A message from Cristina

«Un giorno o l’altro, anch’io ci riuscirò a realizzare questi sogni miei e se col cuore un libro scriverò, dedicartelo vorrei… Perché tu sei la mia stella che oggi brilla per me e anche se non lo sai, sei del cielo la più bella che scintilla e che non mi abbandona mai. Stella!».
«Ma la pianti di ascoltare queste canzoni da bambino? Hai 30 anni!». La voce stridula di sua madre arrivò improvvisa come una pugnalata alla schiena.
Teodoro, affettuosamente, o quasi, Teddy per la mamma, si voltò di scatto e le lanciò uno sguardo rabbioso. Poi, con un secco movimento della testa, le intimò di abbandonare la stanza.
«E muoviti che la cena è in tavola!». Questa volta le parole giunsero attutite dalla porta che la donna aveva chiuso con forza dietro sé, dopo aver abbandonato il figlio nel suo mondo incantato.
“Deve esserci anche qui qualcosa. Ne sono sicuro”, pensò Teddy, rileggendo nuovamente il testo di “Camilla e Fabrizio” e grattandosi con forza tra i radi capelli della sghemba attaccatura sino a sostituire le scaglie biancastre della forfora, che scendevano sui suoi occhiali come neve, con dei puntini sanguinolenti. Intanto dalle casse del suo antiquato laptop Cristina D’Avena continuava a cantare.

Tutto era accaduto quasi una settimana prima. Come ogni sera dei suoi ultimi nove anni, Teddy lanciava su YouTube la solita playlist creata durante una delle tante notti insonni trascorse a riflettere sulla sua scialba vita. E, tra “Vedrai vedrai” di Luigi Tenco e “Verano” di Moltheni, scorrevano venti brani dalla struttura malinconica che Teddy conosceva a memoria ma che non cantava mai, mentre il suo sguardo era fisso sul poster dei Cavalieri dello Zodiaco affisso sulla parete accanto al letto all’età di sei anni e mai strappato via.
«Teddy Ruxpin sa che se cercherà un tesoro troverà. Il tesoro c’è ma nessuno, ahimè, gli sa dire dov’è. Teddy Ruxpin cosa fa, con due amici prende e va».
«Che diavolo è questa roba?» pensò ad alta voce.
La playlist era terminata e un nuovo brano, che nulla aveva in comune con quanto ascoltato poc’anzi, prese il via.
«Cristina D’Avena? Mi prendi in giro?» chiese indispettito al suo computer.
«Teddy, Teddy Ruxpin quante cose in questo viaggio imparerai».
«E basta!» e con un colpo chiuse lo schermo, spinse via la sedia che, oscillando, rischiò di terminare la sua corsa con lo schienale sul pavimento, e si avviò verso la porta. Aveva promesso ai suoi due unici amici che sarebbe uscito quella sera.
“Teddy Ruxpin sa che se cercherà un tesoro troverà”. Nella sua mente, intanto, la canzone proseguiva il suo corso.
Soliti jeans neri, solita maglia a righe orizzontali rosse e nere alla Kurt Cobain, artista che aveva scoperto per caso, apprezzato e poi abbandonato in poco tempo intorno ai sedici anni, solita giacca di pelle grigia, Teddy era ormai pronto per uscire quando nella sua mente, dopo una breve pausa, tornò con forza “Teddy Ruxpin”.
“Ma… ma… parla di me? Sono io quello della canzone?”. L’irrazionale quesito nacque all’improvviso sovrapponendosi al brano.
Teodoro Ruspini, Teddy per sua madre, tornò correndo in camera e ridiede vita al suo laptop.
Ascoltò più volte la canzone, lesse all’infinito il testo, poi cercò qualche notizia su Teddy Ruxpin scoprendo che si trattava di uno strambo cartone animato che aveva un orsetto come protagonista.
