Intervista ai The Forty Days

Un caro benvenuto a Giancarlo Padula (G.P.), Dario Vignale (D.V.), Giorgio Morreale (G.M.) e Massimo Valloni (M.V.): The Forty Days.

G.P.: Ciao, è un piacere.

D.V.: Ciao e grazie!

G.M.: Grazie per l’invito!

M.V.: Ciao, grazie a te per dare voce a questo settore e per l’opportunità di raccontarci.

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto The Forty Days e cosa c’è prima dei The Forty Days nelle vite di Giancarlo, Dario, Giorgio e Massimo?

G.P.: Il progetto nasce quasi per caso. Io e Dario ci siamo conosciuti nel 2013, quando abbiamo formato una cover band dei Pink Floyd, gli Ship Floyd. Dopo un anno la band si è sciolta e ci siamo ritrovati a suonare per divertimento, provando a buttar giù delle idee per dei pezzi inediti. Sulla scia dell’anno passato a suonare cover, e dopo un periodo di assestamento, nascono i The Forty Days con la formazione attuale. Prima di questo progetto, musicalmente parlando, non c’è praticamente nulla. Quando ho iniziato l’università ho lasciato perdere ogni cosa per dedicarmi allo studio.

D.V.: Come detto da Giancarlo, il progetto The Forty Days è nato per caso nell’estate del 2014, riunendo due amici che avevano suonato con me in una tribute band dei Pink Floyd, Giancarlo appunto e il batterista Andrea Lucchese, con un altro mio caro amico, il bassista Dario Masiello, con cui volevo suonare qualcosa da tempo. Facevamo cover rock anni ‘60-‘70, Giancarlo cantava e basta, senza suonare le tastiere.
Il nome The Forty Days, tra l’altro, è venuto fuori perché tra la prima prova e la prima serata c’erano circa 40 giorni. Abbiamo suonato circa tre mesi, facendo parecchie serate. Poi alla partenza di Dario Masiello per l’Australia, abbiamo deciso di provare a scrivere qualcosa di nostro, convincendo Giancarlo a provare a suonare le tastiere oltre che cantare.
Per quanto riguarda la vita musicale prima dei The Forty Days, ho iniziato abbastanza tardi a suonare la chitarra, a circa 19 anni: a 21 anni ho iniziato a suonare con altre persone e, fino ai The Forty Days, quindi per circa sei anni, ho suonato sempre in cover band classic rock/blues e poi nella tribute dei Pink Floyd citata prima. Tutte situazioni dove è sempre prevalso il divertimento sulla reale voglia di fare qualcosa di “serio”.

G.M.: Non credo di essere il più adatto per rispondere alla prima parte di questa domanda, visto che la mia entrata nei Forty avviene successivamente alla formazione, comunque ci tengo a dire che già prima di far parte del gruppo li seguivo da fan.
Prima, invece, niente di stravagante: la mia famiglia, i miei amici e i miei due cani Black e Luna.

M.V.: Prima dei T.F.D. ci sono quasi vent’anni di musica in altre band con altri progetti musicali. Esperienze e ricordi che, in qualche modo, hanno formato in ampia misura quello che sono oggi nel modo di fare musica.

Dopo alcuni avvicendamenti interni, la band si stabilizza con l’arrivo di Giorgio e Massimo. Come siete entrati nel “giro” della band?

G.M.: Io sono amico stretto con Giancarlo dai tempi del liceo, per questo motivo ho iniziato a seguire la prima formazione dei The Forty Days come fan, perché mi piaceva la musica che facevano e mi interessava sentire cosa tiravano fuori dal cappello. Quando il primo batterista, Andrea Lucchese, fece sapere che nel giro di qualche mese avrebbe dovuto lasciare Pisa e l’Italia per motivi di lavoro, io colsi la palla al balzo e, visto che già avevo iniziato a prendere lezioni di batteria, cercai di intensificare il mio studio e di prepararmi per poter suonare con i Forty, e fortunatamente tutto andò a buon fine.

M.V.: Sette anni fa suonavo con una band che provava nelle stesse sale prova dove si trovavano i T.F.D. e uno dei gestori, nostro amico comune, sapendo che a loro era andato via il bassista e a me non dava più entusiasmo il progetto in cui suonavo, ci ha messo in contatto e dopo due settimane abbiamo iniziato a suonare assieme. Dicembre 2014!

Quando e come nasce l’esigenza di passare dall’esecuzione di cover alla realizzazione di brani propri?

G.P.: Dopo un po’ di anni passati solo sui libri, mi sono reso conto che mi mancava qualcosa e ho trovato sfogo nella musica. Ho iniziato come cantante, prendendo lezioni e, come mia unica esperienza, posso citare, appunto, gli Ship Floyd. Il mio approccio alle tastiere nasce per esigenza e divertimento con i The Forty Days. Quando abbiamo deciso di provare a fare dei pezzi inediti ero nella fase in cui ascoltavo cinque o sei album al giorno. Ero davvero pieno di idee, ma mi mancavano le capacità di fare musica. Piano piano, insieme al gruppo, abbiamo unito le idee di tutti, quelle che ci sembravano più valide, e abbiamo puntato su quelle.

