La fame e la terra

«Finalmente vi ho scoperto! Ora faremo i conti piccoli ladri!».
«Scappiamo!». L’idea di fuga fuoriuscì in un lampo dalla bocca di Lele e fu colta e condivisa ancor prima di nascere vocalmente, quasi telepaticamente, da Luigi e Leo.
«Non riuscirete a fuggire stavolta!», la minaccia spuntò senza convinzione dalla bocca del vecchio Turi, settantotto anni e una vita trascorsa nei campi, in quei campi. A testimonianza di ciò vi era quella pelle scura, bruciata dal sole, quel viso solcato da profonde rughe, quella curvatura piuttosto evidente della schiena, quel passo irregolare, infelice ricordo di un incidente occorso oltre trent’anni prima, ma vi era anche quell’espressione felice in volto, in fin dei conti, nonostante l’aspetto esteriore, era soddisfatto della vita, la vita che aveva scelto.
Il giovane trio partì a razzo, conosceva il vecchio Turi e la sua lenta andatura, ma non voleva minimamente rischiare la cattura. Lele, il più longilineo, guizzò subito verso la stradina sterrata che collegava la fattoria di Turi al piccolo paese, laddove, dietro una siepe, vi erano nascoste le tre bici e, recuperata la sua, quella rossa, corse via. A ruota lo seguì Luigi, l’elemento dei tre che, in caso di scommesse sull’ordine d’arrivo, non avrebbe ricevuto nessuna puntata per una sua eventuale presenza sui due gradini più alti del podio a causa della sua mole: undici anni, come gli altri due, un metro e sessantadue centimetri per ottantaquattro chili. Nonostante ciò sorprendeva per la sua agilità, balzò dunque sulla sua due ruote gialla e arancio e seguì l’amico.

«E Leo?». Dopo aver pedalato per un paio di minuti e aver raggiunto un posto sicuro, un piccolo anfratto non lontano dal torrente che attraversava il borgo e si perdeva nelle campagne circostanti, e dove spesso il trio si riuniva nei pomeriggi assolati, Lele attese l’arrivo dei due amici e, vedendo giungere il solo Luigi, pose l’allarmato quesito.
«Non lo so! Io sono scappato subito, come te, e non ho visto se sia riuscito a raggiungere la sua bici», replicò con un po’ d’affanno e di preoccupazione Luigi.
«E se il vecchio l’ha catturato?». L’interrogativo di Lele non ebbe risposta.