“1990. Cristina D’Avena l’ha incisa nel 1990 e io sono nato l’anno prima. Non può parlare di me. È assurdo!”.
Ritrovata a fatica un po’ di sensatezza, Teodoro abbandonò quella situazione irreale e, finalmente, uscì di casa. Intanto sua madre, con la mente avviluppata dai grugniti prodotti dai soliti decerebrati partecipanti al reality show di turno, non badava minimamente alle azioni del figlio.

«Teodò, allora? Ti pare l’ora di arrivare?».
«Scusate».
«Che t’è successo?» chiese ancora Mirco.
«Nulla. È che… niente, niente».
«“Niente, niente” non esiste. Cos’è successo?» lo incalzò.
«Ecco, non so se vale la pena dirvelo, è così assurdo che non ci credo manco io. Di sicuro vi farete due risate».
«E allora facci ridere».
Teodoro non riuscì a condensare in poche parole l’accaduto notando sui volti dei due amici una crescente sensazione di divertimento che deflagrò attraverso Mirco.
«Ora Cristina D’Avena canta canzoni dedicate a te! Ma non farmi ridere!».
«La canzone è stata pubblicata nel 1990, un anno dopo la mia nascita».
«E quindi? Cosa vuol dire? E che tesoro dovresti cercare?» proseguì Mirco.
Teodoro non rispose e abbassò lo sguardo in atteggiamento difensivo.
«Lascia perdere queste stronzate e vieni con noi a bere qualcosa al Tavern».
«Non so, credo che tornerò a casa».
«Se può farti sentire meglio, possiamo invitare… Heidi, Dolce Candy e Puffetta!» e ridacchiando Mirco si avviò da solo verso il pub mentre meccanicamente, con l’indice e il pollice destro, carezzava il piercing a doppia punta che, posto sul sopracciglio, andava a deturpare quel viso dai lineamenti gentili.
«Che stronzo» disse quasi sottovoce Teodoro.
«Lascialo perdere». Leo aveva ascoltato in silenzio e con curiosità la storia dell’amico.
«Tu che ne pensi?».
«Penso che sia una follia la tua, però…».
«Però?».
«Niente. Solo un pensiero di passaggio».
«Cioè?».
«Lo sai che esistono davvero delle canzoni che contengono dei messaggi subliminali?».
«E che c’entra con la mia storia?».
«Di sicuro nulla! Vabbè, vado anch’io. Se cambi idea ci trovi lì» e con il suo passo lievemente irregolare, dovuto a quella deformazione del bacino che solo apparentemente lo faceva sembrare con una gamba più corta dell’altra, Leo lasciò solo l’amico.

“Messaggi subliminali nelle canzoni”. Dopo esser rincasato, levò solo la giacca e corse in camera, attivò il computer e digitò le quattro parole su Google.
Tra il messaggio satanico dato per certo in “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin e il riferimento alla presunta morte di Paul McCartney in “I’m so tired” dei Beatles, nulla di interessante attirò l’attenzione di Teodoro. Tentò poi una diversa strada, cercando qualcosa che riguardasse i brani di Cristina D’Avena ma, a parte le solite stronzate sui presunti doppi sensi di alcuni versi, non trovò nulla che lo riguardasse anche solo di striscio.
Decise allora di stampare tutti i testi dei suoi brani e, dopo averli rintracciati su internet, restando basito dalla quantità, erano diverse centinaia, confidò nella tenacia della sua vecchia stampante che, in poco più di sessanta minuti, riuscì a sputare sino all’ultima parola dal suo cassetto mentre Teddy oscillava quasi inebetito sulla sedia fissando la sua spia verde lampeggiante.
“E ora?” chiese a sé stesso dopo aver posizionato sulla scrivania quasi un migliaio di fogli stampati impilati.
Quella notte ascoltò una quarantina di brani su YouTube, rileggendone ripetutamente i testi, prima di essere sorpreso dal sole che entrava lentamente dalla finestra e da sua madre.
