Intervista agli Old Rock City Orchestra

Diamo il benvenuto a Cinzia Catalucci (C.C.), Raffaele Spanetta (R.S.), Giacomo Cocchiara (G.C.) e Michele “Mike” Capriolo (M.C.): Old Rock City Orchestra.

C.C.: Un saluto e grazie a nome di tutti per averci offerto la possibilità di parlare della nostra band e della nostra musica!

Subito una domanda “scontata”: quali sono le origini del progetto Old Rock City Orchestra? E come avviene la scelta del nome?

R.S.: La band nasce nel 2009 dall’esigenza di esprimere le proprie idee musicali. Io e Cinzia, reduci da una precedente esperienza comune in un altro gruppo, abbiamo deciso di dar vita a un progetto originale e inedito di matrice psichedelica e poco tempo dopo Giacomo e Mike hanno sposato la causa Old Rock City Orchestra. Così abbiamo iniziato a provare, comporre, creare musica nuova.

M.C.: Il nome Old Rock City Orchestra è un gioco di parole che racchiude in sé i termini “vecchio rock” e Orvieto, la nostra città, in latino Urbs Vetus, ovvero “città vecchia”, che sorge appunto su un’antica rupe, una vecchia roccia. L’“orchestra dell’antica città rupestre”, un nome che rievoca un lontano passato non solo musicale. Molti ci abbreviano con l’acronimo ORCO e la cosa non ci dispiace!

Facendo per un attimo un balzo avanti (ma solo per amor di autocitazione!), nella recensione di “Back to Earth” parlo di paesaggi sonori che denotano una “cultura musicale” di tutto rispetto. Quali sono, dunque, gli studi e i percorsi musicali (non solo di ascolto) dei singoli?

C.C.: Sin da bambina ho iniziato a studiare pianoforte e canto, affascinata da voci femminili “classiche” quali Mina, Antonella Ruggiero o più moderne, come ad esempio Alanis Morrisette. Più tardi mi sono avvicinata a vocalità che fanno parte di un altro mondo musicale, come Jill Saward dei Fusion Orchestra o Grace Slick dei Jefferson Airplane, entrando in un’ottica più vicina alle sonorità della nostra musica. Non mi ispiro a un modello in particolare, ma cerco di prendere spunto dalle caratteristiche di diversi artisti e coltivare uno stile che possa essere il più personale possibile. Ho iniziato la mia attività live sin da giovanissima, sia come solista, sia come membro di un gruppo e durante il mio percorso musicale ho avuto anche l’onore di esibirmi in duetto con Mike Moran, noto pianista e produttore inglese che ha collaborato con artisti del calibro di Joe Cocker, George Harrison, Ozzy Osbourne, David Bowie e, non per ultimo, Freddie Mercury. Una bella soddisfazione!

R.S.: La mia avventura musicale, come per la maggior parte dei bambini, è iniziato con lo studio del flauto dolce! Ho sperimentato diversi strumenti nel corso degli anni per poi trovare la mia dimensione nel mondo della chitarra. Jimi Hendrix, Ritchie Blackmore, Jimmy Page, Eric Clapton e i grandi chitarristi del rock classico anni ’70 hanno contribuito notevolmente alla mia formazione musicale, legata molto alle sonorità psichedeliche e hard rock, al progressive rock e al krautrock, ma anche alla musica classica, anche se in fin dei conti sono solo un bluesman!

G.C.: Per quanto riguarda la mia formazione ho iniziato ad avvicinarmi alla musica grazie allo studio del violoncello, che inizialmente, considerata la mia giovanissima età, era in realtà una viola suonata in verticale! Sono sempre stato affascinato dagli strumenti e dal ritmo e, dopo aver suonato per qualche anno la batteria, mi sono dedicato allo studio del basso elettrico, strumento che mi ha permesso di cimentarmi in diversi generi musicali, dal funk al rock, dal jazz al pop. Ascolto musica varia, spaziando da De André ai Jethro Tull, dal country alla musica celtica e sono costantemente alla ricerca di novità. Una curiosità dovuta ai retaggi dei mie studi classici: sono mancino in tutto, ma non quando suono il basso!

M.C.: Sono diventato un batterista grazie all’ascolto dei grandi della scena rock e hard rock internazionale. Cerco di “rubare” dagli artisti che più mi colpiscono, di studiare i loro stili e di trarre ispirazione dalle loro tecniche, tentando così di essere versatile e il più completo possibile, con un approccio sempre rivolto alla ricerca e al perfezionamento. Sono vicino alle sonorità “heavy”, amo il metal e l’hard rock, ma apprezzo molto anche i ritmi latini. Ian Paice è stato il batterista che mi ha spinto a prendere in mano le bacchette, anche se posso affermare con certezza che Nicko McBrain è il mio idolo!

