradiso degli Orchi è la prima formazione che mi ha consentito di suonarlo. Mi sono dedicato al rock, al pop, all’elettronica, al cantautorato e persino alla musica francese dei primi del Novecento. Insomma, una macedonia di generi e stili che posso condividere ora con musicisti di cui ho stima e senza preconcetti.

Samir è un personaggio reale, “apparso” durante una nottata surreale che avete vissuto a Montreal, in Canada. Vi va di raccontare l’episodio?

M.D.: Per noi era il primo viaggio tutti insieme, nonché la primissima esperienza che potesse somigliare ad un tour (più per la questione on the road, visto che è stato uno spostamento “monodata”). La voglia di godersela quanto più possibile era tanta.

Coerentemente a questa esigenza, una volta arrivati in terra canadese ed accasati nella periferia di Montreal, erano circa le 22 mi pare, chiediamo alla nostra ospite di indicarci un locale dove potessimo berci un paio di birre ed atteggiarci a rockstar. Lo sguardo della nostra anfitrione era piuttosto eloquente; dove pensavamo di poter andare in quella zona del paese? A quell’ora? A goderci un poco la nottata?!

E così, per non essere scortese, lei ci traghetta in questo pub di periferia, con le vetrate a vista ma chiuso a chiave dall’interno. In barba al jet-lag ed al buon senso (il viaggio in aereo era stato bello pesantino e il giorno dopo avremmo dovuto muovere per il Quebec) entriamo.

L’ecosistema del locale risultò fin da subito strampalato. Di avventori ce n’erano, tutti maschi, e ognuno caratterizzato da almeno un paio di peculiarità ciascuno, che diedero adito alle nostre più astruse ricostruzioni fantasiose circa le loro vicende.

E così, in questo microcosmo a sé stante, veniamo avvicinati da tale Samir, che ci prende in simpatia e inizia a parlare con noi del più e del meno in un italiano piuttosto stentato ma comunque comprensibile.

Ci offre da bere, gli offriamo da bere, ci parla di musica del Bel Paese, di comici italiani (?) “super famosi” in Canada, dei quali ha dei DVD a casa che prontamente corre a recuperare per regalarceli, ci parla molto di sé e, dopo un’ora abbondante di chiacchiere, cerca di convincerci a seguirlo perché ci possa offrire delle “sigarette speciali”. La proposta continuerà ad essere reiterata anche nella seguente mezz’ora.

Decliniamo (ripetutamente) con garbo e, ringraziando comunque per la tanta generosità, ci lasciamo con la promessa che sul prossimo disco lo avremmo in qualche modo omaggiato.

“Samir”, a mio avviso, mostra il vostro lato più “visionario”. Ma quali sono, a vostro modo di vedere, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i tre album?

M.D.: Come detto, a differenza dei precedenti lavori, qui c’è stato molto più lavoro d’insieme, sia in fase di scrittura sia di arrangiamento.

Questo modus operandi era già stato testato su molti brani de “Il Corponauta”; mettersi in sala prove e giocare un po’. Partendo da un’idea di base, sviluppare melodie ed interventi dei più disparati strumenti, fino ad avere lunghe sezioni che dovranno poi essere incastrate tra loro.

In questa parte di stesura si cerca di sfruttare al massimo tutto ciò che possa produrre suoni e più sono le menti coinvolte più ci sarà possibilità di scoprire soluzioni interessanti.

Musicalmente “Samir” è contraddistinto da maggiore coerenza sonora forse. Per quanto i pezzi possano variare tra loro, qui la scelta dei suoni tende ad essere continua e lineare per tutti e cinque i brani (cosa che, ovviamente, sul primo album non venne troppo considerata, mentre su “Il Corponauta” fu sì adottata ma con un risultato finale forse meno continuo).

Tratto comune a tutti i nostri lavori continua ad essere il bisogno di non lasciare nulla di inesplorato o intentato, ma cercare soluzioni che vadano a dare corpo all’intenzione emotiva che vorremmo scaturisse con la musica stessa.

Vi va di spendere qualche parola sugli artworks che accompagnano i vostri lavori?