«Già sveglio?».
«Cosa? Sì, sì. Mi sono alzato dieci minuti fa» rispose con gli occhi semichiusi e la voce impastata.
«Muoviti a fare colazione allora perché poi devo uscire».
Dopo aver intinto sbadatamente alcuni biscotti con gocce di cioccolato nella tazza bianca dal manico frantumato colma di caffellatte, Teddy lasciò tutto in tavola e tornò in camera.
Sua madre, intanto, chiusa nella camera da letto, stava terminando di scrivere una delle sue lettere che, a cadenza trimestrale, o poco più, spediva ad una mai palesata zia dell’Argentina.
“Ogni pagina contiene un rompicapo e non sai come lo risolverai, ma pensandoci un momento la risposta avrai”. Sedutosi nuovamente alla scrivania, rilesse più volte i versi tratti da “A scuola di magie”, qualcosa lo attraeva.
“Sì, c’è un rompicapo che devo risolvere per trovare la risposta”.

«Quante domande prorompono in te che vuoi capire e imparare di più. Un orizzonte di curiosità accoglie il sole dei tuoi perché, che splende già alto lassù, nel cielo azzurro di ogni risposta. Ogni risposta che riceverai per tutta la vita con te porterai».
«Hai finito di ascoltare quelle canzoni deprimenti e ora ti sei lanciato sulle sigle dei cartoni animati? Bravo! Ogni tanto un po’ di colore non può che farti bene!». La voce di sua madre apparve improvvisa nella sua stanza.
Teddy non la degnò di uno sguardo.
«E cos’è tutto questo casino per terra? Prima di cena, se ti degnerai di venire a tavola, metti ordine».
Erano trascorsi tre giorni dalla “rivelazione” e Teddy aveva abbandonato la sua camera solo per espletare i suoi bisogni fisiologici, addentando qualche panino o tramezzino che la madre preparava senza farsi troppe domande o visitando la cucina il minimo indispensabile.
Sulla sua scrivania decine e decine di fogli colmi di appunti vergati a mano che decoravano come miniature i testi stampati, parole fitte e minute che richiedevano quasi l’utilizzo di una lente di ingrandimento e di un esperto grafologo per essere interpretate. Per terra un oceano di carta appallottolata custodiva tra le sue increspature tutti i testi che non contenevano “messaggi” utili.
“Sì, tante domande prorompono in me ma voglio anche delle risposte”.

«Stammi ad ascoltare perché ho una sorpresa per te davvero sensazionale».
«Quale?! Quale?!» urlò colpendo con forza il bordo della scrivania con il palmo della mano.
Al decimo giorno di “ascolto forzato” il viso di Teddy era segnato da profonde occhiaie, i suoi occhiali erano un concentrato di impronte digitali e la sua camera era pervasa da un odore pungente.
«Cosa stai cercando di dirmi, Cristina?» chiese poi pacato.
Intanto, da un tempo imprecisato, la sua mano destra grattava senza soluzione di continuità sulla sua fronte e, dopo aver fatto saltare le crosticine fresche, dei nuovi puntini vermigli presero vita.
Di scatto prese una serie di fogli sovrapposti sul lato destro della scrivania e, con un gesto furioso, gettò a terra tutto il resto, escluso il laptop.
«Cosa farai mia tenera Remì ora che il tuo destino ti ha lasciato qui da sola. Cerca la forza nel coraggio che hai, trova il sentiero che percorrere tu dovrai».
«Se guardi qua, se guardi là, se cercherai la strada troverai».
«Guarda un po’ più in là, oltre al muro che ti trattiene qua nella tua realtà».
«Solo Willy Fog arrivare può proprio al centro della terra. Lui ci proverà e se ce la farà vincerà la sua scommessa».
«Ci vuol coraggio per affrontare le mille cose che non conosciamo. Ci vuol coraggio per dire basta a tutto quello che ancora non va».
