Eterno come la pietra

«Maestà, se posso permettermi, umilmente le consiglio di terminare le ricerche. Io credo che, a questo punto, non sia mai esistito il gallo di fuoco».
«Di tutto, pur di non ammettere il vostro ennesimo fallimento».
«Non dica così, maestà. Sono decenni che tentiamo invano di scoprirne uno in vita da consegnare a lei, ma gli innumerevoli sforzi hanno portato ad un completo nulla di fatto» rispose nuovamente il maestro di scienze cercando, sempre a capo chino, di non far trasparire l’ansia dalle sue parole.
«Fandonie!» urlò il re. «Abbiamo una serie di testi dei nostri antenati che lo testimonia e una sfilza di inetti…».
«Ma nessuna prova tangibile» ribatté immediatamente con coraggio il maestro di scienze interrompendo le parole del suo sovrano, consapevole che, con questa azione scellerata, ne avrebbe pagato le conseguenze.
Re Camaldo VII lo fulminò con lo sguardo, poi disse glaciale: «Guardie, portatelo via».
Da quel momento in poi, del maestro di scienze non si ebbero più notizie.

[…] del sangue de lo Gallo di fuoco l’anima ne trae giovamento. Dal sorso del suo liquido vitale l’eterno si fa compimento […]: questo uno dei passaggi chiave su cui schiere di re e maestri di scienze, negli ultimi due secoli circa, hanno edificato un castello di vane speranze e illusorie promesse.
Riportata dal “De le cose vere e de le mistificazioni del mondo”, testo anonimo di antica tradizione e dall’ardua datazione, e ripresa e ampliata da diversi altri scritti nel corso dei secoli, la leggenda fu riportata in auge dalla casata che si avvicendò ai saggi Barghindi: i Camaldi. E re Camaldo VII era solo l’ultimo discendente di una stirpe di illusi. In particolare, lui, detto “Lo scapolo”, era certo che la scoperta sarebbe avvenuta durante il suo regno e quindi non sentiva l’urgenza di prendere moglie per generare eredi.
Nei testi che seguirono “De le cose vere e de le mistificazioni del mondo”, il gallo di fuoco, in alcuni testi menzionato come “gallo dalle piume di fuoco”, divenne un animale reale, talvolta abitante di un deserto lontano e ignoto, altre figlio dell’oscurità di caverne accessibili solo in determinati cicli stellari, e il suo sangue bevanda dell’immortalità. Di fatto, nessuno, nel corso di numerosi lustri, era riuscito ad ottenere anche solo un minimo dato concreto sulla sua esistenza.
A farne le spese, in questo gigantesco abbaglio, una lunga serie di maestri di scienze, obbligati a scovarne uno in vita da donare al sovrano di turno, e un numero indefinito di miseri ricercatori, periti nell’anonimato più totale.

«E con il potere conferitomi dagli avi e dagli dei, nomino te, Giordanis, nuovo maestro di scienze. A te affido la mia futura immortalità».
«Sua maestà, accetto umilmente l’incarico, conscio dei miei doveri nei suoi confronti, certo di rendere la sua persona eterna nella carne e nello spirito».
Nella sala del trono, stipata di uomini di alto rango e umili sudditi, re Camaldo VII, avviluppato da un candido mantello in broccato d’oro, conferiva il nuovo incarico all’allievo prediletto del precedente maestro.
Dopo aver accolto inginocchiato e a capo chino la nomina, Giordanis riguadagnò la posizione eretta e, dopo aver atteso un cenno dal re, si congedò diretto al suo studio. In pochi riuscirono a cogliere quel sorriso ambiguo che apparve sul suo volto, mentre la sua figura scompariva oltre un varco arcuato che si apriva alla sinistra del sovrano.

“Plinio il Vecchio, Gaio Giulio Solino, Marco Anneo Lucano, Isidoro da Siviglia e Beda il Venerabile. E ora anche questi riferimenti in Rabano Mauro, Alessandro Neckam e Pietro d’Abano. Tutti parlano di questo essere mostruoso e mortale, per alcuni un piccolo serpente, per altri un drago con testa di gallo, ali spinose e coda di serpente, che con lo sguardo pietrifica o incenerisce, e che uccide con il suo veleno in caso di morso. Un essere che nascerebbe da un uovo di forma sferica deposto da un gallo anziano e che sarebbe covato da un rospo o da un serpente. Il suo habitat un deserto da lui stesso creato per la sua capacità di seccare gli arbusti sia con il contatto che con lo sguardo”.
In piedi, davanti al tavolo ligneo bruno che a fatica sorreggeva altissime pile di volumi, con una mano che sfogliava freneticamente alcuni tomi aperti su uno dei bordi lunghi del banco e con l’altra che reggeva alcuni fogli colmi di appunti, Giordanis rifletteva sulle sue scoperte, frutto di anni di ricerche parallele a quelle ufficiali avviate con il suo maestro.
«E se il riferimento al gallo di fuoco dei nostri testi fosse semplicemente una corruzione di tali fonti?» domandò ad alta voce a sé stesso mentre il suo sguardo fissava uno degli antichi testi aperti sul tavolo che conteneva un’immagine piuttosto realistica dell’essere. La didascalia ne riportava il nome: Basilisco.

