Mettersi in proprio

«E poi?».
«Ma ve l’ho già detto più volte. Poi ho deciso di spendere quei soldi».
«E poi?».
«E poi la polizia m’ha beccata, interrogata, tenuta dentro per qualche giorno, poi voi mi avete rintracciata e ora sono qui» disse piagnucolando.
«Ricapitoliamo. Il giorno della rapina alla Banca delle Puglie ti sei ritrovata con una valigetta zeppa di soldi, la nostra, nella tua auto. Ignori chi sia stato a metterla lì. Hai trovato solo un bigliettino con scritto “Custodiscili per me. Tornerò presto”. Poi hai portato i soldi a casa, impaurita, indecisa sul da farsi. Giusto sin qui?».
«Si».
«Volevi portarli alla polizia ma avevi anche paura del proprietario. Sicuramente, visto il bigliettino, ti conosceva e sapeva dove abitavi, tu però neghi di conoscerlo. Allora hai atteso qualche giorno, una settimana, e non vedendolo arrivare, la tua paura è diventata quasi una sfida tra lui, o lei, e te stessa. Hai deciso di spendere quei soldi. Tutto bello finché uno scrupoloso negoziante non ha verificato il numero di serie delle tue banconote con quelle diffuse dalla polizia, sei stata denunciata e poi arrestata. Confessi subito, restituisci quanto ancora in tuo possesso, pochi giorni al fresco e, infine, torni a casa. Poi entriamo in gioco noi e ora eccoci qui».
La sintesi del racconto, quest’ultimo ripetuto sino allo sfinimento dalla donna sulla sedia, fu fatto da Amelia Cunzi, chiamata La Precisa per via della sua meticolosità. Con il suo sguardo glaciale osservava fissamente Licia Ortenzi, donna di poco oltre trent’anni posta di fronte a lei, seduta su una sedia in legno non eccessivamente comoda, terrorizzata e in lacrime.
Poco dietro la longilinea figura dai capelli color del sole, riflessive, vi erano Lucrezia Robbia, era La Madre, il capo, e Manola Pira, detta Mano fredda. Il trio, fino a poco tempo prima un settetto, da poco divenuto un quintetto, era l’ormai nota Banda delle gonne rosse, abile gruppo criminale che da oltre tre anni non sbagliava un colpo in fatto di rapine in banca e in villa. Quel nome fu coniato da un giornalista che, per rendere più appetibile la notizia, una volta divenuta di dominio pubblico l’essenza femminile della banda, aveva optato per un’etichetta di facile presa, nonostante il dettaglio vermiglio fosse solo una sottile striscia di nylon legata al braccio destro.
La Madre, legando dietro la nuca i suoi lunghi capelli corvini, in tinta con l’abbigliamento, fece un cenno e chiamò a sé La Precisa.
«Sembra quasi convincente. Ragazze, voi che ne pensate? È sincera?» chiese alle due compagne.
«Da come frigna sembra davvero non conosca la stronza, che intanto s’è volatilizzata, ma qualcosa ancora non mi quadra» rispose secca Mano fredda.
«Quindi quel “Custodiscili per me. Tornerò presto” dici che non era diretto a te?» chiesa affabilmente La Madre.
«No, ve l’ho già detto più volte. Non so davvero chi sia la persona che ha lasciato quella valigetta. Mannaggia a me e a quando ho deciso di tenerla e spendere quei soldi. Avrei dovuto dar retta al mio primo pensiero, consegnarla alla polizia» rispose quasi sfiancata Licia Ortenzi.
«E poi perché non l’hai fatto?».
«Tutto quel denaro. Non l’avevo mai visto. Ho pensato che, forse, per una volta, la fortuna fosse dalla mia parte e ho deciso di tenerli e spenderli» disse singhiozzando.
La Madre osservò nuovamente Manola e Amelia, poi concluse: «Lasciamola riflettere un altro po’, forse qualche altro dettaglio verrà a galla. Manola legala».
«No, aspettate! Non lasciatemi qui!» urlò terrorizzata.
Mano fredda, con freddezza, immobilizzò alla sedia la donna. Poi il trio lasciò la stanza dirigendosi in quella attigua.
«Novità da Patrizia e Luna?» chiese La Madre una volta raggiunto il nuovo ambiente.
«Nessuna. Tra poco andiamo da loro per il cambio di guardia».
«Va bene. A dopo allora».