D.V.: Quando ci siamo trovati senza bassista dovevamo dare una svolta in ogni caso. Giancarlo, a quel punto, si è lasciato convincere a provare a suonare le tastiere, e questo, dal mio punto di vista personale, ha sicuramente sbloccato una serie di idee. A quel punto è stato abbastanza naturale iniziare a provare delle cose che ci convincevano dal punto di vista musicale: d’altra parte, siamo sempre stati molto d’accordo e allineati come gusti musicali. Diverso è stato il discorso per quanto riguarda i testi, che fino ad ora ho sempre scritto io: lì, sinceramente, mi sono buttato, non avrei mai pensato di essere minimamente in grado.

G.M.: Sono entrato nel gruppo quando già facevano inediti, lascio rispondere gli altri.

M.V.: Per quel che mi riguarda, il poter proporre la propria musica è stato, dal principio, un filo conduttore tra i vari progetti a cui ho partecipato negli anni. Ho suonato anche cover, ma sempre con scarso entusiasmo e coinvolgimento.

Il 2017 è l’anno del vostro esordio discografico “The Colour of Change”, concept album che narra, in modo anche un po’ autobiografico, i pensieri, le insicurezze e i tormenti di un ragazzo alle porte dei 30 anni in questo momento storico. Vi va di narrare la sua genesi?

G.P.: Personalmente, ricordo benissimo le emozioni che provavo agli inizi del 2015, quando eravamo in tre ed era ancora un progetto molto prematuro. Durante quel periodo non ero contento di me stesso, la creatività che ho potuto sfogare all’interno dell’album mi ha aiutato molto a crescere. Questa malinconia la si può avvertire all’interno di tutto l’album, assieme alla voglia di ripartire lasciandosi alle spalle tutto il tempo perso. Lascio a Dario la parola per spiegare da dove nasce l’idea di fondo del concept, poiché è sua la mano con cui sono stati scritti i testi.

D.V.: L’album è nato un passo alla volta, dalle prime idee di fine 2014, prendendo forma mano a mano che continuavamo a suonare in sala prove e live. Dai primissimi tempi sono nate “Four years in a while”, “Restart”, “Looking for a Change” e “Uneasy dream”. Poi, una volta entrato anche Giorgio nella band, nel 2016 sono arrivate “The garden”, “Homeless” e, alla fine, “John’s Pool”. Le idee dei testi sono venute facilmente in realtà: mi sono basato un po’ sulla mia situazione e quello che mi circondava in quel periodo. “Looking for a Change”, “Homeless” e “Restart” parlano principalmente, e in modi diversi, della voglia di rivalsa quando la strada immaginata sembra persa. “The Garden” è un omaggio ai tanti amici e persone care che, per trovare la propria strada, si sono trasferiti altrove. “John’s Pool” e “Four Years” sono ispirate, invece, a situazioni che mi sono state raccontate da alcuni coetanei.

G.M.: Ogni pezzo di “The Colour of Change” cerca di esprimere questi aspetti che citi, raccontati tramite le liriche scelte da Dario e cantate da Giancarlo e accompagnato dalla nostra musica. I vari brani hanno comunque subito molteplici cambiamenti in sala prove, a volte anche sconvolgendo completamente l’intero pezzo, fino a quando siamo arrivati ad una base solida che ci ha fatto venire in mente l’idea della registrazione, la quale ha portato ad ulteriori lievi modifiche in fase di registrazione e mastering.

M.V.: Dal punto di vista della composizione e degli arrangiamenti, i T.F.D. si muovono bene: ognuno attinge dal proprio bagaglio musicale e lo mette a servizio della band con il proprio gusto. Tutti insieme poi, cerchiamo di tirar fuori la miglior alchimia.

Quali sono, dunque, gli ostacoli più evidenti e ardui da affrontare, al giorno d’oggi, per un ragazzo alle porte dei 30 anni (o che li ha raggiunti e superati da poco)? E la Musica è davvero la via di uscita da tutti i problemi?

G.P.: La musica aiuta a combattere il peso della quotidianità e le difficoltà di ogni giorno. Io penso che ogni persona, ognuno a modo suo, è alla ricerca di un modo per sfogare la propria creatività. Ci sono un sacco di attività che normalmente svolgiamo inconsciamente ma che vanno in questa direzione. La musica è una potente arma con cui affrontare il passare del tempo poiché è un ottimo modo per essere soddisfatti di se stessi, per divertirsi, e quando il gruppo è anche affiatato, diventa soprattutto un insieme di amici che condividono queste emozioni.

D.V.: Rispondo praticamente citando i testi dell’album. Il periodo in questione è quello in cui finisce la vita da studente e si entra nel mondo reale. E’ difficile trovare la propria strada, c’è un sacco di paura di aver fatto le scelte giuste, magari si è bloccati in un percorso che non sembra quello giusto e ci si sente un po’ persi e un po’ falliti. Se la vita professionale va bene, si possono comunque fare i conti con tutta una serie di cambiamenti che portano problemi mai visti prima, mettendo a dura prova gli affetti stabili. Senza contare che tante persone a cui vuoi bene, per scelta di vita o professionale, magari hanno fatto le valigie e si sono trasferite dall’altra parte del mondo.
La musica è sicuramente una via di uscita per noi che abbiamo il privilegio di apprezzarla e poterla suonare in qualche modo. La via di uscita è sicuramente ciò che ci fa stare bene.