M.S.:  Per l’artwork ci siamo sempre affidati a “terzi”. Il primo era ideato da un grande agitatore culturale bresciano, Francesco Temporin, e si trattava di una scatola caratterizzata da una grafica essenziale che conteneva un CD e un poster con una grafica molto ricca e fantasiosa. Al tempo nessuno del circuito indipendente usciva con un packaging così ricco e particolare, colpiva molto e credo che ciò abbia influito molto sulle ottime vendite.

Per “Il Corponauta” girammo i brani a più grafici e valutammo le loro proposte. Quella di Roberto Salodini centrava subito il tema in modo efficace ed era molto elegante. Mi ricordo che andai di persona a ritirare i primi dischi stampati in AMS Records e il risultato finale mi colpì molto, non dico che ero commosso ma poco ci mancava. Avevamo lavorato a lungo su quel disco e investito tanto, eravamo contenti che AMS avesse valorizzato al massimo tutto il packaging.

Per “Samir” è stata l’unica volta in cui abbiamo provato a fare noi la copertina e le grafiche, ma senza successo. Qui è stato fondamentale l’aiuto di AMS Records che, con il suo studio, ha messo ordine alle nostre idee. L’idea di base era qualcosa di ruvido e bellico, che desse l’idea di declino, ecco perché il muro con tanto fori di proiettile.

Tornando per un attimo ai vostri inizi, per “amor di cronaca” va detto che la vostra prima pubblicazione ufficiale è “Journey #1”, brano presente nella raccolta “Phonocult 2010”. Come nascono quell’iniziativa e quel pezzo? E quanto de Il Paradiso degli Orchi degli anni a venire c’è già in quella composizione?

M.D.: L’idea che stava dietro a “Phonocult” non era per nulla male, coinvolgere una ventina tra i gruppi bresciani più interessanti proponendogli un paio di giorni in studio di registrazione, durante i quali sviluppare “da zero” un pezzo inedito destinato ad uscire in anteprima per una compilation dedicata. Non c’erano vincoli di genere per quanto riguarda il tipo di musica, se non quello che la volesse in qualche modo riconducibile al fenomeno indie che in quel periodo andava per la maggiore (e dal quale, come diceva Michele, Il PdO stesso nacque).

Che tutti i gruppi presenti sul disco avessero cavalcato l’idea dell’improvvisazione non ci metterei la mano sul fuoco, ma per quanto riguarda noi, facemmo il possibile perché questa richiesta fosse più o meno esaudita. Avevamo sì un’idea di base dalla quale partire e dello sviluppo che il pezzo avrebbe dovuto avere (sempre made in Sambrich, ça va sans dire) ma il 70% del brano fu davvero imbastito, arrangiato e registrato durante le due sedute.

Al tempo amavamo molto improvvisare, anche dal vivo, e perciò ci sentimmo piuttosto a nostro agio nel compiere l’impresa. Ovvio, se avessimo avuto più tempo avremmo fatto qualcosa di più rifinito e meno ingenuo, ma era un’ottima occasione per tastare il terreno anche di quello che avrebbe voluto essere la nostra attitudine onnivora. È un bell’esempio di ciò era nelle nostre corde in quel dato periodo e di quanto abbia influito su Il PdO a venire.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

M.D.: Sotto l’aspetto tecnologico sono sicuramente il meno adatto ad esprimersi. Lascerò perciò siano gli altri a farlo in maniera consapevole. Non posso che riconoscere le infinite possibilità che offre a chi è bravo a gestire il proprio aspetto social e si sente a proprio agio nel farlo. Ci sono poi una miriade di artisti fenomenali che senza il web ignorerei completamente. Ma questo evidenzia, al contempo, l’altra faccia della medaglia; quanti di questi artisti vengono poi approfonditi, ascoltati veramente, imparati, seguiti? Questo è certamente l’aspetto che più mi rende scettico verso questo linguaggio. Sono abbastanza “vecchio” da questo punto di vista. Per apprezzare totalmente qualcosa ho bisogno di cercarla, trovarla, averla, godermela. Viverla insomma. Questo non riesco a farlo se la scelta di cosa ascoltare lo seleziono da una cartella di mille mila Giga mandando in modalità casuale l’intera discografia di un musicista o gruppo. Devo avere il mio bel disco, compatto o in vinile che sia, e studiarmelo per benino.