Aveva compiuto pochissimi passi dopo aver udito l’urlo del vecchio Turi, la forte pioggia della notte precedente aveva creato piccole trappole fangose nel terreno e, mentre Lele e Luigi erano riusciti a schivarle, Leo ne fu vittima: un piede perse subito aderenza e il suo esile e minuto corpo finì per intero nella melma. Turi, quasi incredulo per la facile vittoria, fu subito addosso.
«Eccoti qua furbetto! Ora noi due facciamo i conti!», pronunciò il vecchio soddisfatto, cercando di essere credibile nella sua volontà di cattiveria.
«No, la prego! Non mi faccia del male! Le ripago tutte le ciliegie, lo giuro!», piagnucolò Leo coperto di fango dalla testa ai piedi. Intanto le prime lacrime creavano dei rigagnoli più chiari sul suo viso sporco.
Da circa una settimana Turi aveva notato che i frutti dei suoi alberi di ciliegio scemavano senza motivo. Fin da subito, però, osservando sul terreno i resti interni immangiabili dei piccoli gioiellini rossi, aveva meditato sulla visita indesiderata di mani estranee.
«Sara, portami il fucile! Anzi, meglio l’ascia, così ci divertiamo con questo ladruncolo!».
«No, no, la prego! Non mi faccia del male!», Leo ormai piangeva disperato e impaurito. I suoi occhi erano chiusi per via della poltiglia terrosa che creava un forte bruciore ogni volta che tentava di aprirli. Non poté, dunque, notare la strana espressione del vecchio Turi, quasi divertito e imbarazzato nelle sue vesti di duro carnefice.
«E perché non dovrei? Sei un ladro e devi pagare per le tue colpe!», l’anziano uomo continuò ad indossare ancora questa maschera.
«La prego, la prego! Sono solo un ragazzino! Non mi faccia del male! Le ripagherò tutto, promesso!», ormai il suo volto, dalle gote sino al mento, era stato ripulito dalle stille che ancora fuoruscivano copiosamente dagli occhi.
Non resistette più. «Dai, alzati. Sei tutto sporco e bagnato», disse paternamente il vecchio Turi.
«C…Come?», chiese stupito il ragazzino.
«Si, dai alzati».
Incredulo, ma un po’ guardingo, Leo si alzò. Solo per un attimo pensò alla fuga, poi, fidandosi della magnanimità dell’uomo, decise di desistere.
«Perché rubate le mie ciliegie?».
«Perché lo fanno tanti nostri amici… e poi ci piacciono», confessò candidamente Leo.
Il vecchio sorrise, poi la sua mente fu attraversata dai ricordi.
«Sai, anch’io alla tua età facevo lo stesso ma non per gli stessi motivi…», fece una pausa e il suo sguardo diventò per qualche istante malinconico. Poi riprese: «Quando avevo nove anni qui arrivò la guerra e, di conseguenza, la fame. La mia famiglia, come tantissime altre del paese, era povera e viveva di quel poco che i campi e i pochi animali potessero offrire. La guerra ci tolse quasi tutto».
Turi arrestò di nuovo le sue parole. Leo, ormai tranquillizzatosi, si avvicinò di poco all’uomo. Inconsciamente, ma al momento non riusciva a comprenderne il motivo, desiderava conoscere il prosieguo di quella storia.
L’uomo sorrise al giovane, poi continuò: «Fu un periodo durissimo. Io e i miei tre fratelli trascorrevamo gran parte delle giornate tra i campi che cingevano il nostro paese in cerca di cibo, quasi sempre rubando quel poco che si riusciva a trovare. La concorrenza era alta», a quest’ultima frase seguì un sorriso più profondo che mostrò una dentatura ormai irrecuperabile.
«Ricordo ancora nitidamente le volte in cui, riusciti a recuperare delle patate, ci si sfamava anche delle loro bucce, o quando visitavamo quei pochi campi di grano il giorno successivo alla mietitura in cerca di chicchi di grano caduti nel terreno e non raccolti». Seguì una nuova interruzione e un luccichio apparve nello sguardo dell’uomo.
«Mi spiace», furono le uniche parole che riuscì ad emettere Leo.
Turi rispose con un nuovo sorriso.
«Sai perché, una volta grande, ho scelto questa vita a stretto contatto con la terra?», non attese una risposta e proseguì: «Per i miei figli, i miei nipoti, i ragazzi come te. Non volevo che la fame che io ho sofferto colpisse anche loro. Allora, poco dopo la fine della guerra, dapprima con i miei fratelli, poi, una volta sposato, con mia moglie Sara, ho iniziato a coltivare la terra, a piantare alberi e piante, a produrre cibo. Parte di esso lo vendevo, parte lo donavo a chi ne aveva bisogno. Con i guadagni acquistavo altri campi e il ciclo produttivo continuava e aumentava fortunatamente di volume. Questa passione l’ho in seguito trasmessa anche ai miei quattro figli, Umberto, Lucia, Nando e Piero, e loro ai propri figli. Ora ho settantotto anni e sono felice».
Leo, ormai rapito dal racconto, non riuscì a rispondere nulla. Era quasi commosso da quella breve narrazione e l’unica reazione fu un dolce sorriso. Il vecchio Turi lo guardò amorevolmente e ricambiò, poi osservò il sole alto nel cielo e disse: «È ora di pranzo. Dai, vieni in casa, ti faccio assaggiare il minestrone di mia moglie. È divino».

(pubblicato nell’antologia “Che cibo!” – Montegrappa Edizioni, 2017)

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