G.M.: Penso che fra gli ostacoli che si trovano in quel periodo, alle porte dei 30 anni, e che io sto vivendo ora sulla mia pelle, ci sia quello di non saper bene orientarsi nel mondo del lavoro. Spesso ci viene da pensare che con una laurea, prima o poi, un lavoro salterà fuori, e magari anche un lavoro che ci piace. In realtà è molto più difficile di quel che sembra e la prima spinta deve sempre venire fuori da noi, perché quei fogli che ci danno durante lo studio non hanno poi tutto quel valore che si millanta. Da questo deriva anche un senso di insicurezza economica che, naturalmente, ci influenza nelle scelte e nel modo di vivere, rendendo il tutto più difficile e sempre più stretto.
Penso che tramite la musica ci possa essere una riflessione su queste tematiche, anche a livello personale, e questo può portarci a capire meglio cosa stiamo davvero facendo e come affrontare una situazione del genere senza perdersi di speranza, spesso può farci trovare anche dei nuovi spunti per affrontare la realtà che ci circonda.

M.V.: La musica può aiutare, sostenere e supportare lo stato d’animo… non può essere la via d’uscita da un problema reale… ma può fare da colonna sonora e da compagna vicina in qualsiasi momento della vita, con crei un immagine che resterà “ricordo”. Quando guarderai indietro e rivedrai un momento, risentirai la stessa musica di quel presente.

Escludendo la parte “lirica” dell’opera, quali sono le fonti d’ispirazione musicali che vi hanno “aiutato” nella realizzazione dell’album? Immagino, tra gli altri, i Pink Floyd…

G.P.: Non a caso, io e Dario, veniamo, come detto prima, da una cover band dei Pink Floyd. Il sentimento di che provavo durante i miei primi anni dell’università mi ha avvicinato al mondo del Progressive Rock. È un genere che ho trovato perfetto per approfondire i miei gusti musicali. A quel tempo non avevo mai pensato al concetto di “Album” e il mio approccio alla musica era sempre stato molto superficiale. Gli artisti che mi hanno lasciato qualcosa appartengono quasi tutti al mondo del Prog degli anni ’70, e tra questi posso citare, tra i tanti, PFM, Pink Floyd, Genesis, Supertramp e Steven Wilson. Questi artisti mi hanno davvero segnato e spesso devo riascoltare i loro album.

D.V.: I Pink Floyd sono sicuramente l’influenza principale. In particolare, a livello di mixaggio in studio, con il nostro amico/co-produttore/co-arrangiatore Edoardo Magoni, abbiamo preso principalmente come riferimento l’album “Animals”. Le influenze comunque sono state molteplici, sicuramente possiamo citare Steven Wilson/Porcupine Tree ma, in generale, tanti artisti che sono riusciti a dare alla musica di stampo Progressivo un’impronta melodica e comprensibile alla maggior parte delle persone. Ci piacciono comunque anche gruppi sullo stile funk/fusion tipo i Calibro 35 o gli Snarky Puppy: il brano “Uneasy Dream” è un po’ un omaggio allo stile dei Calibro 35, ad esempio, ovviamente per come siamo in grado di suonare noi!

G.M.: Personalmente non saprei, non ho forti riferimenti musicali a livello di gruppi che ascolto, è probabile che inconsciamente ci siano dei punti dove potrei riconoscere delle influenze. In ogni caso, durante la creazione dei vari brani ho sempre cercato di prendere la scelta che portasse maggior beneficio al pezzo nel suo complesso e raramente ho pensato ad eventuali fonti di ispirazione.

M.V.: Un mix di influenze, a mio avviso, che trova ispirazione nel sound degli anni Settanta, nella sperimentazione musicale degli anni Ottanta e nei successi di rock “melodico” dei primi anni Novanta. Questo è ciò che rivedo e risento in “The Colour of Change”.

Come si sono incrociate le strade con la Lizard Records, etichetta che ha pubblicato il vostro album? E che riscontro avete ottenuto da pubblico e critica?

G.P.: Lascio la parola a Dario in questo senso.

D.V.: Ho contattato Loris Furlan della Lizard Records dopo aver sentito dell’ottima esperienza che avevano avuto i nostri amici Eveline’s Dust. Ho mandato dei mixaggi abbastanza provvisori dell’album: inizialmente Loris non era convintissimo, ma poi ha cambiato idea e da lì è iniziato il nostro percorso insieme, per noi molto bello sia dal punto di vista artistico che umano.
Loris, con l’aiuto di Nunzio Cordella che si occupa dell’interfaccia social della Lizard, ci ha aiutato molto nel diffondere l’album, che ha avuto un buonissimo riscontro, anche considerando che eravamo completamente sconosciuti e al disco d’esordio.

G.M.: Ha detto tutto Dario per quanto riguarda la Lizard, lascio la parola a Massimo sul resto, tanto siamo allineati.

M.V.: Rispondo alla seconda domanda. Un discreto riscontro, soprattutto dalla critica di settore, pur con qualche giudizio che a suo modo è stato anche costruttivo, vista la “crescita” degli anni successivi. Passaggi in radio sia italiane che estere, interviste e recensioni che ci hanno voluto raccontare un po’ in stile “storytelling” pubblicate on line e sulle riviste specializzate. Se vogliamo, alcune anche inaspettate, visto che stiamo parlando del nostro primo album in assoluto.

