Intervista a Il Bacio della Medusa

Un caro benvenuto a Simone Cecchini (S.C.), Federico Caprai (F.C.), Diego Petrini (D.P.) ed Eva Morelli (E.M.) de Il Bacio della Medusa.

S.C.: Ciao Donato, un saluto a te e a tutti i lettori di OrizzontiProg!

F.C.: Ciao Donato!

D.P.: Un saluto a te e a tutti i lettori!

E.M.: Ciao a tutti!

Diamo il via alla nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Il Bacio della Medusa e cosa c’è prima de Il Bacio della Medusa nelle vostre vite?

F.C.: Io e Simone Cecchini negli anni Novanta avevamo suonato in alcune band, che naturalmente facevano cover, e di quel periodo ricordo con affetto che è stato bello sognare di diventare come i nostri idoli. Sono indimenticabili le emozioni provate nelle prime serate fuori dal paese e l’incosciente voglia di lasciare il segno. Come ho detto, si facevano cover, ma Simone ed io sentivamo già l’esigenza di scrivere pezzi nostri e così un po’ per questo ed un po’ perché gli altri membri del gruppo, essendo più grandi di noi, avevano altri porti sicuri su cui attraccare, abbiamo preso strade musicalmente diverse. Io, ad esempio, in quel periodo suonavo blues con degli amici e sporadicamente in gruppi di vario genere. Poi, all’Istituto d’Arte di Perugia, dove studiavo, conobbi Diego Petrini ed Eva Morelli, Diego era il batterista versatile che avevo sempre cercato e così pensai di presentargli Simone. Il resto è “Il Bacio”.

S.C.: In effetti, sia io che Federico siamo nati e cresciuti (musicalmente) assieme. Abitavamo a 500 m l’uno dall’altro (e anche oggi, di fatto, è così). Fin dalla prima adolescenza ci si ritrovava sotto il portico del mio palazzo a “scarabocchiare” canzoni. Forse è proprio quel giocare a fare le “Rock Star” che ci ha spinto poi a volerlo essere veramente. Ovvio, i miti che cercavamo di emulare erano quelli che ai tempi ci venivano “somministrati” dalla televisione e da VideoMusic. Credo che un evento in particolare abbia dato il “La” a tutto questo: la morte di Freddie Mercury. Io e Fede volevamo mettere su una band come i Queen. Adesso mi viene da ridere ma avremmo voluto essere proprio come loro. Passavamo pomeriggi interi a guardare il “Live at Wembley” e tutti i videoclips della band britannica. Poi, successivamente, siamo stati contaminati dall’avvento della musica grunge e dal britpop. Un qualcosa di questi due generi ci si è appiccicato addosso, anche se poi i nostri miti erano quelli degli anni ‘70. Ricordo che non si trovavano in vendita pantaloni a zampa e facevamo tagliare le braghe dei pantaloni a madri o nonne per farci ricucire dei triangoli di stoffa recuperati da vecchi jeans e ricreare l’abbigliamento dei nostri idoli. La cosa bella è stata che ogni volta che ci allontanavamo l’uno dall’altro, poi ci si rivedeva condividendo sempre nuove contaminazioni. Forse è stato questo tira e molla a non farci fossilizzare ma a farci crescere. Io ho iniziato a sentirmi più cantautore che rocker e a leggere molto piuttosto che ascoltare musica. Ho abbandonato la chitarra elettrica per concentrarmi sull’acustica. Mi sentivo un menestrello e perciò molto legato culturalmente alla musica italiana. Forse in quel momento ho capito che non potevo emulare quei giganti della musica visti in TV, non sarei mai stato come loro, e quindi dovevo elaborare un linguaggio vocale e creativo tutto mio. Questa cosa Federico l’ha notata, per questo credo che mi abbia voluto presentare a Diego. Me lo ricordo ancora Diego, seduto nella penombra di quella camera, piena di dischi e videocassette. Stava li su una poltrona, un po’ si atteggiava, ma mi stava simpatico ed aveva gli occhi di uno che sa ciò che vuole, in viso aveva la stessa luce mia e di Federico. Credo che fosse il 1999. Nei mesi successivi abbiamo fatto qualche prova tutti insieme ma poi c’era un qualcosa che non mi convinceva ancora. Solo nel settembre 2002 ci siamo riavvicinati ed è nato il BDM.

D.P.: Come hanno detto Fede e Simone, il Bacio nasce agli inizi del nuovo millennio per nostra volontà.

Prima di intraprendere la via di un gruppo strutturato come il BDM ho collaborato, come batterista, con alcune band locali con le quali mi dilettavo a suonare un po’ di rock, metal e blues; oltre a queste, ho avuto alcune esperienze d’orchestra come percussionista che mi hanno aiutato a sviluppare una grande passione per la cura degli arrangiamenti e per lo studio dei grandi compositori classici.

Con Federico ci siamo conosciuti, (come anche con Eva) all’Istituto d’Arte di Perugia ed abbiamo iniziato immediatamente a suonare e jammare insieme mentre lei, che avrebbe imbracciato il suo flauto pochi anni dopo, a quel tempo riprendeva con la telecamera le nostre interminabili session in sala prove.

Federico successivamente mi ha presentato Simone, descrivendolo subito come un bravo cantautore che poteva fare proprio al caso nostro: tutto, quindi, è partito come vero e proprio collettivo di idee tra musica, arte e poesia; ognuno di noi aveva – ed ha tuttora – dei gusti musicali differenti ma la stessa, potente esigenza di portare le nostre esperienze e la nostra personalità a fondersi in una nuova realtà condivisa.

Nel 2003 sono entrati poi in pianta stabile sia Eva al flauto traverso sia, dopo vari provini, Simone Brozzetti alla chitarra elettrica, i quali hanno completato il nucleo stabile della band. Il resto poi è storia!

E come si arriva alla scelta di un nome tipicamente settantiano per il progetto?

S.C.: Il nome nasce durante una delle nostre tante “riunioni” pomeridiane. Si passavano pomeriggi interi a bere, fumare ed ascoltare musica. Nella ormai famosa cameretta di Diego, c’era appesa una riproduzione dello “Scudo con testa di Medusa del Caravaggio”. Io già da due anni mi ero iscritto al corso di laurea in Conservazione dei beni culturali e anche Diego ed Eva iniziarono a frequentare i corsi di Storia dell’Arte presso la facoltà di Lettere e Filosofia a Perugia. Abbiamo sempre amato Michelangelo Merisi, la sua vita e la sua arte. Inizialmente mi venne in mente “Lo Sguardo della Medusa” poi pensai fosse stato più originale “Il Bacio della Medusa”, negli anni successivi abbiamo usato anche “Il Bacio” o “B.D.M.”. Quel nome aveva ed ha ancora un certo sex appeal.

