Oltre la vetta

«E poi arrivava il Caldenno e…» e il suo capo si chinava lentamente sino a incrociare con lo sguardo le proprie ginocchia.
Aveva raccontato quella storia decine di volte. Figli, parenti, amici, in tanti conoscevano quella narrazione, le malinconiche parole di una sconfitta personale. Ed ogni volta nessuno osava dire “Già lo so, Seba”.
Per Sebastiano sembrava essere sempre la prima volta. Una sorta di rito purificatorio che lo redimeva da quel dolore, da quella cocente delusione.

Erano gli anni in cui Felice Gimondi ed Eddy Merckx “battagliavano” tra le strade italiane e francesi quando, in un piccolissimo borgo della provincia di Sondrio, Berbenno di Valtellina, il giovane Sebastiano Cenna, iniziava il suo approccio, dapprima timido, poi sempre più convinto, con la bicicletta.
Le prime agevoli sgambate con gli amici, lungo la strada che collegava il paese natale verso il capoluogo, ad Ovest, o verso il Lago di Como, ad Est, poi le salite della Valtellina che iniziarono a forgiare i muscoli delle sue gambe.
«Mamma, io vado».
«Va bene Seba, ma non fare troppo tardi. E stai attento» rispondeva la madre allungandogli una sportina che conteneva, quasi sempre, un panino con lo speck e un frutto e che, Sebastiano, avrebbe legato sapientemente, di lì a pochi minuti, sul tubo obliquo della sua bici, poco sopra la borraccia. Ed ogni mattina la scena si ripeteva, costante, identica, autentica.
Raggiunto il garage che si sviluppava sul lato destro dell’abitazione, il ragazzo dava il via ai preparativi pre-partenza, un rituale che prevedeva dapprima il controllo del cambio, dei pedali e della catena della sua Cinelli Speciale Corsa Leggerissimo del 1972, una bici da corsa di qualità che il padre aveva comprato per pochi soldi, e di seconda mano, da un amico di Cedrasco, per poi spostare l’attenzione sulla sezione “cibo/acqua”. Una volta riempita la borraccia, collocata in seguito nell’unico pezzo non autentico di quella bici, una modifica realizzata dal vecchio proprietario in quanto, il modello originale, era sprovvisto di porta borraccia, e sistemato accuratamente il pranzo, Seba era pronto per macinare i nuovi chilometri.
E intanto, giornalmente, le Alpi Orobie e le Alpi Retiche, che maestose circondavano la sua valle, come sinuose danzatrici si palesavano davanti ai suoi occhi, tentatrici. E Sebastiano vacillò a lungo, prima di cadere in tentazione.
Mille, millecinquecento, duemila metri. Le sue gambe iniziarono a spingere su quelle salite, forte, sempre più forte. La sua Cinelli Speciale Corsa Leggerissimo volava sull’asfalto, tra ripide ascese, ardui tornanti e rapide discese.
E il momento di mettere alla prova la sua bici e la sua tenacia arrivò. La gara amatoriale under 18 “Berbenno di Valtellina–Somaggia (e ritorno)”, poco più di 80 km. Era il 12 giugno 1977 e Sebastiano aveva da poco compiuto sedici anni.
«Seba, sei pronto?».
«Sì, papà».
«Vai a divertiti» disse sorridendo l’uomo.
«Noi ti aspetteremo al traguardo» aggiunse sua madre porgendogli il solito sacchetto con il panino e il frutto.
«Dai, mamma! Questa volta non mi servirà del cibo!» esclamò il ragazzo.
Ai nastri di partenza vi erano circa 160 ragazzi. Seba aveva la pettorina con il numero 99. L’emozione della prima gara si dissolse appena il giudice di gara diede il via. Il tracciato non era molto impegnativo e, per la prima metà, il gruppo restò compatto. Poi, sulla via del ritorno, poco dopo Verceia, in cinque tentarono la fuga. In questo ristretto gruppetto c’era anche Sebastiano. Fu vicino Talamona, a 13 km dal traguardo, che riuscì a staccare i quattro compagni di fuga, giungendo al traguardo in solitaria.

«Eccolo il nostro Gimondi!».
E uno scroscio di applausi lo investì nel Bar della Valle, l’unica attività che caratterizzava Via XXV Aprile a Berbenno e che distava meno di cento metri da casa sua.
Negli ultimi tempi, spinto da alcuni amici, Sebastiano aveva iniziato un nuovo rituale: uno scambio di battute post uscita in bici con i compagni, condito da un bicchiere d’acqua, “bello freddo”, offerto da Tony il barista.
«G-grazie» rispose un po’ impacciato, mentre il suo viso accresceva repentinamente la sua già caratteristica tonalità rubizza, ma felice, al tempo stesso, per l’accoglienza ricevuta.
«Ora ti vogliamo al Giro d’Italia!».
«Eh, magari!».