Negli anni avete partecipato a diversi festival/contest, tornando a casa, in più di un’occasione, vincitori. Vi trovate, dunque, più a vostro agio in “competizione” o nelle occasioni in cui siete gli unici protagonisti sulla scena? E come sono i The Forty Days sul palco? Cosa c’è da aspettarsi da un vostro concerto?

G.P.: Parlando sinceramente: le competizioni tra gruppi non ci piacciono un granché. Purtroppo, oggi come oggi, non ci sono molti spot per chi vuole farsi conoscere. Così, i contest si sono rivelati un buon modo per farci spazio e iniziare a fare esperienza sul palco. Io preferisco quei concerti dove possiamo far sentire i nostri pezzi senza la fretta di abbandonare il palco e dover smontar tutto. Siamo una band che non si spende in troppe parole, preferiamo lasciare che il pubblico si immerga nel nostro sound e nei nostri pezzi, i quali spaziano molto tra la psichedelia, il funk e un rock malinconico che è un po’ quel che ci contraddistingue.

D.V.: Secondo me, ci siamo sempre adattati bene in entrambi i contesti. Forse non è tanto il tipo di serata, quando il tipo di situazione che fa la differenza. Sicuramente avere tante persone che ti seguono sotto il palco con interesse, fa molta differenza in positivo. Il contest in questo senso aiuta: tante band, tanto pubblico, le persone ti guardano comunque con interesse. Il concetto di “gara” nella musica, come diceva un po’ anche Giancarlo, non è un granché: diciamo che riusciamo a trovarci i lati positivi in ogni caso.
Sul palco, a dire la verità, un po’ per i pezzi che suoniamo, un po’ per la configurazione della band (avere il cantante dietro le tastiere non aiuta) e un po’ per la nostra attitudine, non ci muoviamo molto, ma cerchiamo di far parlare la musica per quanto possibile, suonando col massimo trasporto e utilizzando, se la situazione lo permette, proiezioni dietro di noi.

G.M.: Sì, nel primo periodo abbiamo partecipato davvero a tanti contest. È stato sicuramente un ottimo modo per suonare, fare conoscere la nostra musica e mettersi alla prova, penso infatti che ci abbia aiutato tanto quel periodo e ci abbia fatto maturare molto.
Inizialmente credo che ci siamo trovati meglio in queste situazione di “competizione” o contest, perché erano comunque occasioni dove potevamo confrontarci con tanti gruppi più o meno esperti, quindi potevamo imparare sempre tanto e, allo stesso tempo, consolidare la nostra fiducia. Tutto questo ci ha aiutato nel portare avanti anche la nostra performance su un palco dove eravamo più protagonisti. Ad ora, se dovessi esprimere un parere personale, penso che i Forty si trovino più a loro agio in un contesto di spettacolo dove si esibiscono con una o più band, non una serata contest, ma una serata condivisa con una o due band.
I The Forty Days sul palco sono un po’ misteriosi, ci piace cercare di creare un’atmosfera che si intreccia fra lo psichedelico e il funk, dove ci sono momenti di mistero, tensione e risoluzione. Quindi direi che ad un nostro concerto c’è da armarsi solo di curiosità e lasciarsi trasportare dalla musica.

M.V.: Seppur in grado di offrire live di qualità e capaci di riuscire bene in vari contesti, dalla piazza al teatro, dal pub al palco “importante”, credo che i T.F.D. siano piuttosto camaleontici e sappiano tirare fuori il meglio da qualsiasi occasione, anche messi in “competizione” o sotto pressione. Una peculiarità, a mio avviso, è quella di riuscire a riproporre dal vivo una versione molto fedele dei brani registrati e arrangiati in studio.

Restando in tema, grazie al primo premio vinto nel concorso AVIS Music Contest 2018 di Livorno, il 21 giugno 2019 avete pubblicato il singolo “Under the trees”. Mi parlate del brano?

G.P.: Lascio parlare Dario in questo caso.

D.V.: Il brano è un’anticipazione del prossimo album. Sostanzialmente parla della spensieratezza in giovanissima età, con un pizzico di malinconia già latente, dovuta dalla precoce comprensione che la vita non sarà sempre “giocare in cortile sotto gli alberi”. Dal punto di vista ritmico, è un terzinato, tempo su cui ci troviamo particolarmente a nostro agio, su cui abbiamo provato a combinare melodia e parti più rock, iniziando a cercare una maggiore interazione chitarra/tastiera rispetto al passato.

G.M.: Non ho altro da aggiungere.

M.V.: Solo per ribadire che è il primo brano composto per il secondo album ed è, a mio parere, immediatamente riconoscibile come “precursore” di un filone nuovo per la musica dei T.F.D., soprattutto su sound e arrangiamenti più che sulla “scrittura” in generale.

E non è tutto. Nel 2020 siete stati selezionati dall'(Intervallo…Prog)@Veruno 2020 Contest per il 2Days Prog + 1 Festival. Come si è svolta la “battaglia”?

G.P.: È stata una grandissima soddisfazione. In pieno lockdown, quella notizia è stata davvero un fulmine a ciel sereno. Riuscire a suonare ad un festival del genere grazie all’apprezzamento di chi ci ascolta è la dimostrazione di come, quando si dà voce ad una passione vera e genuina, il messaggio viene trasmesso senza ostacoli.