Affermate che il vostro intento è fondere le sonorità tipiche del rock delle origini, psichedelia, musica progressiva, blues-rock, il tutto arricchito da atmosfere classicheggianti e orchestrali, e onestamente, sembra un traguardo pienamente raggiunto. Ma come nasce “fisicamente” un brano degli Old Rock City Orchestra e come si riesce ad “inserire” in esso tali (non tutte, ovviamente) caratteristiche?

R.S.: In primis siamo davvero felici di aver centrato l’obiettivo! La creazione di un brano avviene in maniera molto spontanea. Nasce da un’emozione, da una sensazione provata in un determinato momento per un accadimento particolare. È così che scrivo un testo, oppure suono un riff o una sequenza armonica, senza ragionare troppo su ciò che sto facendo! È un momento ispirato e da lì parte tutto. Questa “fase embrionale” è seguita poi dall’arrangiamento vero e proprio, sul quale si ragiona tutti insieme in sala prove. È un momento di ricerca, una ricerca che avviene nei minimi dettagli, al fine di conferire al pezzo organicità ed efficacia. Il fatto che la nostra musica abbia in sé diversi stili e generi musicali fusi in un unico brano è probabilmente dovuto alla nostra predisposizione alla sperimentazione.

M.C.: Ognuno di noi contribuisce con il proprio background ad arricchire e completare la canzone senza schemi prefissati. Tutte le nostre diverse personalità musicali intervengono nella creazione di un brano, mantenendo però integre le proprie peculiarità.

Il 2012 è l’anno del vostro esordio discografico con “Once Upon A Time” (in verità un primo “assaggio” c’è stato nel 2010 con un promo album). Vi va di illustrare il percorso “da band” che vi ha condotto sin qui e il contenuto dell’album?

C.C.: Nel 2010, dopo un breve periodo di rodaggio, siamo entrati in studio di registrazione per mettere insieme un promo di cinque brani originali al fine di testare la “bontà” del nostro progetto. I riscontri fortunatamente non sono mancati, tanto che i brani sono stati persino trasmessi dalla radio statunitense Aural Moon come novità della scena progressive internazionale! Da lì è iniziata la ricerca di un’etichetta disposta a credere nella nostra musica e dopo qualche tempo siamo entrati in contatto con Vannuccio Zanella e la sua M. P. & Records. La sintonia artistica e umana è stata da subito evidente e così, sotto consiglio dello stesso Vannuccio, l’anno successivo abbiamo completato il lavoro registrando altri quattro brani per dar vita a un vero e proprio album, “Once Upon A Time”, pubblicato per la stessa M. P. & Records nel giugno del 2012.

R.S.: “C’era una volta” è l’incipit che dà il titolo al nostro disco d’esordio. È il classico inizio di ogni fiaba che si rispetti! La nostra parla di un’epoca “primitiva” dove sia l’individuo, sia la musica, in particolare il rock, vivono un momento di assoluta libertà creativa e d’espressione. Non si tratta di un semplice tributo musicale agli anni ’70, come molti hanno sostenuto, ma una riproposizione attuale dello spirito che animava quel periodo storico e artistico. È un po’ come la giovinezza, quando si è proiettati verso un futuro ancora tutto da scoprire. È la fase della sperimentazione, soggettiva e primordiale, dove si dipingono quadri visionari che spesso trascendono la realtà per approdare ad una dimensione altra. Lo stile vintage, la copertina psichedelica e le sonorità acide conferiscono all’album un’atmosfera nebulosa e indefinita, dove si alternano in maniera repentina percezioni e sensazioni tra loro differenti. Rabbia, desiderio, paura, speranza e nostalgia. Questa pluralità confusa di emozioni ha dato il “la” al “concept” sviluppato nel nostro secondo lavoro, “Back to Earth”.

Passano tre anni e siete pronti per il secondo album, il concept albumBack to Earth”. Quali sono le differenze più evidenti tra i due album?

M.C.: Sicuramente questo nuovo album è più maturo rispetto al primo, più meditato anche nella scelta degli arrangiamenti. Abbiamo selezionato con cura persino ogni singolo piatto della batteria!

C.C.: La maturità di “Back to Earth” rispetto a “Once Upon A Time” sta anche nella maggiore esperienza acquisita. Quella del disco d’esordio è stata la nostra prima avventura in studio di registrazione come Old Rock City Orchestra. Senza dubbio il grande entusiasmo con cui abbiamo realizzato questo primo lavoro ha fatto sì che a volte la spontaneità la facesse da padrona. Inoltre, benché i due dischi mantengano una certa continuità stilistica, “Back to Earth” dà più spazio a sonorità “hard rock”, conservando comunque i toni psichedelici già evidenti nel nostro primo lavoro. Probabilmente in questo secondo disco emerge anche un lato “dark” che contribuisce a rendere il sound della band più complesso.