Nati nel settembre del 2002, dopo un anno e mezzo siete già pronti per esordire con l’album “Il Bacio della Medusa”, un connubio di hard prog, folk rock e musica etnica. Mi narrate la genesi del vostro primo lavoro?

S.C.: Inizialmente avevamo l’esigenza di creare un repertorio live, che avesse tanta “botta” dal vivo. Volevamo fare rock, ma andare oltre gli schemi del rock che in quel periodo passavano in radio o su MTV. Volevamo osare e dare dignità letteraria al testo. L’ascolto del Prog Italiano e internazionale è stato un’ottima scuola. Non era facile reperire questa musica. Non c’erano le piattaforme multimediali di Youtube, iTunes o Spotify. Molti dischi di questo genere non erano nemmeno stati ristampati in CD (come è avvenuto poi). Dovevamo andarceli a cercare in LP nei mercatini delle pulci. Tutto questo insieme di cose è il primo disco per me. Ricerca, voglia di picchiare sul palco e cantare parole che avessero senso. Urlare un messaggio in cui credere. Libera espressione e un fare musica che non si fermasse alla musica stessa ma che fosse una forma di arte.

D.P.: Il primo album omonimo è un lavoro che vede miscelate varie tipologie di generi e stili musicali condensati in un unico grande contenitore dove sono rintracciabili rock, folk, blues, musica spagnola e sudamericana, swing, metal e cantautorato con testi impegnati. Seppur acerbo nella forma, è forse il disco più graffiante ed incisivo che abbiamo nella nostra produzione, rimasto nel cuore di tutti i nostri fan ed amici; allo stesso tempo è stato anche quello più sofferto, a causa di un periodo delle nostre vite costellato da pesantissimi eventi che hanno cambiato profondamente tutti noi e che inevitabilmente emerge anche nel concept dei brani.

E.M.: Il mio ingresso nel BDM ha coinciso temporalmente con la stesura dei brani del primo album in sala prove da parte della band, e per me è stato un po’ quello che viene comunemente definito il battesimo di fuoco: da neofita dello strumento quale ero, mi sono ritrovata a fare i conti con un muro sonoro davvero imponente e con delle composizioni molto articolate che, pian piano, mi hanno portato ad acquisire sempre maggior autonomia, sia tecnica che di pensiero musicale. Ricordo ancora con profonda dolcezza la prima volta in studio di registrazione: io e il mio flauto, un microfono enorme e “Lo scorticamento di Marsia”, una suite di quasi 15 minuti che mi sfidava con fare minaccioso. Il timore iniziale è stato spazzato via da tutto il mio coraggio, mi sono lasciata andare e ho trasformato la potenza dell’onda musicale da qualcosa che mi poteva sommergere in qualcosa che potevo cavalcare, e così molte parti di flauto derivano da tracce registrate alla prima e poi rese definitive perché piene di trasporto emotivo. Davvero una grande soddisfazione, difficile da spiegare, che poi mi ha fornito la giusta spinta per proseguire il mio percorso musicale nel corso degli anni a seguire.

Nel 2005 siete nuovamente pronti per entrare in studio di registrazione. Ne uscite, nel maggio del 2006, con un capolavoro: “Discesa agl’inferi d’un giovane amante”, uno degli album più riusciti ed emozionanti del nuovo millennio e considerato da molti cultori del genere tra i migliori album di Prog Italiano degli ultimi 40 anni. Come nasce l’idea del concept che, partendo dalla vicenda dantesca di Paolo e Francesca, ci guida in una “discesa agli inferi” che non è affatto di stampo religioso ma che risulta prettamente interiore, una sorta di esame di coscienza che porta inevitabilmente a conoscere se stessi? E quali sono state le fonti d’ispirazione sul fronte sonoro?

S.C.: Come ho già detto, il primo disco nasce dall’esigenza di avere un repertorio da poter suonare dal vivo. Per il secondo lavoro volevamo scrivere un concept, un disco che suonasse dall’inizio alla fine senza interruzioni. Volevamo parlare d’amore ma senza essere banali. Tutto nasce da “Confessione d’un amante”. Tutti i brani di “Discesa” si sviluppano intorno a questa canzone. Vero… qui si parla della vicenda dantesca, il pretesto è il V canto dell’Inferno. Tuttavia non è Francesca a parlare ma “un giovane amante”. Forse Paolo? Oppure un personaggio che si identifica in Paolo? Nel brano e nel disco non è menzionato alcun nome. L’amante viene lasciato nell’anonimato. Il viaggio agli inferi è un percorso iniziatico. L’Inferno non è inteso in senso religioso ma è un inferno interiore. La “discesa” è un viaggio che si deve compiere per raggiungere la conoscenza di se stessi. Un annaspare nelle viscere della terra, strisciando nelle spelonche buie fino a raggiungere la luce. Morire per poi rinascere. Additare una Bestia minacciosa su di noi per poi scoprire che questa è dentro di noi ed è parte di noi. Ovviamente, dietro a questa grande metafora, e oltre il simbolismo, si nasconde anche molto di autobiografico.

D.P.: Sul fronte sonoro, essendo “Discesa” un’opera rock, l’aspetto classico ha rivestito una grande importanza; nella stesura di gran parte dei brani tutto si è sviluppato da pianoforte, flauto, violino e voce. Ricordo le lunghissime sessioni per ottimizzare gli arrangiamenti e le varie armonizzazioni che hanno lentamente costituito l’ossatura del concept: per me la composizione di questo album è stata molto faticosa, essendomi diviso tra pianoforte, tastiere, organo, mellotron, vibrafono, batteria e percussioni… Compositori dell’opera e della classica in genere come Verdi, Beethoven, ma anche protagonisti contemporanei come Morricone, Frizzi e Rota fino ai Gentle Giant, i Black Sabbath o lo stesso De Andrè in “Non al denaro…”, sono stati per me delle grandi fonti di ispirazione per rendere fluidi ed organici forma e concetto.

Arrangiamenti eccellenti privi di sbavature, atmosfere teatrali da brivido, testi ispirati e poetici: lungi dall’essere una sviolinata, la mia è solo una sincera e fin troppo stringata analisi del vostro album (condivisa, come detto precedentemente, da più parti). Siete consapevoli di esser riusciti a realizzare qualcosa di unico? E, a quindici anni di distanza, cosa pensate dell’album?