D.V.: Sono d’accordo con Giancarlo. Dobbiamo ringraziare di cuore tutte le persone che ci hanno votato, specie quelle che lo hanno fatto le ultime ore e che sono state decisive. Per noi è una grandissima occasione di suonare in un luogo “sacro” del Prog in Italia.

G.M.: La battaglia è stata molto avvincente ma alla fine, anche in questa occasione, i nostri fans ci hanno sorpreso e, grazie al loro sostegno, siamo riusciti a piazzarci al primo posto e a guadagnarci una occasione molto interessante.

M.V.: “Una sfida all’ultima nota”!

È, dunque, in arrivo il nuovo album. Vi va di anticipare qualcosa? C’è qualche legame, una sorta di continuità nelle tematiche e/o nei suoni, con “The Colour of Change” o è un lavoro, in qualche modo, “nuovo”?

G.P.: Abbiamo mantenuto quel velo malinconico che copriva tutto “The Colour of Change”. Personalmente mi sono spostato un po’ verso strumenti più classici, come pianoforte, Hammond e Rhodes.

D.V.: Il lavoro è assolutamente nuovo ed è un concept album intitolato “Beyond The Air”. Parlerà di un viaggio di un uomo attraverso l’indifferenza umana: dalla spensieratezza della giovinezza, capirà che ognuno ha interesse di curarsi solo di se stesso e poco altro, concetto che lo farà impazzire. Alla fine capire che è necessario solo adeguarsi, curando, a propria volta, ciò che è più caro.
Anche dal punto di vista del sound sarà sicuramente un lavoro diverso da “The Colour of Change”: più diretto, sicuramente più “nostro”, come è normale che sia un secondo album.
Personalmente, sto cercando di non rimanere troppo in orbita “Gilmourish” come sul primo disco, ma di spostarmi su un suono più moderno.

G.M.: Come detto da Dario, il nuovo album sarà sempre un concept album, con tematiche che si legano a quella dell’indifferenza generale delle persone.
Non c’è una vera e propria continuità con il primo album, credo che anche a livello musicale abbiamo cercato di fare un passo avanti e metterci alla prova cercando di creare qualcosa di diverso. Il lavoro è, tuttavia, ancora in fase di rifinitura e, conoscendoci, è possibile che ancora possa subire qualche cambiamento.

M.V.: È un lavoro che si esprime attraverso un sound più attuale, con arrangiamenti ricercati ma meno sofisticati e selettivi. Brani che spaziano tra loro nell’attingere da varie fonti d’ispirazione.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

G.P.: Giusto poco tempo fa ho ascoltato un’intervista fatta ad un grandissimo artista, che seguo ormai da circa dieci anni, Steven Wilson. Con il suo ultimo album ha cambiato rotta e ha spiegato come ad influenzarlo è stata proprio la riflessione sul mondo di oggi. Personalmente penso che la tecnologia e i social siano una grande arma a disposizione di chi fa musica. Allo stesso tempo, però, è cambiato radicalmente il modo con cui gli artisti puntano a farsi ascoltare. Dipende ovviamente anche da chi ascolta la musica. Il punto è che c’è sempre meno spazio per suonare live, dove, invece, band come la nostra brillano di più. Si tratta di entrare nell’ottica che non si è più seguiti nei luoghi dove si fa musica, ma i social sono diventati il palco più importante dove farsi vedere attivi, sempre sul pezzo, dove un artista deve saper “affamare” il proprio pubblico.

D.V.: Sicuramente è possibile arrivare più facilmente alle persone, sfruttando i vari canali e le comunità presenti sui social. Tutta questa facilità rappresenta comunque un boomerang, dato che il bombardamento di informazioni presenti porta le persone a fruire sì di tanti contenuti, ma spesso in maniera più superficiale.

G.M.: Penso che possa essere uno strumento molto interessante per chi ne fa buon uso ed impara ad usarlo, noi non siamo uno di quei casi al momento. Non per scelta presa, ma al momento, come gruppo nel suo complesso, non siamo molto attivi sui social, nemmeno a livello personale (io, per dire, non uso più alcun social network, se non WhatsApp). Va detto che Dario ci prova e ci mette dell’impegno nel cercare di promuovere la nostra musica anche su questi strumenti e sicuramente ne abbiamo visto il frutto, perché nonostante la nostra esposizione come gruppo sui social non sia granché, ci ha comunque permesso di trovare occasioni di vario tipo, interessanti ed utili, come appunto questa intervista che ci hai concesso.
Credo che questa condizione porti soprattutto dei vantaggi potenziali, appunto, cioè per chi riesce a farne buon uso le possibilità e le opportunità si amplificano soltanto, naturalmente ci deve essere dietro un bel lavoro e un costante aggiornamento.

M.V.: Dici bene: pro e contro! Da una parte maggior fruibilità della musica, quindi più occasioni e più visibilità… dall’altra, una utenza più asettica, distaccata e forse meno appassionata. Quando avevo 15 anni, dovevo aspettare l’uscita di un album per ascoltare quel brano o quel gruppo specifico. Spendevo dei soldi per avere fisicamente (CD o musicassette) il lavoro di un artista… e quel disco veniva “tritato” per quanto ascoltato… conoscevo ogni brano a memoria! Oggi si può ascoltare un singolo su Spotify o YouTube e conoscere “solo quello” di un’artista senza sentire l’intero album e senza fare tesoro di un’intera opera; questo non è un granché sinonimo di “progresso”!

