Fare del bene o fare del male? Fare del bene ma farlo male

Aveva deciso di farla finita. La vita anonima, da eterna precaria presso il laboratorio chimico Avogadro, non era mai stata un peso per Mina perché accanto a sé aveva lui, Tonio, l’uomo dei suoi sogni. Poi, la scoperta di quel tradimento, l’ultimo di una lunga serie che andava avanti da quasi tre anni a sua insaputa, aveva reciso di netto l’unica sua certezza e allora aveva deciso di farla finita. Con dolore.
Aveva indossato il vestito verde, quello con la fantasia floreale su toni scuri, quello con cui era stata definita “incantevole” da Tonio, cinque mesi prima, il giorno del battesimo di Christian, il primo nipotino della coppia, figlio della sorella di lei. Aveva indossato quel vestito perché Tonio, al suo rientro, l’avrebbe forse trovata incantevole anche da morta.
E così, nella sua eleganza, raggiunse il piccolo ingresso della modesta abitazione e, dalla borsa in finta pelle nera che pendeva dall’attaccapanni in legno, estrasse un flacone in vetro. Al suo interno vi era fluoroacetato di sodio, una polvere incolore e inodore, facilmente solubile in acqua e altamente tossica che non aveva avuto difficoltà a reperire nel suo laboratorio. L’avvelenamento da fluoroacetato di sodio si manifesta molto presto con iniziale nausea, vomito e dolori addominali, poi si entra in una prima fase di agitazione. Prosegue con tachicardia o bradicardia, spasmi e convulsioni, sino al coma e alla morte. Aveva deciso di farla finita con dolore.
Si diresse successivamente nell’attigua cucina, poggiò il flacone sul tavolo, afferrò un bicchiere in vetro, quelli della confezione economica da sei a cinque euro, il super-affare del giorno al supermercato sotto casa, e una bottiglia d’acqua, Tonio preferiva acquistare l’acqua in bottiglia, poi fissò per qualche attimo il mondo esterno dalla finestra che dava sulla strada. In realtà fissò il palazzo che affrontava il suo, identica planimetria, identici colori spenti. Riprese il percorso che conduceva alla sua eclissi versando tutto il contenuto del flacone nel bicchiere, poi, diligentemente, gettò il contenitore nel secchio dell’immondizia.
Mina, bicchiere con fluoroacetato di sodio e bottiglia d’acqua si spostarono, infine, nella discreta sala da pranzo, era lì che voleva “incontrare” per l’ultima volta quello che fino a poco tempo prima era stato il suo Tonio. Poggiò i due contenitori sul tavolo e si sedette. Ormai aveva deciso, voleva farla finita. Svitò lentamente il tappo della bottiglia e la alzò per versarla. Poi quelle urla e quei passi rapidi e disperati provenienti dalla tromba delle scale s’inserirono nella sua azione risolutiva. Il suono del campanello fece il resto.
Lasciata la bottiglia si diresse, quasi irrazionalmente, verso la porta e aprì.
«La prego, mi aiuti! Quell’uomo è un maniaco e vuole uccidermi!».
Mina, colpita dalla giovane e scossa figura femminile che aveva di fronte, la osservò, esaminò per pochi istanti quei graffi sul braccio destro e la camicia strappata e la lasciò entrare.
«Grazie! Grazie!» disse con voce squillante ma tremante la ragazza, prima di abbracciarla e inondarla di lacrime.
«Calmati, vieni qui, siediti e dimmi cosa è successo» disse pacatamente Mina sciogliendosi dall’abbraccio e conducendo l’imprevista ospite in sala da pranzo.
«S-sì, grazie» rispose la giovane, con un tono di voce che era diventato rapidamente spento, prima di cadere a peso morto sulla sedia.
«Vuoi che chiami la polizia?».
«No, no. Voglio solo tornare a casa».
«Va bene, però ora tranquillizzati un attimo e bevi un po’ d’acqua» e così dicendo versò l’acqua della bottiglia che era già sul tavolo nel bicchiere suo compagno.
«Sì, grazie» replicò la ragazza bevendo tutto d’un fiato il contenuto del bicchiere.
Le due figure femminili restarono sedute e in silenzio per qualche minuto, Mina, intanto, la osservava notando la scomparsa graduale dell’agitazione.
«Come ti chiami?» chiese la padrona di casa.
«Livia».
«Vuoi raccontarmi cos’è successo, Livia?».
«Sì. Io sono una promoter della società Lucea, quella che gestisce la componente elettrica della nostra città. In pratica propongo le nuove tariffe porta a porta. Come sempre, quando arrivo in un palazzo come questo, parto dall’ultimo piano e scendo verso il basso sperando che qualcuno apra la sua porta e mi ascolti».