S.C.: In verità non sono mai stato un grande ascoltatore delle mie opere. Nemmeno un fan di me stesso. Questo auto-contemplarsi allo specchio non mi è mai piaciuto. In ogni caso, a volte mi capita, soprattutto di notte, di riascoltarmi… è come sfogliare un vecchio album di foto, in cui ti rivedi più giovane e magari vestito con degli abiti che ora non indosseresti mai. Ovvio, i ricordi riaffiorano alla mente e quel viaggio agli “Inferi” è stato difficile da vivere ma anche da raccontare. Ricordo ancora l’alba di quel mattino di maggio del 2006. Dopo una notte in studio avevamo finalmente il master in mano. Le prime registrazioni erano state fatte a settembre ed eravamo sfiniti. In contemporanea io avevo anche scritto la tesi e mi ero laureato. A distanza di anni mi rendo conto che avrei voluto cantare qualche brano in modo differente, forse sono troppo severo con il “me stesso” di quegli anni. Certamente quel disco ha qualcosa di speciale ed il pubblico lo ha percepito. Quella “Discesa agli Inferi” noi l’abbiamo fatta per davvero… tutti assieme!!!

F.C.: In effetti è un lavoro importante nella nostra discografia e fu anche il disco che consacrò la nostra credibilità a livello mondiale. Ancora oggi ascoltandolo lo trovo emozionante e ricco di poesia, credo che sia un disco senza tempo.

D.P.: A mio avviso “Discesa” è stato un album molto riuscito che ci ha dato la possibilità di farci conoscere ed apprezzare da un vasto pubblico nazionale e internazionale, non legato esclusivamente al Rock Progressivo. È stata una vera soddisfazione ricevere da ogni parte del mondo degli apprezzamenti appassionati per ciò che avevamo realizzato, e questo vuol dire che siamo riusciti nel nostro intento, cioè a superare le barriere linguistiche e di genere musicale nel creare uno stile unico e inconfondibile. Ancora oggi, riascoltando “Discesa agl’inferi”, mi rendo conto che è uno di quei dischi evergreen che sta invecchiando molto bene.

E.M.:Discesa agl’inferi” è stato un lavoro allo stesso tempo ambizioso e faticoso, che ha visto lunghe session sia in sala prove che in studio di registrazione; il risultato è stato veramente molto buono e l’album ha ottenuto ottimi apprezzamenti sia dal pubblico che dalla critica con nostra grande soddisfazione. A quindici anni di distanza, “Discesa” non ha perso il suo smalto e ogni volta che lo ascoltiamo è ancora in grado di emozionarci… è un po’ come partire per lo stesso splendido viaggio: nonostante tu già conosca la strada che percorrerai, i paesaggi che ammirerai e la meta che raggiungerai, le sensazioni nel tuo cuore saranno sempre nuove.

In Discesa agl’inferi d’un giovane amante”, compaiono anche il violino e la viola di Daniele Rinchi (lascerà la band nel 2010). Quanto è stato importante il suo contributo nella riuscita dell’album e nella costruzione delle sue atmosfere?

D.P.: Il contributo di Daniele è stato importante proprio per il suo bagaglio classico: la sua formazione musicale l’ha portato a realizzare delle interessanti armonie tra viola e violino intrecciate al mio pianoforte che hanno reso il suond più completo e caratteristico.

Dopo un primo “assaggio” in occasione del Class Eu Rock’ Festival (Francia, 2005), tra il 2008 e il 2010 (ma anche successivamente), vi esibite su numerosi palchi nazionali ed internazionali (per esempio il prestigioso Crescendo Festival francese nel 2009). Che idea vi siete fatti, negli anni, dell’attuale cultura musicale europea, del modo in cui il pubblico ne fruisce e dello spazio che si dedica alla musica dal vivo? E quali sono le differenze con il nostro Paese?

D.P.: Quello che a me risulta evidente dalle esperienze fuori nazione è che, rispetto al nostro paese, la volontà di investimento nell’ambito musicale, e culturale in genere, è nettamente superiore.

In Italia sembra, invece, che con la cultura, a parte rarissime eccezioni, non si possa proprio mangiare.

Nello specifico del Crescendo Festival ricordo ancora con piacere l’accoglienza e l’ottima organizzazione di tutta la manifestazione e il grande ed appassionato coinvolgimento di un pubblico che, seppur diversificato nelle fasce di età e negli ascolti musicali, è stato particolarmente attento e partecipe al nostro show, addirittura esclamando a fine concerto, con nostro grande stupore, “Vive L’Italie!”.

E.M.: In Europa la cultura musicale attuale con la quale abbiamo avuto modo di confrontarci è, a mio parere, vivace e diversificata, pronta a tendere l’orecchio verso le novità e curiosa nei confronti di tutto ciò che è libera espressione e produzione inedita.

Il pubblico europeo è attento e appassionato, ma purtroppo risente sempre più spesso di una massificazione di ascolto globalizzata che lo allontana dall’elaborazione di un proprio gusto e da una ricerca personale.

Per questo bisognerebbe forse insistere sull’educazione musicale infantile e, più in generale, sulla formazione culturale delle persone.

In Italia la situazione è abbastanza simile, con la grossa differenza del non riuscire, ahimè, a identificare quella del musicista, e più in generale di ogni professionista dello spettacolo, come una condizione professionale al pari delle altre. Per la musica dal vivo il discorso è, invece, veramente troppo complesso… e ora la pandemia sembra aver dato al settore il colpo di grazia, ma la speranza in un cambiamento globale in positivo non ci abbandona mai.

Nel 2010 incidete il brano “Fire”, un tributo ad Arthur Brown. Come nasce quell’iniziativa? È da considerarsi solamente come “capriccio estemporaneo” della band o all’epoca era previsto un qualche seguito (o lo avrà in futuro)?

D.P.: “Fire” è stato un esperimento ben riuscito in cui abbiamo voluto omaggiare il grande ed eclettico Arthur Brown in stile BDM; il brano è andato poi ad arricchire come bonus la tracklist del nostro terzo lavoro in studio, “Deus Lo Vult”, album spesso e inutilmente criticato per la sua “breve durata”.

Il 2011 vi vede protagonisti del Prog Exhibition, probabilmente l’evento Prog italiano più importante di questo nuovo millennio. Vi va di raccontare l’esperienza? Tra i Festival e le esibizioni “in proprio”, in generale, dove vi sentite più a vostro agio?

D.P.: Il Prog Exhibition sin dalla sua prima edizione è stato un evento veramente fantastico per il suo palinsesto così variegato e di alta qualità, con ospiti sia nazionali che internazionali. È stato molto emozionante condividere l’esperienza con i grandi protagonisti del Rock Progressivo.

Mi ricordo momenti davvero divertenti sia in hotel che al Palatenda con Steve Hackett, Mel Collins, Martin Barre, Franz Di Cioccio, i Goblin e, in particolar modo, Richard Sinclair, con il quale ci siamo ritrovati poi a brindare e chiacchierare appassionatamente di musica dopo il concerto!