“Appena riesco ad arrivare in città giuro che la faccio fuori” pensò rabbiosa Adele Bellini, dopo aver appreso i dettagli sul recupero dei soldi della rapina alla Banca delle Puglie fatto dalla polizia.
Adele Bellini era la “stronza”, fino a circa un mese prima, invece, era stata la Silenziosa, uno dei sette membri della Banda delle gonne rosse.
Da quasi un mese era nascosta in un capanno fintamente abbandonato situato sul monte Sezzi, a oltre duecento chilometri dalla città. Un rifugio sicuro procurato da amicizie sicure. Quella notte, oltre alla consueta razione di viveri che riceveva nel buio più totale, trovò nella busta di carta anche il quotidiano del giorno.
Per l’esattezza erano trascorsi ventisette giorni dalla rapina e, da programma, il tempo di permanenza sarebbe stato decisamente più lungo in attesa che le acque si fossero quietate un minimo, ma ora i piani erano cambiati. La decisione era presa, tornare in città per sistemare l’imprevisto e mettere in piedi una nuova strategia.

«Ciao ragazze. Novità?».
Quasi due ore dopo l’uscita di scena di Manola e Amelia, La Madre riceveva gli altri due membri del quintetto, Patrizia e Luna.
«Ciao. No, nessuna. Niente chiamate, niente visite, niente di niente» rispose Luna Sbrini, l’Altissima, per via della sua statura oltre la media.
Da tre giorni, da quando Licia Ortenzi era diventata “ospite” della banda, le quattro gonne rosse, a turno, presidiavano la sua casa nella speranza di una visita della stronza.
«Va bene, andate pure a riposare un po’. Io intanto provo a sentire qualche altro amico. È stata molto abile nel far perdere ogni sua traccia ma la troveremo».

«Solita tattica: entriamo rapidamente, il denaro fresco è giunto poco fa, quindi, solito sparo al soffitto per far sciogliere immediatamente gli operatori o il direttore e farci consegnare tutto, e mentre io prelevo tu tieni in ostaggio i clienti, non dovrebbero essere in tanti a quest’ora. Ok? Rapido e indolore».
«Si, andiamo».
Mentre tornava in città, nascosta tra le casse di birra posizionate nel retro di un anonimo furgone, nella mente di Adele Bellini, la stronza, riaffioravano gli istanti della rapina.
Andò tutto da programma, tranne un particolare sul finire.
«Tu resti qui» disse Adele, cinica, a Sara Magnaghi, il Braccio destro.
«Cosa? Sbrigati e andiamo» rispose un po’ spiazzata la compagna.
«No, tu resti qui» e tentò di colpirla alla nuca con il calcio della pistola.
Sara riuscì ad evitare il colpo e si avventò addosso alla Silenziosa.
«Ma che cazzo fai? Sbrigati che tra poco qui sarà pieno di poliziotti!» le urlò contro il Braccio destro.
Davanti agli occhi di uno sbigottito pubblico, la colluttazione durò diversi secondi, poi quell’esplosione. Un proiettile era partito dall’arma di Adele e aveva colpito in pieno petto Sara.
Quasi smarrita Adele si guardò intorno, prese la valigetta con il bottino, diede un’ultima occhiata all’ex compagna e fuggì. Pochi minuti dopo terminava la vita di Sara Magnaghi.
“Mi spiace per te, Sara, non doveva andare così. Ma te la sei cercata, tutte voi ve la siete cercata”. Pensò Adele osservando il paesaggio dorato da una piccola fessura che si apriva sulla fiancata del furgone, mentre il sole pian piano spariva dietro le colline.

“C’è qualcosa che non mi convince in questa donna”.
La Madre, rimasta sola, osservava in silenzio Licia Ortenzi dalla finestrella posta nella parte superiore della porta in metallo che separava le due donne.
“Perché lasciare il finestrino aperto della propria auto, parcheggiata casualmente nelle vicinanze della banca, in una città in cui rubano anche le caramelle ai bimbi? E quel biglietto, poi, anch’esso è casuale? Per non parlare del rischio di spendere quei soldi con nonchalance”.
Continuò a fissarla, interrogativa.
“Questa donna c’entra qualcosa con tutta questa storia e la farò parlare” concluse toccandosi la sottile striscia di nylon rossa legata al braccio destro.
“Devo farlo, per te, Sara”.