Richiamando, invece, le “insicurezze e i tormenti della vita” analizzati nell’album e proiettandoli in ambito musicale, quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?

G.P.: Lascio la parola agli altri, per evitare di ripeterci troppo magari.

D.V.: Il principale problema è la mancanza di spazi per suonare live. C’è poco da fare, la miglior promozione possibile è sempre il concerto: già prima della pandemia la situazione era precipitata, figuriamoci ora.
Purtroppo non è neanche troppo vero che la gente ha perso completamente l’interesse per la musica inedita emergente: ci è capitato di suonare in posti non prettamente dedicati alla causa, facendo scattare sempre un discreto interesse nelle persone presenti. Purtroppo l’impossibilità di suonare con continuità obbliga a ricorrere ai mezzi da te citati, che aiutano tantissimo ma dovrebbero essere delle attività complementari e non primarie.

G.M.: La prima difficoltà credo sia quella economica. Alla fine, la creazione di un album ha alle spalle un po’ di storia che a volte non viene tenuta in conto. Noi, per esempio, è ormai da qualche anno che ci troviamo ogni settimana in sala prove per provare e portare avanti il nostro lavoro, questo naturalmente ha un costo in termini di tempo, disponibilità di tutti ed economiche. Inoltre la registrazione di un album non è banale, si tratta di capire di cosa o chi si ha bisogno per la realizzazione, intrecciare le disponibilità di più persone e poi mettersi al lavoro, un lavoro che anche questo ha un suo prezzo.
Un’altra difficoltà è sicuramente quella della promozione vera e propria. Anche qui ci sono varie possibilità, noi, per ora, abbiamo cercato di auto-promuoverci con l’aiuto dell’etichetta, cercando di far conoscere sempre a più persone la nostra musica, non è un’impresa facile ma al momento è un’opzione che sta funzionando per noi.

M.V.: Sempre meno occasioni per fare live, sempre meno spazi a disposizione e minor numero di utenza disponibile. Ci si ritrova, come già detto, a creare in sala e in studio più che a suonare difronte ad un pubblico. E con i nuovi meccanismi mediatici e distributivi, le piccole realtà, le etichette underground, indipendenti, non hanno alcuna marginalità da poter reinvestire. Guadagnano solo le piattaforme e solo su grandi numeri. Ecco perché chi fa musica ai nostri livelli deve obbligatoriamente ricorrere all’autoproduzione.

E qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà?

G.P.: Devo dire che sono rimasto piacevolmente colpito della realtà che abbiamo trovato al momento dell’uscita di “The Colour of Change”. Il web è pieno di appassionati che, attraverso i propri click e i propri messaggi, sono sempre pronti a sostenere il Prog. Ci sono diverse persone che combattono per tenere in vita questo movimento attraverso la promozione delle nuove band, e questo gli fa onore, e, allo stesso tempo, permette a coloro che vogliono dire qualcosa di poterlo fare. Abbiamo avuto la fortuna di far parte di un “movimento” di rinascita del Prog toscano (così lo hanno chiamato) assieme ad altre band come gli Eveline’s Dust e i Basta!, con cui abbiamo avuto il piacere di condividere una serata. Penso però che sia un momento difficile per il rock.

D.V.: Grazie alle comunità Prog sui social network, e nel nostro caso grazie alla Lizard Records, abbiamo avuto modo di conoscere molti validissimi gruppi della scena Progressiva Italiana attuale. Siamo ovviamente amici delle band toscane (alcune già citate), con cui abbiamo avuto la fortuna di condividere il palco a volte: Eveline’s Dust, Aliante, Egoband, Basta!, ecc. In generale quella italiana è una scena davvero piena di band validissime, e siamo contenti in qualche modo di farne parte.

G.M.: Non sono molto aggiornato al riguardo, comunque durante la nostra esperienza abbiamo trovato diverse opportunità di confronto e collaborazione con realtà locali affini.
Con la situazione generale attuale il tutto si complica, siamo comunque speranzosi che con il ripristinarsi delle cose ci possa essere modo di portare avanti queste collaborazioni e creare qualcosa di interessante.

M.V.: C’è modo di poter condividere qualche occasione live, ma sempre meno confronto. Ci sono diverse giovani realtà veramente interessanti ma tutte, o quasi, tendono a “seminare nel proprio orticello” innescando un meccanismo poco producente. Questo crea un effetto domino che penalizza un po’ tutti.

Esulando per un attimo dal mondo The Forty Days e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

G.P.: Sento di dover rispondere con un “non saprei”. Sono una persona che legge troppo poco, che guarda poco cinema e che non si interessa di arte immaginativa. Però sono un appassionato di Pizza, di impasti lievitati. Qualcuno la chiama “arte bianca”. Adoro impastare. Può sembrare uno scherzo, ma ti assicuro che il mondo della Pizza è infinito, pieno di dettagli tecnici, tecnologici e culinari. In un certo senso è arte anche questa. L’odore del pane appena sfornato è un’emozione a cui non vorrei mai rinunciare, quasi alla pari delle emozioni che ritrovo ascoltando i miei artisti preferiti.

D.V.: Onestamente non svolgo altre attività artistiche ora come ora, anzi, sono laureato in informatica e faccio lo sviluppatore software, quindi, oltre la musica, ho una vita molto “logica”. A dire la verità, avendo una figlia di poco più di un anno, non ho più tantissimo tempo per fare troppe cose!