Anche il rapporto coi fan, al PE 2011 e in generale prima e dopo ogni nostro live, è sempre stato molto forte ed appassionato sin dall’inizio della nostra carriera, in un reciproco scambio di energia.

S.C.: Io penso che non capiti tutti i giorni di ritrovarsi a fare colazione con Steve Hackett e Richard Sinclair. Per quanto riguarda la nostra esibizione in quell’occasione testammo per la prima volta dal vivo alcuni brani di “Deus Lo Vult” e il pubblico ci accolse con grande entusiasmo. Ancora ricordo il clamore e gli applausi sulle note finali di “Indignatio”. Quel brano non lo abbiamo più tolto dal repertorio.

E.M.: Sicuramente quella dei festival è una dimensione che ci calza a pennello, e la recente esperienza a Veruno (2019), come già quella romana del PE nel 2011, ne è assoluta conferma!

I grandi eventi o rassegne condivise con altre ottime band ti proiettano in un contesto dove si ha modo di lavorare con professionisti del settore, ed allora tutto è più semplice perché si ha la possibilità di concentrarsi sul concerto, dedicandosi a pieno alla propria espressione artistica e al pubblico che ha fatto tanta strada per ascoltarti e applaudirti.

E il 2012 è l’anno di “Deus Lo Vult”, il vostro terzo album in studio, un concept album avente come tema la prima crociata e la storia di Simplicio, un signorotto del contado di Perugia. Quali sono i punti di contatto e le differenze più evidenti tra i tre album? E quanto è cambiato il vostro modo di fare musica in questi primi dieci anni di attività?

D.P.: Il filo conduttore dei tre album è sicuramente il nostro stile Art Rock, il marchio di fabbrica BDM. I suoni che utilizziamo, e più in generale la nostra musica, si evolvono a seconda del concetto che abbiamo l’esigenza di affrontare ed esprimere, creando nuovi spazi e nuovi scenari ad hoc; ciò ha determinato, quindi, il differente approccio per ogni album della Trilogia, dall’omonimo a “Deus Lo Vult”.

L’esigenza di comporre musica è sempre la stessa, ma il modo in cui mi approccio ad essa e alle composizioni è in progressivo perfezionamento grazie alla mia personale ricerca che non ho mai cessato di portare avanti; credo fermamente che la musica coincida con la vita stessa, e proprio per questo è mutevole, in continuo cambiamento.

S.C.: Dopo “Discesa”, molti si aspettavano un disco che ne volesse ripetere i fasti. Fin dall’inizio, però, ci siamo imposti di non voler a tutti i costi ripercorrere le orme del nostro secondo album. “Deus lo Vult” è un disco che, attraverso un linguaggio sonoro rock, vuole raccontare le goffe imprese di un signorotto del contado umbro. Simplicio è un tipo alla “Brancaleone alle Crociate”.

In “Invocazione alle Muse Verso Casa” il tenore dei testi è quasi epico. In “Urbano e Simplicio” emerge la componente buffonesca mentre “Deus Lo Vult”, “Indignatio” e  “La Beffa” sono pezzi molto taglienti e la conclusione del disco è uno dei momenti più “cattivi” della nostra discografia. Per quanto mi riguarda, “Deus Lo Vult” è stato un ulteriore passo in avanti nella mia crescita artistica come paroliere, anche se ammetto che le tematiche non erano semplici da affrontare. Quello della religione e delle crociate è un argomento molto spinoso.

Una domanda per Simone: da archeologo medievista e appassionato di storia classica e medievale, tra le tante, mi hanno affascinato sin da subito le tematiche affrontate nei testi che, molto spesso, attingono a tali periodi. Qual è, dunque, il tuo legame con tali argomenti e secondo quale processo le “riformuli” in liriche adatte alle musiche de Il Bacio della Medusa? E come nasce il personaggio Simplicio, protagonista di “Deus Lo Vult”?

S.C.: Come ho già accennato, i nostri studi universitari sono stati di carattere umanistico ed è stato inevitabile che tutto ciò condizionasse la nostra musica. Il Bacio della Medusa non si è mai fermato alla sola espressione musicale. Nei nostri testi c’è poesia e letteratura, nelle copertine c’è l’arte pittorica e nelle nostre esibizioni abbiamo, fin dagli esordi, ricercato di manifestare una certa teatralità. La contaminazione storica e letteraria emerge in brani come “Cantico del Poeta errante”, “Orientoccidente”, “Scorticamento di Marsia”, “Confessione d’un Amante”, “Melencolia” e “Deus lo Vult” nella sua interezza. Ho già accennato che Simplicio sia una sorta di Brancaleone alle crociate. Il tema della Crociata è un pretesto per raccontare una storia e svelarne la morale. Simplicio cerca un suo regno ma alla fine avrà solo sdegno (per parafrasare uno dei titoli dell’album). Ha lottato a lungo in nome di un ideale che poi gli si è rivoltato contro. Non a caso il protagonista, al ritorno dalla Crociata, trova Lucrezia a letto con il prete del paese. Abbiamo cercato di inquadrare la nostra storiella all’interno di un contesto storico ben definito, cercando di non fare errori e, al tempo stesso, di mantenere fluida la narrazione delle disavventure di Simplicio. Il nome del personaggio è stato scelto proprio per accentuarne la goffaggine e l’attitudine a cacciarsi nei guai.

Nel 2016 esce l’album “Live”, un live, appunto. Che sensazione si prova ad ascoltare un proprio concerto su disco? Siete soddisfatti del risultato?

D.P.: Live è il risultato di uno degli eventi organizzati nel 2015 con la mia Associazione, Il Circolo delle Menti, in collaborazione con il Comune di Perugia ed il Forum Regionale delle associazioni umbre, chiamato Art Rock Festival.

Il concerto, tenutosi al Teatro Brecht di Perugia, è stato diviso in due set: quello elettrico del BDM e la successiva performance acustica di Aldo Tagliapietra, grande artista col quale abbiamo poi concluso la serata suonando insieme un brano delle Orme, la splendida “Amico di Ieri”.

L’evento è stato un vero successo: il teatro era sold out e il live si è subito rivelato un ottimo lavoro sin dal primo ascolto in quanto riusciva a trasmettere tutte le nostre capacità e la nostra energia on stage.

E.M.: Sia “Live” del 2016 che “AnimAcusticA” del 2020 ci presentano al pubblico nella dimensione dal vivo che è quella che noi preferiamo.

Senza nulla togliere agli album in studio, in cui cerchiamo sempre di curare maniacalmente ogni sfumatura, quelli live ci mostrano nudi, senza filtri, per ciò che siamo realmente sul palco sia in veste elettrica che in quella acustica.

