L’uomo degli scogli

«E poi?».
«E poi nulla, sto qui».
«Perché?».
«Perché sto bene qui».
Seduto su uno scoglio dalle sfumature cangianti a picco sul Mare Adriatico, in un piccolo anfratto nascosto dalle spiagge garganiche prese d’assalto dai turisti in estate, l’uomo dalla carnagione scura, i lunghi capelli argentei carezzati dalla brezza, i segni del tempo e del mare sul viso, gli abiti logorati dal lento passare delle stagioni, chiamato semplicemente Ninetto, nessuno conosceva il suo vero nome, nessuno conosceva la sua età, nessuno conosceva la sua vita, fissava un punto nello sconfinato orizzonte, invisibile al suo vicino.
Sebastiano Santucci, redattore del quotidiano locale, figura filiforme dal naso aquilino che sosteneva un paio di occhiali dalla spessa montatura metallica, capelli sparuti e abbigliamento di lino bianco candido, scrutava incuriosito il suo interlocutore.
La strana storia di quel bizzarro personaggio che trascorreva solitario le sue giornate ad osservare il mare, battezzata banalmente “Il vecchio e il mare” da un suo collega, era giunta alle sue orecchie alcuni giorni prima. Stuzzicato dall’idea, Sebastiano aveva deciso di tentare un approccio per conoscere meglio, e far conoscere ai lettori del suo quotidiano, la storia di un uomo distante dalla vita contemporanea.
«Come vivi?».
«Grazie a lui» rispose Ninetto indicando l’immensità azzurra davanti ai suoi occhi.
«E cosa mangi?».
«Tonino».
«In che senso?».
«Tonino mi dà da mangiare». Tonino era il titolare del ristorante “Il pesce d’oro”, situato a poco più di quattrocento metri dal luogo in cui si trovava la coppia.
«Perché?».
«Gli porto i granchi».
«Ma io non ti vedo pescarli».
«Tra poco».
Ninetto aveva accolto con indifferenza l’arrivo di quel giornalista, raramente qualcuno gli si avvicinava. Il suo aspetto e i suoi comportamenti mettevano a disagio, quasi intimorivano, chi s’imbatteva in lui.
«Da quanto tempo vivi qui?».
«Da sempre».
«E non hai una famiglia, dei parenti?».
«Ho lui» disse indicando nuovamente il mare senza mai voltarsi a guardare in viso il suo intervistatore.
Sebastiano questa volta seguì con lo sguardo il gesto dell’uomo e si fermò ad osservare la placida distesa d’acqua.
D’un tratto, Ninetto estrasse da una tasca un bastoncino che fungeva da supporto ad una sottilissima lenza, legata al centro dello stesso, con un amo fissato alla sua estremità libera. Poi, da un’altra tasca malconcia, levò una scatoletta contenente dei pezzettini di pesce, ne prese uno e lo fissò al minuscolo strumento metallico ricurvo calandolo, infine, tra gli anfratti degli scogli. Pochi secondi dopo un lieve strattone. Ninetto tirò con uno scatto verso l’alto la lenza che ne mostrò la causa di quell’azione-reazione: un granchio che stringeva con la sua chela destra l’esca. Con una semplicità disarmante l’uomo staccò il crostaceo dall’amo e lo pose in un secchio in plastica incastrato tra le rocce che solo in quel momento Sebastiano riuscì a notare.
«Sei molto abile».
«Così sembra».
«Quanti granchi riesci a prendere ogni giorno?».
«Dipende da lui» e indicò il mare con un gesto della testa mentre le sue mani erano intente nel sistemare nuovamente l’esca all’amo.
La pesca andò avanti per un tempo indefinito. Sebastiano, inizialmente, cercò di tenere il conto dei molluschi tirati su, poi fu distratto dalla ripetitività ipnotica delle operazioni dell’uomo, dalla tecnica costante e infallibile, e il numero totale sfumò. Poté solo notare il secchio quasi colmo di decapodi che lottavano invano per uscirne.
«Ti sei conquistato il pasto di oggi?».
«Spero di sì».
«Quanti ne hai pescati?».
«Non li conto mai. Mi basta vedere il secchio pieno, o quasi».
«E ora li porti da Tonino?».
«Non subito. Prima attendo».
«Cosa?».
Ninetto non rispose e continuò a guardare fisso davanti a sé. Sebastiano per un attimo pensò che l’uomo fosse in attesa di qualcosa e volse anche lui lo sguardo verso il mare, rispettando per diversi minuti quel silenzio infranto solo dalle lievi onde che incessantemente colpivano gli scogli.
«Hai una casa?».
«Non mi serve».
«E dove abiti? Dove dormi?».
«Qui».
Sebastiano si osservò intorno per cercare una struttura, un giaciglio, la dimora che ospitava, almeno durante la notte, quell’uomo. Non scorse nulla. Il suo occhio cadde, però, per pochi secondi, su quella che sembrava una lunghissima staccionata, per nulla lineare, quasi un’installazione d’arte contemporanea, realizzata con rami secchi di foggia eterogenea che si perdeva tra la limitata lingua di sabbia e la macchia verde che si estendevano alle loro spalle.
«Posso scrivere un articolo sulla tua vita?».
«Tu non conosci la mia vita».
«E allora posso scriverlo su questa giornata?».
«Fai ciò che vuoi».
All’improvviso Ninetto si alzò senza distogliere mai la vista dal mare. Sebastiano seguì incuriosito l’evolversi di quel comportamento che, per alcuni minuti, non aggiunse altro. Poi udì un “toc” netto, distinto. Un ramo morto, levigato dalle acque saline, era comparso dal nulla, dopo un viaggio ignoto, e aveva terminato la sua navigazione contro le rocce.
L’uomo, allora, si spostò di poco verso destra, dove uno scoglio più basso permetteva di raggiungere facilmente, o quasi, l’acqua, e, mentre con una mano assicurava la presa alla roccia, si abbassò quel tanto che bastava per afferrare il ramo.
Ripresa la sua postazione iniziale, Ninetto raccolse il secchio dei granchi e, senza dire una parola, abbandonò il suo interlocutore e lasciò la scogliera dirigendosi verso la spiaggia.
Raggiunta la distesa di legni morti, poggiò per qualche secondo il secchio a terra, piantò al suolo con cura il ramo recuperato poco prima e osservò soddisfatto la sua creazione. Infine, riafferrò il secchio e si allontanò.
Sebastiano guardò affascinato l’inconsueto rituale, in seguito estrasse dalla tasca il suo smartphone e immortalò quella figura che, lentamente, scompariva tra la stravagante palizzata e la vegetazione. Poi si voltò e restò solo ad osservare il mare.

(pubblicato nell’antologia “Emozioni 2019” – Eterna, 2019)

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