«Viaggio ai confini dell’universo, fra pianeti che non conosco, per capire il passato, quello che è stato tanto tempo fa».
«In un ricordo c’è lo specchio del passato per te, che dentro ai tuoi pensieri arriva come grandine a terra e, galoppando nell’immensità, col tuo presente si confonderà. Un passato che sparire non sa in un ricordo c’è».
Come un automa leggeva rapidamente e ad alta voce i versi che aveva cerchiato in rosso e incorniciato di appunti, con i suoi occhi che balzavano freneticamente da un foglio all’altro.
“Devo cercare qualcosa nei miei ricordi. Sì, ma cosa?”.
«Teddy, allora? Vuoi uscire da questa stanza? E apri questa cavolo di finestra che c’è una puzza tremenda!». Come sempre la voce di sua madre arrivava inaspettata alle sue spalle.
«Lasciami stare!» sputò velenoso.
«Fa come credi, soffocaci in questa puzza di cadavere. Io esco, ci vediamo stasera se mi degnerai della tua presenza a tavola» e sbattendo la porta dietro sé andò via.
“Un ricordo. Devo trovare un ricordo, forse una foto di quando ero piccolo”.
Saltò dalla sedia, uscì dalla stanza e si spostò nella camera da letto di sua madre. Era l’unico posto in cui, era certo, avrebbe trovato delle sue fotografie, vista la totale assenza di istantanee di famiglia in casa. Come un automa iniziò ad aprire i tiretti della cassettiera in mogano intagliato, l’unico elemento che, assieme all’armadio di medesima fattura, allo specchio scheggiato e al letto matrimoniale, caratterizzavano la sparuta mobilia di quell’ambiente, in cerca di qualche foto.
Sotto due strati di biancheria consunta, nel terzo cassetto di quella che gli inglesi chiamano chest of drawers, individuò un vecchio album portafoto in plastica dagli angoli smangiucchiati. Lo aprì. Cinque immagini, solo cinque. Nella prima lui, appena nato, tra le braccia di sua madre nel letto dell’ospedale, anche se il volto di lei era parzialmente tagliato e si individuava solo parte del mento e della bocca. Nelle altre tre, riferibili ad un arco cronologico che andava dai due ai quattro anni, i due immortalati in un paesaggio montano o tra le mura domestiche. Solamente nell’ultima ritrovò la famiglia al completo: lui, sua madre e suo padre. L’unica immagine con l’uomo di cui aveva dimenticato il volto e il suono della voce. Le osservò con cura ma nulla accese la sua mente.
Proseguì la ricerca e, nell’armadio, rinvenne una scatola piuttosto capiente dal motivo floreale. Era la prima volta che la vedeva. Levò il coperchio e scoprì al suo interno un numero imprecisato di fogli scritti a mano. Erano lettere.
“Forse sono le lettere della zia dell’Argentina, Cinzia. O di mio padre”.
Afferrò il contenitore, lo poggiò sul letto, si sedette sul bordo e iniziò a leggere il primo foglio.
“…e di te e Carlo cosa mi dici? È da un po’ che non mi dai notizie. Spero il lavoro vada bene e che presto riusciate a comprare una casa nuova”.
«Parla di mio padre? E che storia è questa della casa nuova?» pensò ad alta voce. Proseguì.
“…sto ancora aspettando una foto del mio piccolo uomo con Sara. Spero tu riesca ad inviarmela presto”.
«Chi è Sara?».
“…dai un bacio alla mia stella. La prossima volta, giuro, ti chiederò solo di lui”.
«Firmato “C.”. Zia Cinzia?».
La lettura lo scombussolò. Non ne comprendeva il senso e, soprattutto, non riusciva a mettere a fuoco quei nomi.
Ne prese un’altra a caso.
“…sono davvero orgogliosa di lui. Sapere che va all’università (il mio piccolo diverrà un grande architetto, lo sento), che ha una fidanzata speciale e che, grazie a te e Carlo, ha una vita perfetta, mi rende davvero felice. Grazie”.