La sensazione è sicuramente positiva perché un preciso momento musicale resta cristallizzato nel tempo e condensa tante cose, compresa l’emozione di chi era lì, tra il pubblico, ad ascoltarti…

S.C.: Nei due album dal vivo emerge una certa componente alchemica che in studio non sarà mai possibile ricreare. Nel “Live” elettrico viene fuori tutta la nostra grinta di rocker, mentre in “AnimAcusticA” emerge l’essenza cantautoriale e più classica del BDM. Tornando al concerto del Brecht, per me è stato uno dei momenti indimenticabili della mia carriera di cantante. In quell’occasione ho avuto l’onore di duettare con Aldo Tagliapietra in “Amico di Ieri”. Una delle canzoni italiane che amo di più.

A proposito di live, com’è Il Bacio della Medusa sul palco? Io vi ho visti per la prima volta durante il Progressivamente Free Festival del 2016 a Roma e siete stati davvero travolgenti e coinvolgenti.

F.C.: Il live è fondamentale per noi, quello che ci dà il pubblico è qualcosa di indescrivibile, ma bisogna saperlo coinvolgere, riuscire a portarlo dentro il tuo mondo. La gente è lì, ti vede, ti chiama, canta e balla ed è normale per noi interagire con loro restituendogli tutta l’energia che ci danno.

D.P.: Ogni concerto per me rappresenta un vero e proprio rito. Sia la concentrazione che lo sforzo fisico, senza contare il trasporto emotivo, porta la band in una sorta di stato di trance; ricordo perfettamente ogni inizio e fine concerto, ma se dovessi raccontare quello che succede durante l’esibizione non saprei proprio che dire!

E.M.: Beh, in effetti siamo, a detta di molti, delle vere bestie da palco! Per quanto riguarda i miei fiati e la mia personalità artistica on stage, i nostri fan apprezzano molto la duplice figura che mi vede da un lato suadente e fiabesca e dall’altro energica e “serpeggiante”!

Il palco è per noi un territorio di caccia all’energia, dove il nostro lavoro di squadra genera un risultato vincente e molto apprezzato dal nostro pubblico!

S.C.: Nel 2005 invitai una mia amica ad un concerto del Bacio. La ragazza si dileguò subito dopo la fine del concerto e, tra una cosa e l’altra, non sono riuscito a salutarla. Nella notte mi inviò un sms in cui all’incirca scriveva così: “Il concerto è stato davvero fantastico, non me l’aspettavo. Mi è sembrato di assistere ad una sorta di rituale magico e tu eri lo Sciamano!”

E nel 2017 prende il via la collaborazione con Simone “Il Poca” Matteucci. Risponde Diego:

D.P.: Nel settembre 2017, quando stavamo ormai ultimando gli arrangiamenti di “Seme*”, contattai Simone Matteucci per avviare una collaborazione destinata ad arricchire, con le sue chitarre, la registrazione in studio dell’album. La sua partecipazione alla nostra musica si è poi protratta fino al nostro ultimo lavoro, “AnimAcusticA”.

A sei anni di distanza da “Deus Lo Vult”, finalmente tornate con un nuovo album, “Seme*”, da più parti definito “diverso” dalla vostra produzione “classica”: siamo infatti di fronte al disco più immediato e allo stesso tempo più vario di sempre del Bacio della Medusa, un concentrato di hard, folk, jazz e classic rock, cantautorato, persino musica country ed elettronica!. A cosa è dovuta questa svolta? E cos’è, dunque, cambiato nel vostro processo creativo?

D.P.: “Seme*” è  un album di “rock sociale” che descrive, secondo la nostra visione, la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo; per fare questo abbiamo esplorato forme musicali non ancora trattate nel nostro trascorso, come ad esempio l’elettronica in “Animatronica Platonica” e “Animaemotica”, o il jazz rock in “Uthopia… il non luogo” e in “5 e ¼… Fuori dalla finestra il tempo è dispari”, brano che vede l’alternanza tra libera improvvisazione nella prima parte e un forte lirismo suggestivo ed esasperato nella seconda.

Sicuramente l’innesto di repentine deviazioni di genere nei brani più classici deriva anche da una nostra maturità musicale che ha portato il nostro stile a diventare più fresco ed eclettico, allontanandoci così dal pericolo di una sterile ripetizione e da un ristagno espressivo.

Simone, anche le liriche, dunque, hanno preso un altro “corso”. Come mai?

S.C.: “Seme*” è un album molto significativo per me. Ho raccolto immagini ed esperienze durante un percorso iniziato dalla pubblicazione di “Deus Lo Vult” in poi. Sinceramente mi sono molto messo in discussione. Ho messo in discussione il mio modo di cantare, il mio modo di scrivere musica e testi. Ho voluto viaggiare e vivere. L’esperienza più significativa è stata quella di suonare in strada a Torino e trasformare la strada in un palco. Darmi ad un pubblico casuale, un pubblico in movimento, un fiume di persone che mi scorreva di fronte. Ho raccolto molti “appunti di viaggio” nel mio girovagare, ed ho fatto tesoro di ogni incontro. Sono cresciuto e sono diventato un artista del tutto nuovo. Questo mio cambiamento è evidente in “Seme”, “La Sonda”, “5 e ¼”. In quest’ultimo brano, nella seconda parte racconto proprio di quella mia esperienza “on the road” e metto a confronto quel respiro di libertà con quello che ognuno di noi deve affrontare nella quotidianità, con le frustrazioni della routine. Ho guardato fuori dalla finestra ed ho visto gente in corsa su binari, persone che si affannano ad afferrare sempre di più. Poi la finestra (come spesso accade) si è fatta specchio. Ho messo a confronto ciò che ero con quello che sono e li ho fatti dialogare. In “Seme*” i testi si distaccano dalla dimensione onirica per raccontare quello che gli occhi vedono. Anche in “Sentiero di Luce”, forse un brano che fa da ponte tra mondo fisico ed onirico, tuttavia, il protagonista riesce a distinguere le forme del male, gli inganni. Oramai è disilluso ma, consapevole delle battaglie che lo attendono, si arma per affrontarle con tutta la grinta che ha in corpo.

“Seme*”: mi incuriosisce quell’asterisco. Sta per?

S.C.: Ovviamente “Seme*” è un disco pervaso da una molteplicità di simboli. Lo si intuisce anche prendendo in mano il disco e guardando la copertina. Quell’asterisco rappresenta il seme del “Marxismo” più diplomaticamente cantato come “Seme di rivoluzione”. Non mi dilungherò perché ritengo che non sia questa la sede giusta per parlare di politica.