G.M.: Al momento no, da piccolo devo dire che ero più attivo a livello artistico, ma col passare degli anni non ho portato avanti altre attività artistiche se non quella della musica sotto varie forme.

M.V.: Purtroppo no… In passato ho avuto passione per il disegno e ultimamente mi sto riavvicinando alla lettura… Poi mi piace il bricolage… ma non le considererei proprio attività artistiche!

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

G.P.: Sul mio podio ci finiscono gli album che non mi stanco mai di ascoltare e che quindi mi definiscono in quanto artista: al primo posto ci metto “Forse le lucciole non si amano più” della Locanda delle Fate. È il primo album di Prog Italiano che ho ascoltato. Spesso “ho bisogno” di riascoltarlo. Magico. Al secondo posto metto “Animals” dei Pink Floyd. Non c’è molto da dire su questo album. Per me è l’apoteosi del sound e delle atmosfere pinkfloydiane. Al terzo posto metto “Breakfast in America” dei Supertramp. Lo ascoltavo sempre quando facevo lunghi viaggi in macchina con i miei.

D.V.: Più che citare un singolo album, parlo di artisti: al primo posto direi sicuramente Pink Floyd e David Gilmour, al secondo Steven Wilson, con e senza Porcupine Tree, al terzo direi Supertramp, forse, ma potrei rimanere indeciso per settimane. In realtà mi piace molto la musica rock in generale e, ovviamente, ascolto tanti chitarristi.

G.M.: Me lo devo inventare qui sul momento il mio podio. Penso possa essere qualcosa del genere:

– Animals as Leaders, “Joy of Motion”

– Museo Rosenbach, “Zarathustra”

– Locanda delle Fate, “Forse le lucciole non si amano più”

A livello di background individuale in fatto di ascolti, mi piace sentire davvero qualsiasi genere di musica, dalla techno più spinta al jazz, tuttavia non sono legato a un gruppo o a un artista in particolare.

M.V.: Ho ascoltato a lungo hard rock e metal internazionale (Dream Theater, Iron Maiden, Metallica), rock italiano (Litfiba, Timoria, Ritmo Tribale, Afterhours) e sono cresciuto col cantautorato che ascoltavano i miei genitori (De André, Guccini, Zero)… Se vogliamo, artisti che sono stati “prog” ognuno a suo modo!

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

G.P.: Purtroppo non riesco a dedicare all’arte il tempo che merita. Dal mio piccolo, posso solo confessare che, ultimamente, sono rimasto impressionato da Jacob Collier, un prodigio del mondo della musica. Non si può che restare a bocca aperta ascoltandolo. Recentemente ha pubblicato il suo ultimo album e l’ho trovato davvero diverso. Ecco, penso che avere punti di riferimento come il suo possa essere solo un bene per le generazioni future.

D.V.: Leggo poco e niente, è sempre stato un mio grande problema. Piuttosto che andare su territori dove ho sì dei gusti, ma di cui non mi ritengo sufficientemente esperto, preferisco citare un chitarrista che mi ha rapito ultimamente e che vale la pena cercare se non conoscete: Chris Buck, un tocco e un modo di suonare che stregano, senza bisogno di tecnicismi esasperati.

G.M.: Nel corso della mia esperienza alla batteria sono venuto a conoscenza di diversi batteristi davvero fenomenali e, fra tutti, quello che mi sento di consigliare come ascolto, ma anche per la sua evoluzione e la sua storia molto curiosa, è Jojo Mayer.

M.V.: “L’alchimista” di Paulo Coelho e “Un’aquila nel cielo” di Wilbur Smith…. generi e storie completamente diversi: due belle letture.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

G.P.: Non è un bel futuro quello che ho in mente. Ascoltare solo la musica in cuffia, o da un impianto hi-fi, ti fa scordare le emozioni di un concerto live. E non è solo un problema di come si ascolta. Il problema è anche di cosa si ascolta. Non mi pongo paletti. Non lo faccio da tanti anni ormai. Diciamo che apprezzo la buona musica, quella fatta con gusto, prodotta e arrangiata sapientemente. La deriva che sta prendendo la musica che viene ascoltata mi preoccupa. È come se ci fosse un’anestesia nell’aria che ci impedisce di distinguere tra arte e industria. I grandi artisti degli anni ’60 e ’70 moriranno presto di questo passo.

D.V.: Non sono ottimista dato il trend degli ultimi anni, emergenza a parte. La pandemia finirà e a quel punto, purtroppo, i locali dove suonare si saranno ulteriormente dimezzati, tanti addetti ai lavori sono passati a fare altro nella vita, per cui suonare live sarà ancora più difficile. Complicato fare una previsione ora, non rimane che sperare nell’entusiasmo della gente nel ritrovare una vita normale. Ma questo non solo per quanto riguarda la musica.

G.M.: Credo che questa situazione ci abbia messo a dura prova sotto tutti i punti di vista, nella musica come in altri ambiti, e penso che chi riesce ad adattarsi meglio ha la possibilità di resistere ed andare avanti nel miglior modo. In questo momento si fa sentire molto l’esigenza di affidarsi agli strumenti del web (come lo streaming) per continuare a far crescere i propri progetti musicali, cosa che abbiamo in mente di sperimentare anche noi Forty nel futuro prossimo. Tuttavia credo che questa componente sarà sempre più importante nello scenario musicale generale ma non penso che possa mai sostituire i formati di fruizione musicale più classici, in particolare penso, e spero, che come sarà nuovamente possibile l’esibizione musicale in pubblico, la maggior parte delle persone avrà una sorta di bisogno irrefrenabile di tornare a godersi quei momenti.