R.S.:Back to Earth” è stato molto più curato, sia negli arrangiamenti sia nelle sonorità, proprio perché volevamo conferire al “concept” la giusta dimensione. Il sound è stato creato in funzione del messaggio, un’introspezione che alterna, a suon di rock, momenti frenetici ad altri più riflessivi. Anche in “Once Upon A Time” avevamo compiuto delle scelte ben precise, ma eravamo ancora in cerca di una nostra identità musicale che con il passare del tempo è andata sempre più delineandosi. Con “Back to Earth” avevamo anche il dovere di replicare la buona riuscita del primo disco e addirittura di far meglio! Considerando queste responsabilità le accortezze sono state maggiori. Abbiamo esaminato e valutato ogni minimo dettaglio senza lasciare nulla al caso, anche se poi in fase di registrazione le idee dell’ultimo momento non sono mancate e hanno avuto talvolta la meglio!

Rispetto alle prime “note edite” del 2010, oggi vi sentite più maturi musicalmente? Cos’è cambiato nella stesura dei brani, nell’approccio ad essi, nelle esibizioni live, in poche parole nel mondo Old Rock City Orchestra, con questo secondo album?

R.S.: Una certa istintività e la voglia di esprimerci sempre al meglio sono le caratteristiche che abbiamo conservato nel tempo. Come si diceva, con questo secondo album abbiamo acquisito una maturità consapevole, frutto anche di una maggiore esperienza live che nel tempo è cresciuta soprattutto qualitativamente. Il modo di comporre i brani è sempre lo stesso, si portano idee in sala prove e si lavora insieme, ma è aumentata la scrupolosità in fase di arrangiamento, siamo più meticolosi ed esigenti nei confronti di noi stessi.

G.C.: La serietà con la quale proviamo, discutiamo gli arrangiamenti delle canzoni, decidiamo la scaletta del concerto, organizziamo il lavoro da fare, è rimasta inalterata sin dagli esordi. Ovviamente ci siamo evoluti! Ad esempio in merito al look, proprio per completare l’immagine della band e per rendere ancor più concreto il nostro messaggio musicale.

Entrambi i vostri lavori presentano un gran numero di brani brevi che arrivano volentieri dritti al “punto” evitando inutili orpelli. C’è un motivo specifico per questa scelta “concisa”? Solitamente chi ascolta progressive rock si aspetta sempre brani lunghi ed articolati.

C.C.: Le nostre canzoni sono spesso delle visioni, dei flash, sensazioni del momento che non necessitano di una lunga durata. A volte un messaggio può essere espresso in pochi minuti e avere comunque un carattere “progressive”. “Back to Earth”, la title track del nostro secondo album, dura invece più di nove minuti perché questa è la sua natura! Sinceramente la nostra attenzione non ricade sul minutaggio delle canzoni e siamo consapevoli di non rispettare la tradizione prog in questo senso, ma se suonare progressive rock significa eseguire lunghi brani, preferibilmente in tempi dispari e con tastiere vintage, allora lo stesso prog perde la sua accezione “progressiva”, rinunciando così alla totale libertà di espressione e sperimentazione che contraddistingue questo genere.

Altra caratteristica comune dei due album è la presenza di testi in inglese. Pensate che le liriche così create siano più funzionali alla vostra musica?

R.S.: L’inglese è una lingua che ben si sposa con il rock, ha una certa semplicità e non necessità di troppi giri di parole. È molto più difficile esprimere un messaggio in italiano, arrivare dritti al punto con i termini giusti, con la giusta metrica, almeno per quanto ci riguarda! Non è un elogio della lingua inglese, quanto piuttosto il riconoscimento della complessità della lingua italiana applicata alla musica. Le liriche de Le Orme, per fare un esempio, sono delle vere e proprie poesie dove il suono di ogni parola è in perfetta simbiosi con la melodia, ma è un’operazione che in italiano non risulta così immediata. Possiamo dire che, considerando la musica che suoniamo, è più naturale per noi scrivere in inglese; questo ci permette anche di portare il nostro messaggio oltre i confini del nostro Paese.

Negli anni che separano le due pubblicazioni la vostra attività live è piuttosto densa e le vostre esibizioni si spingono anche all’Estero (Inghilterra, Francia, Belgio, Olanda, Bulgaria). Che idea vi siete fatti dell’attuale cultura musicale europea, del modo in cui il pubblico ne fruisce, dello spazio che si dedica alla musica dal vivo, e quali sono le differenze con il nostro Paese?