«Ma di chi diavolo parla?» nella voce di Teddy, intanto, spuntò un velo d’irritazione.
“…che bello che è nella foto che mi hai mandato. Sta crescendo davvero bene la mia piccola stella. Ha già sei anni, a me sembra ieri che… Niente. È giusto così”.
“…e piango. Piango tutti i giorni, non farmene una colpa. È difficile, lo so, ma so anche che è stata la scelta giusta. Dolorosa ma giusta. La mia piccola stella, il mio piccolo Teddy, ora ha l’affetto che si merita”.
«Pa… parla di me?» chiese ad un invisibile interlocutore, mentre la lettera si liberava dalla presa della sua mano apertasi di scatto.
“…non ha ancora un anno. Mi manca da morire e vorrei dirgli che gli voglio un bene dell’anima. Te lo chiedo solo per questa volta, sarà l’unica, promesso. Puoi sussurrargli “La tua mamma è sempre accanto a te, piccola stella mia, e lo sarà per sempre” e dargli un bacio?”.
«La mia mamma? La zia è… è la mia vera mamma?».
Fissò il suo volto allo specchio per alcuni minuti, immobile, in cerca di un dettaglio nuovo, qualcosa che gli era sempre sfuggito.
Poi, nervosamente, sfogliò e lesse altre lettere rinvenendo nuovi dettagli che lo riguardavano, veri o inventati, ritrovando sempre, in fondo alla pagina, la firma “C.”. Le rovesciò sul letto in cerca di una busta per scoprire l’indirizzo del mittente. Nulla. Vi erano conservate solo le lettere.
«”C.”, “C.”, come… come Cristina D’Avena!» urlò incredulo.
Gettò tutto a terra e corse nuovamente in camera sua.

“Perché tu sei la mia stella che oggi brilla per me e anche se non lo sai, sei del cielo la più bella che scintilla e che non mi abbandona mai. Stella!”. I versi tratti da “Camilla e Fabrizio” tornarono prepotentemente nella sua mente e fu una rivelazione.
«Io sono la tua stella? I-io… sono tuo figlio?!».
Furiosamente riprese i testi appuntati sulla scrivania e ricominciò a leggerli.
«Sai, quando un giorno tu crescerai e un adulto poi diverrai, non scordarti bambino quand’eri piccino. Con te crescerà la verità».
«Remì, Remì vai e cerca la tua strada che forse un dì ti condurrà a casa».
«Col tuo coraggio sfidi l’ingiustizia, con la tua spada scacci i traditori, col tuo sorriso svegli l’amicizia, col tuo cavallo sfuggi agli impostori».
«Che segreti hai che tutti i giorni sempre sfiorerai, ma nessuno mai indovinerà».
«Guardi al tuo passato, ma il futuro adesso è qua straripante di novità».
«La verità, la libertà in ogni cuore devon stare già, tutto qui poi cambierà».
«Ogni giorno ed ogni notte vola il mio pensiero a te, anche quando non ci sei io ti sento accanto a me».
«Chiudi gli occhi e ascolta questa canzone perché io so che tu, tu non la ricordi più».
«Dal nulla arriva Nanà e lei passato non ha».
«Forse un giorno sai tu mi lascerai poi, però, dopo un po’ ritornerai ed ancora qui da me ritornerai e qui con me per sempre tu resterai».
«Tutti abbiamo nel cuore una mamma e un papà, ogni giorno il loro amore ci guida sempre più in là. Judy non ha nessuno che guidarla potrà, ma ecco l’ombra di qualcuno che tutto ciò cambierà, cambierà!».
«Bum Bum il cagnolino simpatico e carino, inizia un’avventura, però senza paura, per ritrovar la mamma».