Alla vittoria in casa, seguirono nuove occasioni per mostrare le proprie abilità sulle due ruote. Tra Lombardia e Trentino-Alto Adige, Sebastiano partecipò ad oltre sessanta gare nei tre anni seguenti, portando a casa sette vittorie e numerosi piazzamenti, tra cui spiccava quella del Campionato Italiano della Montagna Tirolese.
Giunse il 1981 e, spingendo sempre più forte sui pedali, Sebastiano decise di investire i soldi guadagnati con i premi in una nuova bici. Era giunto il tempo di congedare l’amata Cinelli Speciale Corsa Leggerissimo.
La scelta cadde sulla Gios Aerodynamic, un modello introdotto in quello stesso anno caratterizzato da una forcella con testa aerodinamica, tubazioni Columbus “Air” e manettini del cambio posti al di sopra del tubo obliquo. Era stato amore a prima vista.
E intanto, quel ragazzo valtellinese che lasciava quasi sempre il segno nelle gare amatoriali, iniziava a farsi notare anche ad altri livelli.

«Oh, Gimondi! Allora? Com’è andata la trasferta di Trento?».
«Non male, terzo classificato».
«Grande il nostro Gimondi! Qui ci vuole un brindisi!».
E subito tutti gli amici si alzarono spostandosi verso il bancone per far proprio un bicchiere di buon vino locale.
Seguì il solito racconto sulle nuove gesta sportive.
«Seba, ma l’hai mai fatta la salita del Caldenno?» chiese d’un tratto uno degli habitué del locale.
«No, perché?».
«E allora non sei un vero ciclista!».
La Salita Berbenno di Valtellina–Caldenno era una rampa di 15 chilometri con un dislivello spaventoso di 2015 metri, dai 390 metri di Berbenno ai 2.405 metri dell’arrivo. Lungo il suo relativamente breve percorso, ritenuto tra i dieci più duri a livello mondiale, si raggiungevano punte di 40% di pendenza, con una media del 13,4%. E, una volta in cima, la discesa che seguiva era un vero e proprio “balzo nel vuoto”. Sebastiano la conosceva bene. In passato l’aveva affrontata solo in minima parte, conscio della difficoltà per un non-professionista, e non vi aveva mai focalizzato più di tanto l’attenzione.
Ma ora tutto stava cambiando e quella sfida era pronto ad accettarla.

«Pronto, casa Cenna?».
«Sì, con chi parlo?».
«Buongiorno signora, sono Giancarlo Ferretti, direttore sportivo della Bianchi-Piaggio. Sebastiano è in casa?».
«Sì, glielo chiamo immediatamente».
E il giorno di Seba giunse. La Bianchi-Piaggio, squadra di ciclismo su strada, che fino al 1979 ebbe come punta di diamante il vero Felice Gimondi, stava bussando alla sua porta.
Emozionato, ascoltò la voce asciutta del dirigente che, dopo essersi complimentato per le ultime sue gare che aveva osservato e apprezzato, gli offriva un periodo di prova nella propria squadra.
«Quindi, cosa ne pensi? Accetti?».
Ma dall’altro capo del telefono sembrava non esserci più nessuno.
«Sebastiano, sei ancora in linea?» ripeté un paio di volte l’uomo.
«S-sì, mi scusi. Accetto! Accetto!» urlò Sebastiano dopo aver ritrovato la lucidità.
Terminata la telefonata, e dopo aver aggiornato i genitori sull’incredibile offerta, corse in garage, prese la bici e si diresse immediatamente verso la Salita Berbenno di Valtellina–Caldenno.
Aggredì i primi chilometri con foga, mentre la voce di Ferretti andava in loop nella sua mente. La strada sembrava scomparire sotto le sue ruote e la cima si faceva sempre più vicina. Poi, d’improvviso, qualcosa s’inceppò. Le gambe divennero blocchi di granito, ogni pedalata uno sforzo insormontabile.
“Che diavolo mi succede?”.
Si fermò. Provò a distendere i muscoli, massaggiandoli, riposandosi poi sul ciglio della strada per oltre venti minuti.
Ripartì. Affrontò qualche altro chilometro e poi il blocco si palesò nuovamente quando non mancava poi molto alla vetta.
Questa volta i massaggi non servirono. Sconfortato, voltò la bici e tornò a valle.