M.V.: Spero e mi costringo a credere e pensare che l’emergenza Covid, e la pandemia attuale in ogni suo aspetto, possa essere solo una parentesi in una vita intera. Una meteora. Qualcosa di passaggio, che i bambini leggeranno sui libri di storia… Ne usciremo, ma ne usciremo cambiati. La musica utilizzerà canali alternativi finché non potrà tornare alla normalità dei concerti negli spazi aperti con migliaia di persone e nei locali tutti pressati sotto ad un palco. Non immagino futuro roseo per la musica se non con il ritorno alle esibizioni dal vivo. Continueremmo comunque a suonare, ma non avrebbe lo stesso senso.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?

G.P.: Ho un bellissimo ricordo del contest “Emergenza Festival”. È stato il momento dove ho iniziato a capire quanto valore potesse avere quello che stavamo facendo. Ci eravamo iscritti per suonare live, visto che i locali non ci davano molto spazio per il discorso degli inediti. La prima serata ci ha caricati: il conduttore del festival ci aveva fatto grandi complimenti e il pubblico ci votò nonostante non avessimo nessun amico in sala. Abbiamo continuato fino alla finale regionale dove, per una differenza ridicola, arrivammo secondi. Quella fu l’esperienza che ci ha spinto davvero a credere nella nostra musica.

D.V.: Sono d’accordo con Giancarlo sul ricordo dell’Emergenza Festival, che ha dato il via a tutto.
Gli aneddoti più divertenti, purtroppo, non sono raccontabili qua, ed è un peccato.
Ricordo con piacere il giorno in cui abbiamo fatto il servizio fotografico per l’album con la nostra amica Laura Messina, una bravissima fotografa. Siamo andati a scattare foto sulla spiaggia con libeccio a tipo 90 chilometri orari. A parte i nostri finti sguardi penetranti, dovuti più che altro alla sabbia negli occhi, era bello vedere Giancarlo preoccupato per il suo synth Sledge, che aveva portato e che rischiava di riempirsi di sabbia. Era già uno strumento parecchio bersagliato da battute e prese in giro da noi altri, perché vistosamente giallo e tutto in plastica: diciamo che da lì in poi la cosa è andata totalmente alla deriva.

G.M.: Penso valga la pena citare una mia gaffe avvenuta durante un’intervista radio, che ormai ha segnato la mia rispettabilità all’interno del gruppo.
Ci trovavamo al nostro luogo di ritrovo sacro per qualsiasi evenienza musicale, il Rock Village, che ormai è una seconda casa per noi, perché dovevamo tenere un’intervista radiofonica. L’intervista andava molto liscia e rilassata, fin quando ci è stato chiesto di raccontare un po’ quale fosse il nostro setup a livello di strumentazione personale: io, molto rilassato, ma allo stesso tempo sicuro e fiero della mia meravigliosa batteria (che, in realtà, è una Tama in Betulla e Bubinga), rispondo all’intervistatore che “dopo tanti sacrifici, finalmente sono riuscito a permettermi una fantastica batteria Tama StarClassic in ABETE e Bubinga”, al che l’intervistatore da un cenno di assenso, io continuo con la descrizione dei vari piatti e della batteria (ignaro di aver appena detto di possedere una batteria fatta in parte in abete), mentre i restanti Forty se la ridevano già sotto i baffi.
Da quel momento i miei compagni Forty mi ricordano spesso, in sala prove, come suona bene la mia batteria in abete.

M.V.: Beh, ci sarebbe più di un aneddoto da raccontare… e alcuni non sono neanche raccontabili…. Un bel messaggio da passare è certamente il fatto che in questi primi anni siamo riusciti a far andare tutto liscio condividendo veramente ogni scelta. Cosa non scontata!

E per chiudere: c’è qualche altra novità sul prossimo futuro dei The Forty Days che vi è possibile anticipare?

G.P.: Lascio la parola a Dario, con cui tanto siamo allineati.

D.V.: Al momento stiamo ultimando la preproduzione del nuovo album. Cercheremo di andare in studio a settembre 2021, per far uscire il disco nella tarda primavera 2022, sperando di poterlo presentare dal vivo a quel punto. Personalmente ho già un’idea per il terzo album, per cui inizierò a breve a proporre nuove idee al gruppo.

G.M.: Tutto sempre molto incerto, ma nell’immediato futuro aggiungo che ci piacerebbe eseguire qualche serata dalla nostra sala prove in streaming: non sappiamo ancora la piattaforma o le modalità ma ci stiamo organizzando per fare qualcosa che possa essere piacevole e interessante.

M.V.: Suonare, suonare, suonare, suonare… il più possibile! “È uno sporco lavoro… ma qualcuno dovrà pur farlo!”.

Grazie mille ragazzi!     

G.P.: Grazie a te! Ciao!

D.V.: Grazie mille a te, ciao!

G.M.: Grazie, a presto!

M.V.: Grazie mille a te… e buona musica!

(Marzo, 2021 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 2. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)

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