«Baradel, novità?».
«Sì, maestro».
Alcuni giorni dopo il suo insediamento, e dopo averlo nominato a sua volta, in via non ufficiale, suo vice, Giordanis incontrava l’amico in una delle sei sale studio, quella più lontana da occhi indiscreti.
«Dopo mesi di ricerche questo è tutto ciò che ho rinvenuto» disse Baradel con voce bassa, posizionando su uno dei tavoli due tomi.
«Illustrami tutto».
«Ecco, si tratta di una raccolta di notizie, alcune davvero strampalate, e un resoconto di viaggi esplorativi. Nel primo tomo, questo è il passaggio interessante: […] e in preda al terrore ritrovarono la via di casa ove raccontarono di strani avvistamenti, di creature alate e di compagni pietrificati. Vaneggiamenti che riportiamo su codesto volume per il sol diletto di cronaca […], seguono un paio di testimonianze molto frammentarie, senza un concreto filo logico, ma con alcuni dettagli che tornano anche nell’altro volume e che ti esporrò a breve» e fece una pausa per riprendere fiato.
«Il secondo testo, invece» riprese presto Baradel «dice questo: […] e quando infine giungemmo alle grotte del Salàì e trovammo per puro caso un accesso alle stesse, eccitati ci addentrammo nelle oscure caverne per uscirne celermente in preda al panico dopo aver scorto una mostruosa bestia alata venirci incontro e fratello Samel cadere a terra pietrificato. Il troppo terrore patito ci inibisce dal proferire ulteriori dettagli […]».
«Quindi mostruose creature alate che pietrificano…».
«…e le grotte del Salài che compaiano anche in una delle due testimonianze del primo testo».
Giordanis alzò gli occhi al cielo pensieroso, tamburellò con le dita della mano sinistra su una guancia e iniziò a camminare lungo la stanza, lentamente.
«Cosa pensi, Baradel? Potrebbero trattarsi di storie vere?» proferì dopo un lungo tempo.
«Sinceramente ci credo poco. Sì, le grotte del Salài esistono, distano quattro giorni di cammino dalla città reale e sono praticamente inaccessibili, ma a mostri alati che pietrificano faccio fatica a credere».
«Quindi niente basilischi» chiosò il maestro di scienze.
«Non ho detto questo ma, ripeto, ci credo poco».
«E quindi continuiamo a prenderci in giro con il gallo di fuoco procrastinando la mia morte che, prima o poi, dovrà avvenire per mano del re?».
Baradel non rispose mentre Giordanis gli voltò le spalle posando il suo sguardo su una delle alte scansie colme di libri che coprivano le pareti della stanza, senza un obiettivo specifico.
«E se provassimo?» chiese d’un tratto Baradel.
«Cosa?».
«A mandare qualche uomo alle grotte del Salài, giusto per levarci il dubbio».