«Lasciami qui» disse Adele bussando tre volte, come convenuto in precedenza, sul freddo diaframma che la divideva dall’autista.
Era giunto il buio e l’abitazione di Licia Ortenzi era poco distante dal punto in cui scese dal furgone. Camminando speditamente verso il civico 47 di Via Pino Zaccheria, la Silenziosa passò davanti ad una vetrina che apparve subito familiare, leggendo poi l’insegna “Stoffe e tessuti” riconobbe il primo negozio svaligiato quasi per gioco. Quel giorno di oltre tre anni prima nasceva quella che poi sarebbe diventata la Banda delle gonne rosse.
«E queste cosa sono?» chiese Adele, una volta raggiunto un luogo sicuro, indicando alcune sottili strisce di nylon rosse che Sara stava estraendo dalla tasca.
«Non lo so, le ho viste nel negozio, mi piacevano e le ho prese. Poi ho pensato subito che la nostra banda dovesse avere un segno di riconoscimento, così da entrare facilmente nell’immaginario collettivo, e credo che questo faccia al caso nostro. Le leghiamo al braccio e diventiamo la “Banda del laccio rosso”, o giù di lì» rispose entusiasta Sara.
«Ma non hai proprio altro a cui pensare? È il nostro primo furto e pensi già a diventare famosa? Famosa poi di che? Siamo delle ladre, non dei personaggi televisivi» ribatté un po’ acida Adele.
«Ogni banda criminale importante ha un segno di riconoscimento e noi diventeremo importanti».
«Tu non stai affatto bene».
«Secondo me, invece, è una bella idea» disse sorridendo Lucrezia, la futura Madre.
«Fate come volete» concluse spazientita Adele.
Fu il primo screzio di una storia che non poteva continuare.
Adele sapeva che il rapporto tra Sara e Lucrezia andava oltre la banda e sapeva anche che questo stretto legame tra le due l’avrebbe tenuta sempre in minoranza in fatto di scelte, così come avvenne quando si decise di allargare il gruppo e scegliere un capo. Sara non aveva dubbi su quest’ultimo punto: Lucrezia era perfetta. Adele, invece, no, voleva il comando. Nacque in quel giorno, gradualmente, la volontà di tradire la banda e creare un proprio gruppo di cui essere la guida. Trascorse i mesi seguenti alla ricerca di persone fidate da cui ripartire e il momento adatto in cui chiudere dietro di sé la “porta rossa”. Sbagliò entrambe le scelte.
Intanto Adele era giunta al civico 47. Non fu un problema per lei aprire il vecchio portone del palazzo, stesso dicasi per la porta dell’appartamento del secondo piano, interno 5. Sul campanello il nome Ortenzi.
“Tutto spento. Spero sia già a letto, così faccio un lavoro rapido e vado via” pensò estraendo dalla tasca il sottile coltello dalla lama affilatissima.
Individuata la camera da letto, superò silenziosamente la soglia. Improvvisamente la luce del semplice lampadario vitreo s’accese e la colse impreparata.
«Sorpresa di vedermi qui?» chiese ghignando La Precisa seduta su letto.
«Ca…».
Non riuscì a terminare l’imprecazione, un colpo alla nuca la privò dei sensi.

«Madre, guarda chi abbiamo qui?».
Mano fredda e La Precisa, dopo aver caricato in auto il corpo temporaneamente morto della stronza, fuggirono verso il quartier generale.
«Brave ragazze. Svegliatela».
Dopo alcuni schiaffi e dell’acqua gelata in viso, Adele Bellini, la Silenziosa, la stronza, tornò nel mondo dei vivi.
«Hai finito di nasconderti come una ladra? Ah, dimenticavo, tu sei una ladra. E un’assassina» disse diretta La Madre.
Adele non rispose.
«Dai, raccontami un po’ di cose. Dove sei stata tutti questi giorni? E perché hai fatto questo a noi? A Sara?».
La Silenziosa continuò a confermare il suo soprannome.
«Hai perso la lingua? O giochi a fare la dura?» continuò La Madre, prima di fare un rapido cenno con gli occhi a Manola.
Un pugno imprevisto colse di sorpresa la stronza.
«Allora? Non vuoi proprio dirci nulla?».
Adele allora aprì la sua bocca, ma solo per sputare sul volto della sua interrogatrice.
«Complimenti».
Mano fredda la raggiunse con un nuovo colpo, questa volta sul viso.
«Vediamo se per caso ti torna la voce nell’altra stanza».
Manola afferrò con veemenza il braccio destro della Silenziosa e spinse senza cortesia l’ex compagna verso la stanza che custodiva l’altra ospite, mentre La Precisa apriva la porta metallica.
«Anche tu qui?».
Un incrocio di sguardi e una domanda inopportuna. Poi due esplosioni in rapida successione. L’interrogatorio poteva ritenersi concluso positivamente.

(pubblicato nell’antologia “Marenoir 2017” – Cordero Editore, 2017)

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