Poi, per carità, anch’io ho un hard disk colmo di musica (della quale ho ascoltato forse la metà, appunto).

M.S.: Per il mondo del Progressive, che è un genere di nicchia, il web è fondamentale perché i fruitori ci sono ma sono sparsi in tutto il mondo. Crea, appunto, una rete di appassionati che altrimenti sarebbe troppo diluita per poterla raggiungere in altri modi. I locali e i palchi dove suonare Prog sono pochi, così come le riviste di settore che gli danno spazio, quindi non è facile mettersi in mostra e farsi conoscere.

Il fatto che stia diventando totalizzante è la cosa che mi piace meno. Poi non critico chi, soprattutto le nuove generazioni, non concepisce più i supporti fisici perché idealmente (molto idealmente) posso capirlo; mi dispiace di più che venga meno il concetto di album, di concept, di opera dell’artista: mi piace molto conoscere gli artisti attraverso un disco intero, lo trovo un bel modo di assaporare la sua completezza, e adoro vedere come evolvono ad ogni nuova uscita.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?

M.S.: L’ostacolo maggiore siamo noi stessi, perché nessuno di noi è bravo a “vendere”. Oltre a saper suonare bisogna anche imparare ad essere il proprio manager, almeno nei primi tempi; se ti manca questa caratteristica diventa tutto più difficile perché, nonostante il web la faccia da padrone, è ancora fondamentale alzare il sedere e conoscere le persone del giro. Se hai la faccia tosta e il coraggio di buttarti, allora cose come il crowdfunding possono diventare un ulteriore arma a proprio vantaggio, e non solo una necessità. Ci sono artisti bravissimi a creare rete, contatti, parlare con le persone ecc. Invidio più quell’aspetto che la bravura nel suonare!

Qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

M.S.: La scena italiana è davvero ricca e piena di proposte interessanti. Risulta difficile collaborare perché gli spazi sono pochi e, probabilmente, la fatica di trovare un data richiede tanto di quel lavoro che nemmeno ti sogni di collaborare con altri. Poi ripeto, noi siamo i primi incapaci a creare rete…

Esulando per un attimo dal mondo Il Paradiso degli Orchi e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

A.Ca.: Suono e/o canto in altri gruppi: Psycho Praxis (Prog anche lì), un tributo ai Creedence Clearwater Revival e una blues band.

M.D.: Solo da fruitore. Ho sempre adorato il mondo dei fumetti. C’è stato anche un periodo nel quale mi sono cimentato con la matita in mano, ma dire che la svolgo nella vita quotidiana mi pare non appropriato (se escludiamo gli schizzi da block notes mentre si cazzeggia).

S.J.: Insegno musica in varie accademie della mia zona, chitarra e pianoforte.

M.S.: Io mi dedico a trasmettere la passione per la musica alle mie bimbe. Spero di riuscirci!

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

A.Ca.: Difficile fare un podio, ma direi Jethro Tull (amore tardo adolescenziale che mi ha portato a provare lo strumento che poi ho iniziato a suonare), Genesis (quelli di Peter Gabriel, fede foxtrottiana) e Creedence Clearwater Revival, che ascoltavo quando andavo alle elementari nel Grundig su radiocassetta.

M.D.: I Pink Floyd, che sono il mio primo ricordo legato alla musica “adulta” (la copertina di “Atom Heart Mother” mi affascinava e, al contempo, terrorizzava se associata alla musica che celava). I Queen, quelli dei primi sette album soprattutto, il gruppo col quale ho imparato ad ascoltare la musica e comprendere quanto questa potesse trascendere da un genere. E Frank Zappa, che ha espanso quest’ultimo concetto all’infinito.

S.J.: The Beatles, Bill Evans e Soundgarden.

M.S.: Queen su tutti. Poi quando morirà Mark Knopfler sarò in lutto per un anno intero. In questo periodo sul podio mi sento di citare The Mars Volta, Yes e Ivan Graziani; ovviamente è un podio che cambia continuamente!