«Sogni qualcosa, una novità per non essere sempre là, e il destino all’improvviso cambia il tuo DNA. Dimmi un po’ chi sei? Non sei più la stessa e tu lo sai».
«Tutto tornerà come già era qua, come prima sì, ritornerà».
E mentre leggeva, le unghie della mano sinistra grattavano energicamente sulla caviglia sino a causarne dei graffi sanguinanti.
«S-sono davvero il figlio di Cristina D’Avena?» disse con la voce rotta lasciandosi cadere contro lo schienale della sedia.
D’un tratto, Teodoro udì la porta di casa aprirsi e automaticamente si fiondò in salotto ad affrontare quella che, da alcune ore, nella sua mente non era più sua madre.
«Perché mi hai tenuto nascosto tutto? Perché le racconti un sacco di stronzate su di me?».
La donna fu investita dalle parole scagliate con forza dal figlio.
«Di cosa parli?».
«Perché mi hai raccontato un sacco di stronzate per anni? E perché le racconti anche a lei?» urlò con rabbia Teddy, gli occhi iniettati di sangue e le mani tremanti.
Lei lo fissò in viso senza rispondere.
«Perché?!» gridò con tutta l’energia che aveva.
«Posso dirle che sei un’ameba, che non fai un cazzo dalla mattina alla sera, non hai una ragazza, un amico, una vita e ti stai bruciando lentamente come me?» vomitò la donna con cattiveria prendendolo alla sprovvista.
«Quindi… quindi tu non sei mia madre?».
Tacque continuando a guardarlo negli occhi.
«Dimmelo».
«Sì, è vero. Non sono tua madre».
Queste poche parole lo travolsero come un macigno e la sua lingua si fermò.
«Tuo padre, è sempre stata colpa sua. E di tua zia. È lei tua madre. Poco prima del matrimonio, quello stronzo mi ha tradito con lei ma lui e la mia famiglia mi hanno costretta a tacere per evitare uno scandalo, facendomi fingere di essere tua madre e buttando fuori casa lei. Poi è scomparso anche lui».
Teodoro non aveva ascoltato minimamente il racconto, nella sua mente le sigle dei cartoni s’intrecciavano e ricostruivano per immagini la sua storia.
«E… e… la mia vera madre è Cristina D’Avena?».
«Chi?». Nonostante la situazione, la domanda di Teddy riuscì a strapparle un fugace sorriso.
«Io lo so, sono suo figlio. Lo dice nelle sue canzoni».
«Non dire stronzate».
«Non sono stronzate!» gridò veemente.
«Ascoltare quello schifo di canzoni per bambini ti ha mandato in tilt il cervello».
«Non parlare così di… di mia madre!» e con rabbia la spintonò fulmineo lasciandola precipitare verso il pavimento.
La donna fu colta alla sprovvista e, prima di toccare terra, impattò violentemente con il cranio sullo spigolo del piccolo mobiletto in legno che, accanto alla porta, ospitava lo svuotatasche in vetro, trascinando con sé il suo misero contenuto.
La fissò, vuoto, per diversi secondi. Poi s’avvicinò e le toccò il viso inerte. Infine, osservò la sua gabbia toracica, immobile. Era morta.
Cinicamente si spostò nella sua camera e, recuperato uno zaino, lo riempì con alcune mutande, calzini e un paio di t-shirt. Poi raggiunse la camera della sua non più mamma, aprì il vecchio portagioie decorato con piccole conchiglie, ne staccò il fondo e recuperò un mazzetto con diverse banconote da cento euro.
Prima di uscire, si ricordò di quella pistola che suo padre aveva abbandonato in quell’abitazione e che la donna aveva custodito per sentirsi più sicura. La ritrovò nell’ultimo cassetto della cassettiera.
Era pronto per andare. Si portò verso la porta di casa, un ultimo sguardo a quella donna sconosciuta, e uscì.

«Devo parlare con Cristina. È importante».
«Ragazzo, gira al largo».