«Capisco. E cosa ti è capitato?».
«All’ottavo piano m’ha aperto solo una vecchina che ha troncato subito il discorso. Al settimo, invece, un uomo sulla cinquantina mi ha fatto entrare in casa dicendosi interessato alla cosa».
«Ti ricordi il nome?».
«No, però è l’unica porta accanto all’ascensore».
«Ugo Parenzi».
Livia reagì a quel nome con un tremito, poi riprese.
«Mi ha fatto spiegare tutto e poi mi ha offerto da bere. Io ho declinato l’invito ma lui s’è avvicinato tentando di abbracciarmi. Io mi sono divincolata cercando di dirigermi verso la porta ma lui, con una mano, m’ha afferrato con forza per il braccio, mentre con l’altra ha cercato di strapparmi la camicia. Sono riuscita ad affondare un calcio negli stinchi e a liberarmi a fatica dalla sua morsa. Poi sono fuggita per le scale urlando e mi sono fermata qui da lei al quarto piano quando ho capito che non mi stava seguendo». Interruppe il discorso e iniziò a tremare dalla paura.
«Dai, ora è tutto passato. Calmati» e le passò una mano sulla schiena. Poi aggiunse: «Disinfettiamo quei graffi?».
«Va bene».
Conclusa l’operazione, Mina esaminò con più attenzione i dettagli della ragazza, la camicetta bianca, la minigonna e quel trucco un po’ pesante.
«Ma non è un po’ rischioso andare in giro così in casa degli sconosciuti?» chiese spontaneamente.
«Sì, lo so» rispose arrossendo Livia. E aggiunse: «Purtroppo ci obbligano ad andare in giro così, dicono che renda l’interlocutore più vulnerabile, soprattutto se maschile, e si riesce a vendere di più».
«Immagino».
«A me non piace, però ho bisogno di questo lavoro» disse mestamente la ragazza.
Il dialogo tra le due proseguì ancora per qualche minuto, poi il viso di Livia cambiò colore.
«Ho un po’ di nausea» disse.
«Forse il rilassamento post-panico ti sta portando questa reazione. Vuoi bere un altro po’ o vuoi che ti accompagni in bagno?».
«Non si preoccupi, grazie. Resto un altro po’ seduta e poi vado via».
Livia poi osservò per la prima volta con attenzione la sua salvatrice e disse: «Ma lei forse stava uscendo e io le sto facendo perdere tutto questo tempo, mi spiace».
«Uscendo? Perché pensi questo?» chiese sorpresa Mina.
«Non so, ho notato il suo vestito e ho pensato fosse pronta per andare da qualche parte. È molto elegante comunque, complimenti».
Fu allora che Mina sovvenne. E sbiancò. Nel bicchiere d’acqua che aveva offerto alla ragazza c’era il fluoroacetato di sodio.
Livia notò immediatamente quel repentino cambio cromatico e chiese: «C’è qualcosa che non va?».
«I-io…, n-no…».
Livia d’improvviso vomitò, poi dalla sua fronte cominciarono a stillare copiose gocce di sudore.
«Mi scusi se le ho sporcato tutto ma non mi sento affatto bene» disse con voce debole la ragazza.
Mina la fissava immobile.
«Mi ha sentito? Anche lei sta poco bene?». Livia, pur nella sua condizione poco ottimale, cercava di ottenere una risposta dalla donna. Risposta che non arrivò.
«M-mi gira tutto e sento il cuore che batte a mille» disse poco dopo, con una crescente agitazione, Livia.
Mina ormai era una statua di marmo, bianca e statica.
Pochi minuti dopo la ragazza provò ad alzarsi dalla sedia ma cadde immediatamente sul pavimento in preda alle convulsioni.
«A-aiuto…, l-la prego m-mi aiuti», provò ad abbozzare una richiesta di soccorso ma la donna non accennava a reagire.
Non trascorse molto tempo e la ragazza, ancora distesa a terra, perse conoscenza.
La mente razionale di Mina restò distante da quella situazione per un tempo indefinito. Al suo ritorno trovò la ragazza ormai morta. La fissò con uno sguardo comunque vacuo, privo di emozioni. Istintivamente, allora, si alzò e si diresse verso la finestra che dava sulla strada principale. Aprì le due imposte in alluminio grigio, avvicinò il piccolo sgabello che era posto lì vicino, quel seggiolino che la ospitava nelle domeniche invernali trascorse da ricamatrice, salì su con entrambi i piedi e saltò.

(pubblicato nell’antologia “I racconti di Cultora – Vol. 3” – Historica Edizioni, 2018)

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