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

M.D.: Niente che non sia già arcinoto.

Per quanto riguarda le letture, Giorgio Scerbanenco e Truman Capote magari.

Tornando ai fumetti, Andrea Pazienza e Hugo Pratt su tutti.

E certamente aggiungerei Totò, I Monty Python ed i fratelli Marx per quello che concerne il “lato luminoso della vita”.

M.S.: In questo periodo sto divorando i libri dell’antropologo David Greaber. Non so se si possa considerare un artista, ma sicuramente il suo lavoro è molto stimolante e avvincente, anche se non si condividono tutte le sue riflessioni.

Musicalmente, invece, ho scoperto i Moron Police, una band norvegese che fa un Rock Prog davvero esaltante ed entusiasta. Il disco “A Boat on the Sea” è stupendo, pieno di grandi melodie e ottimi arrangiamenti!

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che, in parte, stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

M.S.: Se parliamo del mercato e del mondo professionale musicale, è chiaro che le cose saranno sempre più difficili. I lavoratori dello spettacolo nel nostro paese hanno dovuto sempre faticare per avere un minimo di riconoscimento, e il trattamento riservatogli durante questa crisi non ha fatto altro che confermare il poco interesse delle istituzioni verso lavoratori di settori diversi da quello manifatturiero, indugiando da sempre sul riconoscergli un minimo di tutele efficaci.

Comunque ho la convinzione che la musica sia qualcosa di ancestrale, che esiste dall’alba dei tempi, e, in qualche modo, al di là dell’aspetto commerciale e di mercato, ci sarà sempre e andrà comunque avanti. Un po’ come la natura che, nonostante l’irrispettosa ingerenza umana, rimarrà sempre una forza inarrestabile, anche la musica finché ci sarà l’uomo troverà il suo spazio e la sua funzione.

Restando sul periodo, invece di “restare immobili”, avete dato vita ad un’iniziativa video su Facebook, delle “dirette progressive” condivise con altri artisti. Come nasce l’idea?

M.S.: Inizialmente era una necessità, dovuta all’impossibilità di poter promuovere il disco dal vivo a causa delle restrizioni per il Covid19. Da lì pensammo di farne altre, ovviamente non incentrate su di noi, in collaborazione con altri artisti: Phoenix Again, Zuffanti e Ubi Major. Non ne abbiamo fatte molte perché, per quanto possa sembrare una banalità, c’è molto lavoro dietro alla diretta e non riuscivamo a starci dietro. Sicuramente in futuro sarebbe bello organizzarne altre, mi piaceva molto chiacchierare con altri musicisti della scena che altrimenti risulta difficile incontrare.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività?

M.S.: Prima di diventare a tutti gli effetti Il Paradiso degli Orchi, con la formazione a tre Sambrici-DeGiacomi-Fertonani, suonammo ad un concorso e mettemmo il borotalco su batteria e percussioni, poi sotto i nostri piedi, per creare un effetto visivo che colpisse. Iniziando l’esibizione con un bel crescendo psichedelico, pian piano la polvere si sollevò creando un bellissimo effetto visivo, ma quando iniziammo a pestare si sollevò un polverone infinito che riempi tutto il palco fin dietro le quinte e anche i primi posti a sedere: ci odiarono e ci maledirono!

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro de Il Paradiso degli Orchi che vi è possibile anticipare?

M.S.: Al momento stiamo lavorando sui brani nuovi e anche sulla possibilità di registrare un disco live. Siamo da sempre molto lenti, però confidiamo di non far passare altri cinque anni prima di una nostra nuova uscita. La cosa certa è che non vi libererete facilmente da Il Paradiso degli Orchi!

Grazie mille ragazzi!     

A.Ca.: Grazie a te, a presto!

A.Co.: Grazie a te!

M.D.: Grazie molte a te Donato!

S.J.: Grazie mille a te, a presto!

G.P.: Siamo noi che ti ringraziamo! A presto!

M.S.: Grazie a te! Un saluto a tutti i tuoi lettori!

(Giugno, 2022 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 3. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)

 

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