«Mi faccia passare. Devo parlarle».
«Cosa non ti è chiaro del fatto che qui non ci puoi stare? Devo incazzarmi?».
«Le… le dica che qui c’è suo… suo figlio».
«E pure stasera è arrivato il figlio di Cristina D’Avena. Vattene o ti sfascio la faccia!» abbaiò l’uomo dall’imponente mole fisica che sbarrava il passaggio al camerino della cantante.
Il giorno dopo aver lasciato casa, Teddy aveva deciso che l’unica strada percorribile era quella di raggiungere la sua nuova madre. Cristina D’Avena era in tour e il prossimo concerto si sarebbe tenuto a meno di 200 km dal suo paese.
Era giunto con non poche difficoltà nei pressi del teatro dopo aver viaggiato in autobus e poi in treno, non aveva mai viaggiato da solo, e, con un po’ di fortuna, prima del concerto, era riuscito ad avvicinarsi all’area artisti ma quel cerbero ad una solta testa l’aveva interrotto.
A fine concerto provò nuovamente ma il tentativo fu bloccato sul nascere.
Seguì la cantante nei successivi concerti senza fortuna. L’attese al termine degli spettacoli, anche fuori dalle locations, ma non riuscì mai ad avvicinarla.

«Io ti ho già visto. Tu sei uno dei figli di Cristina, giusto?».
«No, io sono l’unico».
Nove giorni dopo l’unico tentativo che l’aveva portato a pochi metri da Cristina, il caso volle che, dopo esser riuscito a trovare un pertugio per superare i controlli, s’imbattesse nuovamente nello stesso steward.
«Perché sei di nuovo qua? La mia pazienza ha un limite ragazzo. Smamma».
«Fammi parlare con Cristina».
«Vattene stronzetto».
Teddy lo fissò negli occhi. Poi, con estrema naturalezza, aprì lo zaino, estrasse la pistola e la puntò contro l’uomo in nero.
«Che vuoi fare con quel giocattolo? Ne ho visti di fanatici ma tu li batti tutti».
«Fammi parlare con Cristina», ripeté meccanicamente.
«Ora m’hai scocciato».
L’uomo fece un passo verso Teodoro ma, prima di colpirlo, fu raggiunto da un proiettile in pieno petto.
Il boato riempì la zona retrostante il palco e, mentre il rumore di passi in avvicinamento si faceva sempre più corposo, Teddy, glaciale, infilò la pistola nello zaino e s’allontanò.

I due concerti successivi furono rinviati a data da destinarsi.
Teddy raggiunse con due giorni d’anticipo la città in cui era prevista la ripresa del tour, dormendo all’aperto in uno dei parchi pubblici, le calde giornate lo permettevano.
Si recò al Palazzetto dello Sport già dal pomeriggio immaginando che durante le prove fosse più semplice incontrare Cristina.
«Dove pensi di andare? Non si può assistere alle prove».
«Devo parlare con lei».
«Certo, come no. Vai via» ringhiò lo steward.
Teddy s’allontanò di poco, rifugiandosi dietro alcune ingombranti attrezzature.
“Devo entrare”.
Attraverso una fessura che si apriva tra due grosse casse affiancate, riusciva a vedere i movimenti dell’uomo. Era a meno di dieci metri e notò che, non di rado, lo steward si spostava dall’accesso, facendo dei passi in direzione opposta alla sua per poi tornare al suo posto, dandogli dunque le spalle per pochi secondi. Levò dallo zaino la pistola e attese il momento giusto. Con pochi rapidi passi gli fu addosso e lo colpì con violenza alla testa utilizzando il calcio dell’arma. L’uomo cadde al suolo privo di sensi.
Una volta dentro impiegò alcuni secondi per individuare un posto dove nascondersi e da cui studiare il modo per raggiungere la cantante.