Sempre particolari e simbolici sono gli artwork che accompagnano i vostri lavori. Come nascono e quanto c’è di vostro in ognuno di essi? In particolare, quello che ha maggiormente attirato la mia attenzione è “Seme*”. Cos’è raffigurato in copertina?

F.C.: Le copertine dei primi tre album le ho disegnate io, dunque posso dire che in un certo senso hanno molto di mio.

Naturalmente presentai dei bozzetti alla band, mi proposero delle idee ma mi diedero anche carta bianca per l’esecuzione. Per quanto le tre copertine, se unite, formano un unico disegno, sono state concepite e realizzate una per volta in contemporanea alla realizzazione del disco, dunque presi più che altro ispirazione dalla musica.

E.M.: I nostri artwork, sia pittorici che fotografici, sono sempre stati legati al contenuto dell’album, al concetto in essi racchiuso, e questo vale anche per il logo che ho realizzato per il BDM.

La copertina di “Seme*” è un’elaborazione grafica che vede al centro della composizione, sospesa in un vuoto oscuro e profondo, l’immagine fotografica in macro di un seme di fagiolina del Trasimeno, un legume del nostro territorio dalle radici antichissime che, grazie ad una serie di fortunate coincidenze, è stato riscoperto e utilizzato nuovamente nelle colture, guadagnandosi una nuova opportunità di rigenerazione, di rinascita e rivoluzione.

Il valore intrinseco di quel piccolo embrione vegetale risiede nell’essenza multipla del concetto di cui si fa ambasciatore e va alla ricerca, come spiegava già Simone, in relazione all’asterisco in copertina, dell’origine, della sorgente delle diverse accezioni del termine.

S.C.: Che poi quel seme, quel fagiolo, allude anche alle gonadi maschili.

Dopo aver “scoperto” la dimensione acustica durante la promozione di “Seme*”, ad ottobre 2020 è uscito il nuovo album live “AnimAcusticA”. Vi va di presentarlo? Come mai questa scelta “soft”?

D.P.: Il nuovo album live “AnimAcusticA” è il prodotto di un percorso che già da tempo avevamo deciso di intraprendere.

Per questo specifico live è stato fatto un lavoro certosino che ha visto uno snellimento dell’arrangiamento elettrico in favore della resa acustica delle composizioni, articolate prevalentemente intorno al pianoforte. In fondo i nostri brani nascono in acustico proprio dal pianoforte e dalla chitarra: questo può essere quindi considerato un ritorno all’origine dell’Idea Primigenia.

S.C.: Prima ancora della pubblicazione di “Seme*” già avevamo in mente l’idea di un concerto nel quale dar sfoggio di quell’AnimAcusticA che poi è divenuta anche titolo del disco. Volevamo metterci a nudo e mostrare un lato oscuro ai molti che ci seguono da anni. Abbiamo perciò rivisitato alcune pietre miliari del nostro repertorio, liberandole dalla dura “scorza” del rock per restituirle alla loro dimensione di canzone. Il risultato è stato quello che potete ascoltare in questa nostra nuova pubblicazione.

Ornithos e Fufluns: vi va di spendere qualche parola sui vostri “progetti paralleli”?

S.C.: Con i Fufluns siamo in dirittura di arrivo e in fase di mixaggio del nuovo album. Questo si intitolerà “Refusés” e non ha nulla a che vedere con “Spaventapasseri”. Anche in questo lavoro dimenticate le atmosfere sognanti e fiabesche. Scordatevi i paesaggi bucolici del primo disco. “Refusés” dà voce a nove personaggi, narranti nove storie, intrise di crudezza ed estremo realismo. Le ambientazioni sono le stesse che nella realtà quotidiana, sono teatro di conflitti, soprusi e di ingiustizie. Per quanto riguarda i testi e i cantati, questo nuovo lavoro è a tutti gli effetti figlio di “Seme*”. Si tratta per me di un ulteriore passo in avanti nel mio percorso di paroliere e “cantante della parola”.

F.C.: Gli Ornithos per ora sono in pausa. In questo periodo, Diego, Eva ed io ci siamo concentrati sul Bacio della Medusa ma abbiamo ancora del materiale su cui lavorare e prima o poi ci rimetteremo le mani.

Per i Fufluns ho avuto l’onore di poter dipingere la copertina dell’album “Spaventapasseri”.

D.P.: Per quanto concerne il progetto Ornithos, dopo la produzione del concept “La Trasfigurazione” nel 2012 con AMS Records, e il successivo singolo “Invettiva al Potere”, ad oggi abbiamo in cantiere alcuni brani nuovi ma attualmente i lavori sono in stand by, pronti ad essere ripresi non appena i tempi e gli impegni personali ce lo consentiranno.

Personalmente, oltre al BDM e all’attività professionale rivolta alla didattica, mi sto dedicando primariamente al mio album solista, molto complesso e strutturato sia nella parte compositiva che nell’arrangiamento, e che mi vedrà molto presto impegnato in studio di registrazione.

Da più parti siete considerati tra gli artefici della rinascita del Progressive Rock in Italia nel nuovo millennio e una delle band di punta dell’intero panorama, anche in ambito internazionale (pensiero che condivido pienamente). Come ci si sente ad avere addosso il “peso” di una tale responsabilità?

D.P.: Nessuna responsabilità e nessun peso possono esistere in ambito di creazione artistica, altrimenti saremmo sempre vincolati o schiacciati dal peso del passato che, al contrario, ci ha mostrato semplicemente la via.

La nostra è un’eredità che abbiamo saputo conservare e rinnovare con un linguaggio personale in base alla nuova visione contemporanea del rock di stampo artistico, sia nella musica che nelle tematiche affrontate nei testi.

S.C.: Io credo che, indipendentemente dalle etichette che ci vengono incollate addosso, l’importante sia continuare a sentirci liberi di esprimerci senza condizionamenti. Essere sempre noi stessi. Il pubblico forse ci apprezza proprio per questa nostra onestà intellettuale ed artistica.

Vi va di fare un primo bilancio di questi primi vent’anni, o quasi, di attività?

D.P.: Siamo molto soddisfatti del lavoro svolto, soprattutto in quest’epoca il nostro perseverare in musica è stato un piccolo miracolo. Vediamo che cosa ci riserverà il futuro.

E.M.: Beh, secondo il mio punto di vista è forte la soddisfazione per i dischi che abbiamo prodotto, per la vicinanza costante del pubblico e per l’apprezzamento della critica; guardandomi indietro, ciò che mi regala molta gioia è il ricordo dei tanti concerti e Festival ai quali abbiamo preso parte, nei quali abbiamo avuto modo di donare al prossimo la parte più profonda e intima di noi ed entrare in contatto con tante realtà musicali spesso molto diverse dalla nostra. In fasi storiche complesse e appesantite come quella che stiamo vivendo dal punto di vista artistico e musicale, non possiamo che essere fieri del nostro lavoro e della nostra determinazione. La nostra, in fondo, è una vera e propria Resistenza.