«Dasilis, hai visto Baradel?».
«No, maestro. È un mese, o quasi, che non lo vedo».
Erano trascorsi oltre due mesi da quell’incontro e sulla spedizione alle grotte del Salài nessuna novità. Inoltre, da almeno due settimane, Giordanis non aveva notizie del suo vice.
E, intanto, il re iniziava la sua azione pressante sul maestro di scienze per avere nuove risposte sul gallo di fuoco.
Girò in lungo e in largo tutto l’edificio destinato agli studiosi del regno, le sale studio, le biblioteche, il refettorio, persino i bagni comuni. Di Baradel nemmeno l’ombra. Tornò, infine, verso la stanza del suo amico. Vi era già stato in più occasioni negli ultimi giorni, ma al suo bussare non aveva ricevuto risposta. Ritentò, poi decise di entrare. La porta era aperta.
A fatica adattò gli occhi al buio, poi udì un rumore, quasi un rantolio, provenire dallo stretto spazio tra il letto e la parete orientale.
«Baradel!».
Spalancata la finestra dal telaio ligneo con evidenti segni di muffa sui bordi, lame di luce colpirono in pieno volto Baradel. Emaciato, la pelle pallida, l’uomo era rannicchiato e tremava violentemente.
«Baradel! Cosa ti è successo?» esclamò nuovamente Giordanis chinandosi.
«No! No! Vi prego! Non a me!» urlò.
«Calmati amico mio, sono Giordanis» gli sussurrò calmo all’orecchio.
«Via! Via! Aiuto!» e con uno scatto secco della mano lo colpì in volto.
Impiegò oltre mezz’ora per tranquillizzarlo. Poi, dopo aver bevuto un lungo sorso d’acqua, negli occhi di Baradel sembrò riaccendersi una piccola scintilla di lucidità.
«Baradel, ora ci sono qui io, Giordanis. Sei a casa».
«S-sì, s-sì».
«Ti va di raccontarmi cos’è successo?».
«S-sì» rispose nuovamente muovendo avanti e indietro la testa.
«Prenditi tutto il tempo che ti occorre».
«L-li ho visti, li ho visti. E-esistono…».
«Chi hai visto?».
«I b-basilischi».

Dopo una prima missione esplorativa delle grotte del Salài, dalla quale nessuno era tornato, ve ne fu una seconda. Solo due uomini fecero ritorno, in stato confusionale. Raccontarono di mostri alati che vivevano nelle caverne, cui erano acceduti tramite un cunicolo nascosto nella vegetazione, e di alcuni compagni morti pietrificati dopo aver incrociato il loro sguardo. Baradel aveva dunque deciso di comandare personalmente una nuova spedizione. Raggiunte le caverne, rischiando la vita per accedervi, si erano imbattuti, dopo un impervio cammino sotterraneo, nei mostri: draghi con testa di gallo, ali spinose e coda di serpente. La paura li fece perdere la ragione e, divenuti visibili, furono attaccati. Solo lui e altri due uomini riuscirono a guadagnare l’uscita, mentre gli altri caddero pietrificati. Poi, dopo un’affannosa fuga, non sa come, riuscì a giungere in città. Questo il fulcro del resoconto, esposto con estrema fatica da Baradel.
Aveva da poco ultimato il suo racconto quando qualcuno bussò alla porta, accedendovi poi senza attendere risposta.
«Fa-Fa-Falasal? Sei davvero tu?» l’enorme stupore proruppe dalla gola di Baradel.
«Sì, amico mio! Eccomi qui, vivo e vegeto» e, avvicinatosi, l’abbracciò.
«T-ti credevo morto».
«E invece sono qui. Toccami!» rispose sorridente, mentre Giordanis assisteva silente.
Terminato il lungo abbraccio, Baradel spiegò al maestro di scienze che Falasal era il capo della prima missione esplorativa alle grotte di Salài della quale si pensava fossero stati tutti uccisi dai basilischi.
«Come hai fatto a sopravvivere?» chiese Giordanis.
«Mi sono nascosto e li ho studiati. Di notte, di tanto in tanto, uscivo per trovare dell’acqua e del cibo e poi rientravo».
«E cos’hai scoperto?».
«Ogni giorno un paio di esemplari esce all’aperto per andare a caccia, una sorta di sistema su turni giornalieri, mentre gli altri restano nelle caverne muovendosi il minimo indispensabile. Vivono quasi immobili, credo per risparmiare energie che poi spendono se disturbati, come quando sono arrivate le altre due squadre di uomini. Anche da piccoli sembra abbiano il potere di pietrificare. Ho trovato, inoltre, l’area in cui sono custodite le uova, anche se non son riuscito a capire chi le depone, e ho scoperto che, per esempio, diciassette giorni prima di schiudersi, queste cambiano colore, da bianche mutano in rosso».
«Quest’ultimo dettaglio è importante?» domandò incuriosito Giordanis.
«Certo. Ce ne sono almeno un paio che si schiuderanno a breve. Dobbiamo andare a prenderne uno per mettere fine al regno di quel folle».
A queste parole Giordanis si voltò di scatto verso Baradel. Il piano alle spalle dell’esplorazione delle grotte del Salài era noto solo ai due: verificare la presenza dei basilischi e, in caso positivo, trovare il modo di catturarne uno per donarlo al re, spacciandolo per un gallo di fuoco, ed eliminarlo. Ed ora Giordanis scopriva che almeno una terza persona ne era a conoscenza.
«Baradel, quanti altri oltre lui?».
«Solo lui, amico mio. Ma io mi fido ciecamente di lui come tu di me. Non temere, hai la mia parola sulla sua fedeltà».