Si spostò lentamente, cercando di non incrociare la presenza umana che frequentava quel posto, sino a raggiungere quello che sembrava un accesso al palco. E la vide. Era sulla scena e parlava con uno dei tecnici mentre, intorno a lei, i musicisti sistemavano i loro strumenti. Meno di venti minuti dopo prese il via una sorta di processione, con una serie di figure che lasciava il palco per andare verso di lui. Teddy riuscì a celare giusto in tempo la sua sagoma dietro ad un tendaggio. E attese silenzioso. Infine, uscì anche lei.
«Cristina».
La voce la sorprese alle spalle ma l’artista non s’intimorì. Non doveva essere nuova a queste improvvisate.
«Ciao! E tu come hai fatto ad arrivare sin qui? Vuoi un autografo?» rispose sorridente.
«Sono… sono Teddy Ruxpin, tuo figlio, la tua stella».
«Come scusa?».
«Dimmi che sei mia madre».
«Non ti seguo, scusami» disse imbarazzata Cristina D’Avena.
«Dimmi che sei mia madre. Dimmelo».
La cantante lo fissò interrogativa. Poi seguì curiosa quel lento movimento della mano che apriva lo zaino e ne estraeva una pistola. Alla vista dell’arma restò impietrita.
«P-perché fai così? N-non essere impulsivo e abbassa quella pistola».
«Dimmelo. Mamma».
«N-non so di cosa parli m-ma mi stai facendo paura».
«Perché mi hai abbandonato? Perché?». Teddy continuava a parlare e a porre domande con una calma irreale e un tono monocorde.
Cristina aveva il volto paonazzo e tremava. Cercò intorno a sé una figura umana che le venisse in soccorso ma continuava ad essere sola contro quel folle.
«S-sì, sì caro. S-sono tua madre» disse ad un tratto con voce tremula cercando di soddisfare la richiesta dello scellerato fan. Era la prima volta che un suo ammiratore le puntava una pistola contro.
«Perché mi hai abbandonato?» chiese nuovamente.
«È-è successo ta-tanto tempo fa».
«Perché?».
«Perché… perché… non lo so perché…» e d’improvviso la paura convogliò tutte le sue lacrime nello stesso punto lasciandole defluire dagli occhi.
«Mamma…».
«A-ascoltami, io non sono la tua mamma. T-ti sto dicendo tutte queste sciocchezze solo perché ho paura di quella» e indicò con un lieve cenno del capo la pistola.
«Non è vero. Tu sei mia mamma. Hai disseminato le tue canzoni di messaggi per me ed ora sono qui» e si avvicinò lentamente a lei.
«N-non farmi del male, ti prego. E ascoltami, io non sono tua madre. Te lo giuro».
«Non ti credo. Ci sono anche tutte le lettere che hai spedito a quella che ha finto di essere mia madre sino a pochi giorni fa che lo testimoniano».
«Credimi, non so davvero di cosa tu stia parlando».
Teddy arrestò la sua lingua e si soffermò a guardare il suo viso sempre giovane, il suo sguardo dolce rovinato dalle lacrime, e allungò lentamente la mano libera per carezzarla, per carezzare sua madre.
«Abbassa quella pistola!».
Inaspettata, una voce alle sue spalle ruppe quello strano momento di tenerezza. Teodoro si voltò di scatto per individuarne la fonte ma l’uomo, anticipando una sua mossa avventata, sparò.
Teddy cadde al suolo, mentre un torrente di sangue abbandonava il suo solito alveo per disperdersi sul pavimento.
Cristina D’Avena aveva assistito terrorizzata al tragico epilogo e, trovando il coraggio, s’inginocchiò verso il ragazzo che, sforzandosi, cercava di emettere le sue ultime parole.
«Forse un giorno sai tu mi lascerai poi, però, dopo un po’ ritornerai ed ancora qui da me ritornerai e qui con me per sempre tu resterai».

(pubblicato nell’antologia “Onda noir. Musica e Morte” – Il Rio, 2019)

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