Il periodo di prova con la Bianchi-Piaggio non fu semplice, tenere il passo dei professionisti si dimostrò subito arduo per le sue gambe ma Ferretti era fermamente convinto della sua scelta e continuava ad appoggiarlo ed incitarlo senza sosta.
Sebastiano scoprì col tempo che il freno più grande nelle sue prestazioni non erano i muscoli delle gambe ma il suo cervello. La salita del Caldenno era diventata un’ossessione. Era convinto che, con il raggiungimento della sua vetta, sarebbe giunta anche la consacrazione tra i professionisti. E allora, dopo ogni settimana di allenamento trascorso con la squadra, quando rientrava a casa il suo unico pensiero diventava quella salita.
Tentò, tentò numerose volte. Invano.
E intanto cominciava a crescere anche la delusione dovuta agli scarsi risultati con la squadra. Credeva di non essere pronto e le prime gare non andarono come sperato.
Ma poi arrivò quel giorno di ottobre del 1982. La morte improvvisa del padre giunse come un macigno sulla sua carriera e la troncò di netto.

«Ho provato tante volte ad affrontare quella salita, così tante che non ho più a mente il conto. Ma ogni volta, quasi in cima, le mie gambe e la mia mente venivano meno e mi impedivano di raggiungere la vetta».
Anche Vincenzo, suo figlio, aveva perso il conto delle volte in cui suo padre, osservando con lui le foto dei suoi anni da ciclista, aveva raccontato quella storia. Era la foto con la maglia della Bianchi-Piaggio a far scattare in automatico la narrazione che poi proseguiva con le difficoltà di quell’esperienza e terminava con la morte del padre.
In tutti quegli anni Sebastiano aveva imparato a convivere con la fine della sua carriera, l’amara esperienza della sconfitta, e, grazie soprattutto a suo figlio, era riuscito, pian piano, a innamorarsi nuovamente della bici.
E con lui che riprese a calcare l’asfalto attraverso pedalate non impegnative, dispensando anche suggerimenti a colui che, lentamente, stava assimilando la passione paterna. E Vincenzo, giorno dopo giorno, maturava quella forza di volontà che era stata di suo padre negli anni precedenti lo “scontro” con la Salita Berbenno di Valtellina–Caldenno, sino a deflagrare definitivamente all’età di sedici anni.

«Questa è per te».
Era il giorno del sedicesimo compleanno di Vincenzo e, dopo aver festeggiato in casa, Sebastiano aveva condotto il figlio presso la vecchia abitazione dei genitori.
Aperto il garage, l’immagine della vecchia Gios Aerodynamic, con quella forcella con testa aerodinamica, le tubazioni Columbus “Air” e i manettini del cambio posti al di sopra del tubo obliquo, era comparsa davanti agli occhi del ragazzo. Era la prima volta che la vedeva dal vivo. Suo padre l’aveva conservata amorevolmente per tutti quegli anni ed ora, la sua bici, era pronta per tornare in pista.
Vincenzo, emozionato, saltò subito in sella e, fatti pochi metri, urlò al padre: «Ci vediamo a casa!».

“Caldenno”.
Erano passati poco più di due anni dall’incontro con la Gios Aerodynamic e, da quel giorno, uomo e mezzo avevano approfondito la reciproca conoscenza sino a fondersi indissolubilmente.
In quel periodo, Vincenzo aveva anche dato il via alla sua carriera di ciclista amatoriale, partecipando a diverse gare e trionfando in due occasioni.
Quel giorno, stava pedalando senza meta nei dintorni di Berbenno di Valtellina, quando s’imbatté nel cartello stradale che indicava la vetta. Arrestò la sua bici e fissò intensamente quelle otto lettere.
“È il momento”.
Diede un lungo sorso alla borraccia, montò in sella e iniziò l’ascesa.
Spinse tanto, affrontando ogni dislivello calibrando le energie, senza soste.
“Ma ogni volta, quasi in cima, le mie gambe e la mia mente venivano meno e mi impedivano di raggiungere la vetta”.
Mancava ormai poco alla vetta e le parole del padre comparvero improvvisamente nella sua mente. Esitò per un attimo, sembrò quasi vacillare e perdere il controllo della bici. Poi puntò la vetta, si alzò sui pedali e, con le ultime forze, fu in alto in breve tempo.
«Papà, è per te» disse sorridendo con un filo di voce, spezzato dall’emozione.
Smontò in seguito dalla bici e si sdraiò sull’asfalto. Restò lì diversi minuti per riprendere fiato. Poi venne il momento di tornare a valle. Rimessosi in sella, osservò la discesa ripidissima che si apriva davanti a sé, senza riuscirne ad individuare la fine. Si voltò e tornò a casa.

«Papà, ce l’ho fatta! Ho raggiunto la cima del Caldenno!».
«E poi?» domandò Sebastiano celando qualsiasi emozione.
«E poi son tornato a casa ripercorrendo lo stesso percorso dell’andata» rispose mesto il ragazzo che sperava in tutt’altra reazione nella figura paterna.
L’uomo lo guardò fisso negli occhi, poi disse: «Non era la salita a bloccare le mie gambe e la mia mente, figlio mio. Era la discesa».

(pubblicato nell’antologia “Racconti sportivi – Vol. 3” – Historica Edizioni, 2020)

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