S.C.: Concordo con Eva sull’utilizzo del termine “Resistenza”. Quando hai 20 anni, con tutta la vita davanti e con mille speranze e l’entusiasmo a mille, è più facile darsi in tutto e per tutto alla musica. Abbiamo passato tanto tempo in sala prove nella prima fase del nostro sodalizio artistico. Ora le sfide quotidiane di ciascuno, la routine, gli impegni e sempre nuove responsabilità, ci mettono veramente alla prova e non è semplice trovare ancora le giuste motivazioni per continuare a rincorrere sempre nuovi traguardi creativi. Anche tra il pubblico, non tutti si rendono conto che non siamo dei musicisti a tempo pieno, e che spesso ci si ritrova in sala prove dopo otto ore di lavoro. Tuttavia è bello scavare dentro se stessi e trovare ancora quell’oro che poi è la forza, l’entusiasmo che ci fa andare avanti. Finché ci sarà questa magia, questa alchimia, credo che lo faremo per lungo tempo.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

F.C.: Non mi soffermo sul discorso generico di internet perché ci staremmo delle ore…

Per quello che mi riguarda trovo che sia utile, specie per una band come la nostra che non viene passata in continuazione dalle radio principali, perché ci dà modo di arrivare a persone alle quali probabilmente non saremmo mai arrivati. Il problema è che, al giorno d’oggi, vanno avanti tanti personaggi senza contenuti, seguiti da gente senza contenuti, e questo è grave. Come dicevo prima, per noi è fondamentale la dimensione live, lo schermo di un computer o di uno smartphone, comunque, ci tiene a distanza mentre ad un concerto le persone sono lì, internet può farti conoscere e darti il modo di suonare ma sta a noi concretizzare dal vivo le aspettative della gente.

D.P.: Per noi è innegabile l’importanza che rivestono i social media nell’ambito della comunicazione ma allo stesso tempo, analizzando le nuove proposte legate ai talent show, sia nel web che in TV, si percepisce una tendenza a replicare e riciclare gli stessi personaggi e la stessa musica; il tutto è ormai diventato un prodotto “usa e getta”, il cui contenuto è spesso di basso profilo ma che riesce ad influenzare milioni di persone, ridotte così ad un ascolto passivo e quasi sempre privo di significato. Ecco gli effetti negativi della globalizzazione…

E.M.: Sicuramente i pro sono molti, come la rapida condivisione del proprio lavoro, la possibilità di abbattere (o quasi) le distanze fisiche e una fruizione semplificata e più diretta della musica anche dai meno esperti.

Tuttavia i contro sono altrettanto numerosi: in primis la pirateria selvaggia e l’allontanamento dell’ascoltatore medio dal supporto fisico, spesso ridotto a semplice file da scaricare e riprodurre su lettore mp3; anche il sovraffollamento di prodotti musicali che, a prescindere dalla qualità, si ritrovano online spesso su uno stesso piano appiattisce e stratifica la musica e il gusto degli ascoltatori di oggi.

S.C.: Io penso che il rischio più grande, in questa illusione virtuale di ricerca del consenso altrui, sia quello di perdere di vista il reale, il contatto con le persone, il sudore sotto le luci del palco e tutto quello che fa parte della musica, dalla scrittura alla vita di scena. Molti colleghi perdono più tempo sui social cercando appagamento per un “mi piace” in più, piuttosto che a scrivere canzoni. Questo rischia di annientarci e svuotarci lentamente della nostra arte.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?

E.M.: Per un gruppo emergente l’autoproduzione può essere un punto di partenza, ma non quello d’arrivo necessario alla promozione del proprio lavoro.

A parte tutte le fisiologiche difficoltà che un gruppo come il BDM può aver incontrato nella sua carriera nel produrre e promuovere un prodotto musicale proprio e originale, di stampo artistico e con testi carichi di significato in lingua italiana, non abbiamo mai sperimentato il crowdfounding e soprattutto ci siamo sempre opposti ad ogni forma di pay to play al quale spesso ricorrono molti musicisti pur di salire su un palco.

Gli ostacoli ci sono sempre stati, soprattutto nell’ambito concertistico: un gruppo che propone musica propria originale deve destreggiarsi in un panorama sovraffollato dai vecchi dinosauri, dalle cover band e da pseudo artisti usciti dai talent, che trovano spesso il favore di parecchi live club…

Autoproduzione, Black Widow Records, Glare Art & Communication, AMS, BTF: negli anni avete “tastato” differenti canali per la produzione della vostra musica. Con quale “veste” vi siete sentiti (e vi sentite tutt’ora) più a vostro agio?

D.P. e E.M.: Dopo alcune esperienze iniziali l’attuale rapporto discografico che ci lega all’etichetta AMS Records è sicuramente congeniale, non solo dal punto di vista professionale ma anche sotto l’aspetto umano.

Dal nostro punto di vista viviamo una totale indipendenza creativa che viene sempre incentivata senza alcun vincolo espressivo, e per un gruppo come il nostro che fa della libertà d’espressione il suo cavallo di battaglia questo è assolutamente fondamentale.

Senza contare che il loro prodotto discografico ha un’altissima qualità ed è perfettamente in grado di esaltare le nostre esigenze estetiche ed artistiche in generale.

E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

D.P.: La scena del Prog Rock in Italia oggi è molto frammentata, così come anche gli spazi dove presentarla dal vivo.

Ci sono molti buoni musicisti che si prodigano nel portare avanti questo genere, tuttavia non percepisco una ricerca specifica nel creare un linguaggio personale, sia nella musica che nelle liriche.

C’è troppa attenzione rivolta al virtuosismo tecnico fine a se stesso che porta spesso a dimenticare l’aspetto concettuale e immaginifico caratterizzante questo genere, che non può ridursi a sterile esercizio grammaticale; per quanto riguarda le collaborazioni in futuro saremo ben disposti ad aprirci alle proposte che si dimostreranno interessanti.

Esulando per un attimo dal mondo Il Bacio della Medusa e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

F.C.: Io dipingo, o comunque disegno, molto meno di anni fa, ma rimane una delle cose di cui non potrei fare a meno, mi piace il concetto di creare qualcosa da un foglio bianco, ideare, pensare e realizzare.

D.P.: Oltre alla mia passione per la musica, c’è quella per le arti figurative formata all’Istituto d’Arte di Perugia dove ho avuto bellissime esperienze di scultura in marmo e, più in generale, nelle discipline plastiche.