R.S.: In base alla nostra esperienza, la differenza più grande tra il nostro Paese e il resto dell’Europa risiede nella cultura dell’ascolto e ancor più nella curiosità. Essere disposti ad ascoltare ciò che non si conosce è l’atteggiamento che permette agli artisti che tentano di affacciarsi nel panorama musicale con un progetto originale di avere almeno la speranza di essere notati.

C.C.: Le difficoltà nel trovare i giusti spazi per esprimere la propria musica sono superiori in Italia rispetto all’Estero, dove la sensibilità nei riguardi degli artisti cosiddetti “emergenti” è sicuramente maggiore. Senza generalizzare, nel nostro Paese, un po’ per pigrizia e un po’ per ignoranza, ci si trova spesso di fronte a un rifiuto del “nuovo”, che è ormai prerogativa di qualche programma televisivo e delle Major che dominano il business (ma per fortuna non l’arte!) musicale.

G.C.: Durante l’esibizione il pubblico estero è molto più “caloroso” e non dipende dal numero degli spettatori. Forse è legato alla cultura musicale, ma ad ogni modo all’Estero c’è molta più considerazione per l’artista e decisamente molta più partecipazione da parte degli ascoltatori, cosa che tra l’altro è piuttosto gratificante!

Restando in tema, recentemente siete stati protagonisti del Prog to Rock di Torino. Vi va di raccontare l’esperienza? Tra i Festival e le esibizioni “in proprio”, in generale, dove vi sentite più a vostro agio?

C.C.: Per fortuna in Italia esistono ancora realtà come il Prog to Rock! È stata un’esperienza magnifica, lieti di aver preso parte a questa tre giorni di grande musica con nuove band di altissimo livello e gruppi storici strepitosi. Quando Adolfo Pacchioni, l’organizzatore del Festival, ci ha chiesto di partecipare siamo stati onoratissimi! Abbiamo avuto la fortuna di conoscere i mitici Biglietto Per L’Inferno, siamo saliti sul palco prima di loro ed è stata un’emozione unica! Aprire il concerto a degli artisti così importanti per il progressive rock italiano e per la musica in generale ha rappresentato per noi allo stesso tempo un traguardo raggiunto e un nuovo punto di partenza.

R.S.: Il pubblico di un Festival “di settore” è sempre musicalmente preparato e viene per ascoltare, per giudicare con attenzione, a differenza magari di coloro che per caso entrano in un locale dove c’è una band che suona. In situazioni come queste dobbiamo calarci nella parte degli intrattenitori, cercare di conquistare il pubblico brano dopo brano, anche attraverso il dialogo, e stabilire un contatto che inizialmente non è così naturale come può essere in occasione di un Festival, dove in un certo senso è più facile esprimere la nostra musica. Uscire vittoriosi da un concerto “ordinario” è sempre però una grande soddisfazione per chi suona la propria musica e non le cover che piacciono a tutti!

Avete incontrato delle difficoltà nel promuovere la vostra musica in questi primi anni di carriera?

C.C.: Le difficoltà sono state moltissime. Non è facile farsi conoscere oggi. Anche se internet potrebbe far pensare il contrario, in realtà il web è sommerso da una quantità di musica che non rende certo facile la vita di una band, un granello di sabbia nel deserto! Anche per quanto riguarda i live la situazione non è stata semplice e resta tuttora complicata. Le tribute band o le cover band vanno per la maggiore e la musica indipendente soffre la mancanza di spazi e opportunità e, non per ultimo, di compensi! Non seguiamo la moda del talent show, non suoniamo musica commerciale e talvolta ci ritroviamo a lavorare in sala prove senza avere un concerto in vista anche per lunghi periodi. La frustrazione a volte prende il sopravvento, ma siamo convinti che chi la dura la vince!

M.C.: Non è facile sopravvivere nel mondo musicale odierno, ma in questi anni abbiamo comunque ottenuto delle gran belle soddisfazioni che ci danno fiducia per il futuro!

Cosa dobbiamo attenderci dagli Old Rock City Orchestra per il prossimo futuro?

R.S.: Il nostro più grande desiderio è quello di continuare la nostra attività musicale, nonostante tutte le difficoltà che si presentano sul nostro cammino, e vorremmo farlo con un terzo disco e magari con un nuovo tour all’Estero.

Grazie davvero per la bella chiacchierata!

R.S.: Non possiamo far altro che ringraziarti per il lavoro che svolgi e per aver dato anche a noi l’opportunità di parlare degli Old Rock City Orchestra. Grazie!

(Settembre 2015)

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