«Sono lì» disse Falasal sottovoce.
Dopo le rivelazioni, Giordanis aveva impiegato poco a decidere di andare personalmente alle caverne e, organizzato un nuovo gruppo, ora si trovava a pochi passi dai mostri, tra rocce spigolose e un silenzio irreale.
«Non vedo nulla» rispose il maestro di scienze.
«Attenda un attimo e appariranno».
Attese tre infiniti minuti, poi si palesarono. Erano due basilischi, camminavano lentamente. Evidenti le teste di gallo, le ali spinose e le code di serpente.
«Creature meravigliose!» esclamò Giordanis.
«Ed estremamente pericolose» aggiunse Falasal.
Baradel, intanto, dopo aver notato le creature, si era raggomitolato dietro una roccia.
«Ora seguitemi senza fare rumore e restate chinati. Andiamo verso l’area delle uova» disse Falasal d’un tratto.
Poco più di dieci minuti di cammino e davanti a loro si aprì un vasto ambiente, caratterizzato da stalattiti e stalagmiti rosacee. In alcuni punti sul terreno si intravedevano delle sfere bianche e rosse.
«Ecco le uova».
Giordanis restò incantato da quei gusci che contenevano una vita sconosciuta e pericolosa.
«E lì c’è uno prossimo alla schiusa. Sono certo sia quello che stavo sorvegliando, quindi dovrebbero mancare sei giorni alla sua apertura. Dobbiamo prenderlo e tornare immediatamente in città».
«Come?» chiese dubbioso Giordanis.
«Di solito non c’è molto movimento qui giù. Provo ad arrivarci io» rispose Falasal e immediatamente iniziò la sua discesa.
Ogni passo dell’uomo era accolto con un sospiro di sollievo dai sei uomini che lo attendevano nascosti dietro una bassa parete rocciosa.
Pochi, interminabili minuti e Falasal fu sull’obiettivo, lo raccolse e poi, con la stessa perizia dell’andata, riguadagnò la posizione.
Nemmeno il tempo di congratularsi con lui e un urlo alieno raggelò il gruppo.
D’istinto tutti si voltarono per scoprirne la fonte e uno dei sette, d’un lampo, cadde pietrificato.
«Via!» urlò Giordanis.
«Seguitemi e copritevi gli occhi!» gridò Falasal.
Con il terrore addosso gli uomini corsero a perdifiato verso l’uscita, mentre il basilisco li seguiva a grandi balzi, emanando un suono agghiacciante che chiamò a raccolta altri tre esemplari.
Giordanis s’imbatté in uno di schiena e, per un attimo, dimenticò l’orrore e si fermò affascinato ad osservare quella insolita creatura, non accorgendosi dell’altra che era alle sue spalle.
«Giordanis! Attento!».
Baradel si gettò sull’amico evitando che il basilisco lo colpisse ma, mentre si rimetteva in piedi, un nuovo essere gli si parò incontro e bastò una frazione di secondo, un incrocio di sguardi e l’uomo crollò cristallizzato.
«No! Baradel!».
«Dobbiamo fuggire via!» e Falasal strattonò per un braccio il maestro di scienze guidandolo verso la salvezza.

«Miei cari sudditi, dopo decenni di attesa il sogno della dinastia dei Camaldi sta per avverarsi! Dopo ricerche meticolose abbiamo rintracciato un uovo di gallo di fuoco!» e il re indicò alla gremita sala del trono la sfera rossa posta dinanzi a lui, collocata su un cuscino di nivea seta.
La folla reagì con entusiasmo.
«E ora sta per schiudersi. Tra non molto sarò il vostro eterno sovrano».
Pochi minuti e le crepe iniziarono a formarsi sul guscio, accompagnate da un crescendo vociare umano che deflagrò quando un piccolo essere alato apparve dai resti frantumati della coriacea membrana.
Un suono stridulo fuoriuscì dal suo becco, mentre il re lo osservava incantato. Poi, lentamente, l’animale provò ad aprire gli occhi.
Il sovrano si chinò per scrutarlo meglio e, quando il basilisco ebbe acquistato la vista completa, i due sguardi entrarono in contatto.
E il posto dell’uomo fu sostituito da una statua di pietra.

(pubblicato nell’antologia “Non solo Draghi – Vol. 2” – Historica Edizioni, 2019)

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