Dopo la Laurea in Storia dell’Arte ho approfondito, sempre insieme ad Eva, anche l’arte orafa, recuperando delle tecniche di lavorazione che ormai, con l’industrializzazione del processo produttivo, si stanno purtroppo completamente perdendo.

E.M.: Io, personalmente, alterno l’attività musicale a quella professionale nei Musei Civici di Perugia, quindi sono molto fortunata ad essere circondata ogni giorno da opere splendide in un contesto assai stimolante; inoltre, la mia passione per le arti grafiche mi porta sempre a sperimentare nel campo digitale nuove soluzioni e possibilità estetiche, spesso utilissime anche per la nostra comunicazione e produzione discografica.

S.C.: Sinceramente, un giorno, prima o poi, vorrei uscire di scena mettendo da parte la musica per dedicarmi esclusivamente alla scrittura.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

F.C.: Il mio podio personale è lunghissimo. Mi piacciono diversi generi musicali, diversi artisti e diversi album, scegliere non è facile. Di certo ci sono gruppi e artisti che mi hanno influenzato di più rispetto ad altri ma la lista sarebbe comunque lunghissima, provo ad essere conciso: Gong, Queen, Finardi, King Crimson, Area, Pink Floyd, Black Sabbath, Camel, Grateful Dead, Jefferson Airplane, PFM, Jethro Tull, Iron Maiden, Kiss, Police, Dire Straits, Genesis, Hawkwind, Led Zeppelin, Eric Clapton, Deep Purple, Black Widow, Gentle Giant, ELP, ecc., ma sarebbero molti di più…

D.P.: Nessun podio, vado molto a periodi… Sicuramente il mio ascolto e la mia continua ricerca musicale mi hanno condotto in territori molto diversi tra loro, un’esplorazione sonora che va avanti da più di trent’anni e che parte dalla musica classica fino al jazz passando per il metal, il funky, blues e musica elettronica, per essere telegrafici. Ultimamente ascolto molto i lavori di Erik Satie, Philip Glass, Vangelis, Mike Oldfield e Jean-Michel Jarre, Joe Bonamassa e Beth Hart, gli Opeth, ma non abbandono mai gli evergreen come Zappa, i King Crimson, Santana o i Magma; tra gli italiani, invece, resto da sempre affezionato al Banco e agli Area, a Le Orme, New Trolls e PFM, i cui album continuano a rimanere sempre dannatamente attuali.

S.C.: Sì, anche io vado a periodi e non me la sento di fare classifiche o stilare podi. Ultimamente sto ascoltando molto Neil Young, Roy Harper, Townes Van Zandt, Bert Jansch, Gene Clark e sto facendo degli approfondimenti sulla musica folk britannica ed americana. Per quanto riguarda la musica italiana sto ascoltando molto Claudio Rocchi.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

F.C.: Consiglierei il pittore Caravaggio, amo le sue opere frutto di un’arte eccellente e di una vita travagliata. Credo che incarni alla perfezione l’idea dell’artista, quella di qualcuno che soffre per la propria arte, opere come “Crocifissione di San Pietro” o” Morte della Vergine”, per dirne alcuni, trasudano di umanità, angoscia e paura, trasformando delle icone a semplici mortali. Tutti lo conosceranno, ma consiglio sempre una ripassata.

D.P.: Io consiglierei un libro molto interessante di Erich Fromm intitolato “Avere o essere?” il quale mi ha ispirato profondamente, incidendo positivamente anche sul mio stile di vita.

E.M.: C’è un artista concettuale tedesco, purtroppo quasi sconosciuto ai non addetti ai lavori, che ho la fortuna di vedere quasi ogni giorno al lavoro e che con il suo pensiero ha scavato nelle profondità dell’animo umano, ponendo l’attenzione al ruolo centrale che l’Arte e la Cultura dovrebbero rivestire nella società in favore della diversificazione ed esaltazione degli individui. Quell’uomo era Joseph Beuys, e credo che valga la pena conoscere la sua storia e le sue idee.

S.C.: Visto che non si è parlato di musica, io consiglierei l’ascolto di Tim Hardin, un cantautore statunitense che partecipò anche a Woodstock. Ultimamente ne sto approfondendo la discografia. Proprio una delle scorse notti, invece, ho scoperto un disco di un cantautore britannico il cui nome è Michael Chapman. Il titolo dell’album è “Fully Qualified Survivor”. Andatevelo ad ascoltare perché è davvero interessante.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

D.P.: Il virus non ha fatto altro che mettere in luce le problematiche del settore musicale che ci portiamo avanti, in Italia, da quasi cinquant’anni: l’enorme divario tra le varie figure professionali, che sono sempre più sbilanciate, ci dovrebbe portare a ragionare anche sul prossimo futuro della musica.

Spero soltanto che si possa raggiungere il prima possibile almeno l’equiparazione della nostra categoria di musicisti a tutte le altre, sia nelle tutele che nelle opportunità professionali. Incrociamo le dita…

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività?

E.M.: Di aneddoti ce ne sono tantissimi, la maggior parte dei quali non passerebbero la censura, ma uno che ricordo in particolare e che ancora mi fa molto ridere fu il bizzarro tentativo, da parte del proprietario dell’agriturismo che ci ospitava in occasione dell’EU Rock Festival ad Aix-en-Provence, di prepararci un piatto di pasta all’italiana.

Nonostante la mia disponibilità dichiarata nel mettere mano ai fornelli per preparare a tutti un ottimo manicaretto, il tipo francese era deciso a stupirci con effetti speciali: prese un enorme pentolone, lo riempì d’acqua, vi versò i pacchi di pasta, i pelati, una lattina enorme e gelatinosa di carne in scatola, mise tutto sul fuoco, chiuse il coperchio ed accese il fornello.

Io e Diego andammo a letto a digiuno, mentre quelli di noi che hanno avuto il coraggio di mangiare quella roba la notte hanno vissuto un’esperienza ai limiti del paranormale!

S.C.: Credo che in quell’occasione la fame chimica sia stata talmente tanta che avremmo mangiato anche un rinoceronte caramellato.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro de Il Bacio della Medusa che vi è possibile anticipare?

D.P.: In questa situazione pandemica tutto quello che possiamo fare è lavorare a distanza sulle nostre nuove idee, così da poter avere del materiale per il nuovo album che speriamo di registrare e produrre per l’occasione dei vent’anni del BDM, nel 2022.

Grazie mille ragazzi!           

F.C.: Grazie mille a te.

D.P.: Ciao e grazie per la chiacchierata! Un caro saluto a tutti quelli che ci leggeranno.

E.M.: Grazie a te, un saluto a tutti i lettori!

S.C.: Un saluto a te Donato e a tutti gli amici che ci stanno leggendo.

(Dicembre, 2020 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *